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Perché gli adulti che sviluppano il morbo di Alzheimer e la demenza sono più giovani?

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Renovatio 21 traduce e ripubblica questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense.

 

Renovatio 21 offre la traduzione di questo pezzo di CHD per dare una informazione a 360º.  Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

Alla fine di febbraio, Blue Cross Blue Shield (BCBS) ha pubblicato un inquietante rapporto che evidenzia il numero crescente di giovani adulti americani con diagnosi di demenza precoce e morbo di Alzheimer (AD). Analizzando il quadriennio 2013-2017, BCBS ha riportato un aumento del 200% nelle diagnosi di demenza e AD tra gli assicurati dai 30 ai 64 anni di età. A partire dal 2017, circa il 15% degli americani assicurati più giovani che hanno ricevuto una delle due diagnosi aveva un’età compresa tra i trenta e i quarantacinque anni.

Un inquietante rapporto evidenzia il numero crescente di giovani adulti americani con diagnosi di demenza precoce e morbo di Alzheimer

 

I risultati del BCBS rafforzano le scoperte di precedenti studi. Nel 2014, i ricercatori britannici hanno riferito che il numero di persone con meno di 65 anni che sviluppavano la demenza era «il doppio di quanto si pensasse in precedenza.» L’anno successivo, i ricercatori che osservavano le tendenze ventennali della demenza negli Stati Uniti e in altre nazioni occidentali hanno riferito che i casi di demenza si verificavano «dieci anni prima rispetto al passato».

 

L’abbassamento dell’età in cui si verificano i primi segnali di demenza dà un nuovo significato allo slogan vecchio di decenni reso popolare dal United Negro College Fund che recita: «Una mente è una cosa terribile da sprecare». Con i sintomi iniziali che possono includere «depressione, cambiamenti comportamentali, disturbi neurologici, disturbi sistemici e lieve deficit cognitivo», la demenza precoce può costringere gli individui al pensionamento anticipato e causare difficoltà finanziarie – o peggio.

 

Uno studio irlandese pubblicato nel 2019 ha scoperto che le persone con demenza giovanile «più comunemente muoiono per complicanze della demenza» rispetto ad altre malattie, anche se quasi nove su dieci hanno anche almeno una malattia da comorbilità. La BCBS la pone così: i giovani adulti che vivono con demenza o AD «vivono solo al 63% della salute ottimale, causando una perdita di 11 anni di vita in salute».

 

 

Non normale e (principalmente) non genetica

La Mayo Clinic osserva che mentre l’età è un fattore di rischio, la demenza non è «una parte normale dell’invecchiamento». Questa osservazione è tanto più pertinente se si considerano le persone che sviluppano la demenza nei primi anni di età lavorativa. Come in molte altre condizioni croniche, i ricercatori hanno cercato di attribuire la colpa dell’aumento dei tassi di demenza alla genetica, spesso senza successo. Le stime suggeriscono che mentre l’11% circa dei casi di Alzheimer giovanile (e forse l’1% dei casi di Alzheimer in generale) mostrano una mutazione genetica che si verifica nelle famiglie, la maggior parte dei casi non ha una spiegazione genetica.

Le stime suggeriscono che mentre l’11% circa dei casi di Alzheimer giovanile (e forse l’1% dei casi di Alzheimer in generale) mostrano una mutazione genetica che si verifica nelle famiglie, la maggior parte dei casi non ha una spiegazione genetica

 

Inoltre, l’Alzheimer è solo una piccola parte del più ampio enigma della demenza in quelli che ne soffrono in età più giovane. Mentre la maggioranza – ben oltre la metà – degli adulti più anziani (oltre i 65 anni) con demenza ha anche il moro di Alzheimer, l’Alzheimer da solo rappresenta appena un terzo dei casi di demenza nei giovani adulti. (Da un altro punto di vista, si può dire che solo dal 5% al 6% degli americani con Alzheimer ha meno di 65 anni).

 

Le forme più frequenti di demenza nei soggetti di età inferiore ai 65 anni includono la demenza frontotemporale –una brutta condizione che causa perdita di empatia, disinibizione, apatia, consumo eccessivo di cibo e perdita di memoria – e demenza vascolare, collegata a condizioni croniche dilaganti come obesità, diabete e ipertensione. È interessante notare che un crescente corpus di ricerche concettualizza effettivamente l’Alzheimer come diabete di tipo 3 o «diabete del cervello» a causa delle «caratteristiche molecolari e biochimiche che si sovrappongono» con i tipi di diabete 1 e 2.

Un crescente corpus di ricerche concettualizza effettivamente l’Alzheimer come diabete di tipo 3 o «diabete del cervello»

 

 

Se non la genetica, allora cosa?

Uno studio pubblicato alla fine del 2019 ha valutato i fattori di rischio non genetici per due tipi di demenza ad esordio giovanile, considerando una serie di rischi legati alla demografia, allo stile di vita e alla storia clinica. I ricercatori hanno scoperto che i fattori non genetici in combinazione conferivano un rischio maggiore rispetto a qualsiasi fattore singolo, con ogni ulteriore esposizione che aumentava il rischio di demenza nella mezza età del 28%. Gli autori hanno concluso che alcuni soggetti con demenza ad esordio giovanile «sperimentano un’esposizione permanente al rischio sin dai primissimi anni di vita».

 

Sempre sul tema della genetica, alcuni ricercatori hanno suggerito che le condizioni neurodegenerative dell’infanzia che si presumevano essere genetiche – come i disturbi mitocondriali, i disturbi correlati agli enzimi e le anomalie della guaina mielinica – a volte affiorano in ritardo e si manifestano come demenza che si manifesta dai primi anni dell’età adulta. Da notare che altri studi hanno collegato lo sviluppo anomalo della mielina alla “psicopatologia” negli adolescenti e nei giovani adulti.

 

Per alcuni ricercatori, il forte legame tra malattie neurodegenerative e demenza indica come probabili colpevoli le esposizioni ambientali anziché la genetica

Per alcuni ricercatori, il forte legame tra malattie neurodegenerative e demenza indica come probabili colpevoli le esposizioni ambientali anziché la genetica. In uno studio ventennale (1989-2010) sulle tendenze della demenza in adulti di età compresa tra 55 e 74 anni in 21 paesi sviluppati, gli Stati Uniti hanno registrato il maggiore aumento (82%) del totale dei decessi neurologici, definito come «Alzheimer e altre demenze» oltre ai morti per “malattie nervose”. Gli Stati Uniti sono passati da diciassettesimi nel 1989 a secondi per il tasso più alto di demenza nella fascia d’età 55-74 nel 2010.

 

Per spiegare i drammatici risultati sia negli Stati Uniti sia negli altri Paesi, l’autore principale ha puntato un dito sui fattori ambientali:

 

«I cambiamenti ambientali negli ultimi 20 anni hanno visto nell’ambiente umano la crescita dei prodotti petrolchimici: trasporto aereo, il quadruplicarsi di autoveicoli, insetticidi e aumenti nel campo elettromagnetico di fondo, e così via»

«Il tasso di aumento in così poco tempo suggerisce un’epidemia silenziosa o addirittura “nascosta”, in cui i fattori ambientali devono svolgere un ruolo importante, non solo l’invecchiamento … I cambiamenti nella morbilità umana, inclusa la malattia neurologica, sono [sic] notevoli e indicano influenze ambientali. [. . .] I cambiamenti ambientali negli ultimi 20 anni hanno visto nell’ambiente umano la crescita dei prodotti petrolchimici: trasporto aereo, il quadruplicarsi di autoveicoli, insetticidi e aumenti nel campo elettromagnetico di fondo, e così via».

 

Alcuni ricercatori citano lesioni cerebrali traumatiche (TBI ), sempre più comuni nei bambini e negli adolescenti, come un altro importante contributo alla demenza precoce. In un articolo del 2014, la dott.ssa Stephanie Seneff del MIT e l’autrice principale Wendy Morley hanno coniato il termine “sindrome da resilienza cerebrale ridotta” per descrivere «un percorso neurologico moderno di maggiore suscettibilità a lievi traumi cerebrali, commozione cerebrale e neurodegenerazione derivata.» Le due hanno dato la colpa alla maggiore vulnerabilità dei cervelli giovani a molteplici fattori ambientali e di stile di vita, compresa l’esposizione al glifosato.

 

In uno studio di JAMA Neurology  del 2008 sulla demenza in soggetti di età inferiore ai 45 anni – in cui l’età media di insorgenza era di 34,7 anni – i ricercatori hanno collegato il 21% dei casi a cause autoimmuni o infiammatorie, tra cui il lupus, l’encefalopatia autoimmune e la sclerosi multipla (SM). I sintomi cognitivi, compresa la demenza, sono alcuni dei più antichi segni riconosciuti di sclerosi multipla – una condizione che comporta la demielinizzazione – con demenza completa presente in circa uno su cinque pazienti con sclerosi multipla.

I ricercatori hanno collegato il 21% dei casi a cause autoimmuni o infiammatorie, tra cui il lupus, l’encefalopatia autoimmune e la sclerosi multipla

 

 

Non dimentichiamo l’alluminio

Nello studio del 2008 del JAMA Neurology, il 19% dei casi di demenza nei pazienti più giovani era di «eziologia sconosciuta, nonostante una valutazione esaustiva» che talvolta includeva la biopsia cerebrale. I ricercatori non hanno menzionato la nota neurotossina dell’alluminio come potenziale contributore, un’omissione sorprendente considerando anche la pubblicazione nel 2001 del libro Aluminium and Alzheimer’s Disease: The Science that Describes the Link, a cura del professor Christopher Exley, uno dei principali esperti mondiali di alluminio. Per decenni, Exley e colleghi hanno cercato di puntare i riflettori sul ruolo dell’alluminio nel morbo di Alzheimer di fronte alla massiccia opposizione e negazione del settore.

 

Risultati «inequivocabili nel confermare il ruolo dell’alluminio in alcuni, se non in tutti i casi di morbo di Alzheimer.»

L’ultimo lavoro del professor Exley e del suo gruppo presenta risultati «inequivocabili nel confermare il ruolo dell’alluminio in alcuni, se non in tutti i casi di morbo di Alzheimer». Lo studio ha rilevato livelli di alluminio elevati, senza precedenti, nel tessuto cerebrale delle persone decedute con il tipo di Alzheimer associato a mutazioni genetiche (AD familiare).

 

Exley ipotizza che queste predisposizioni genetiche possano anche predisporre gli individui ad accumulare alti livelli di alluminio nel cervello «in età molto più giovane.» In altri lavori, Exley ha suggerito che l’alluminio potrebbe anche fungere da «catalizzatore» per l’insorgenza precoce del morbo di Alzheimer nelle persone «senza predisposizioni concomitanti, genetiche o di altro tipo» e propone di considerare l’Alzheimer «come una risposta acuta all’intossicazione cronica da alluminio». Il professor Exley ha anche parlato dei livelli straordinariamente alti di alluminio trovati nel tessuto cerebrale in casi di autismo.

 

 

L’alluminio potrebbe anche fungere da «catalizzatore» per l’insorgenza precoce del morbo di Alzheimer nelle persone «senza predisposizioni concomitanti, genetiche o di altro tipo» e propone di considerare l’Alzheimer «come una risposta acuta all’intossicazione cronica da alluminio».

Proteggere i corpi dei bambini – e le menti

Molte delle condizioni e delle esposizioni correlate alla demenza precoce – diabete, obesitàmalattie autoimmunitraumi cerebraliavvelenamento da glifosato e intossicazione da alluminio tramite vaccini – si verificano a livelli epidemici nei nostri bambini. Anche i campi elettromagnetici (EMF) sono una preoccupazione crescente.

 

La letteratura scientifica collega già l’esposizione ai campi elettromagnetici alla demenza precoce. I sostenitori della sicurezza dei campi elettromagnetici hanno sollevato per anni domande sul legame tra telefoni cellulari e demenza in giovane età, in particolare a causa degli effetti dei telefoni cellulari sulla permeabilità della barriera emato-encefalica. Chiaramente, queste domande hanno un grande significato per il cervello in via di sviluppo dei nostri bambini, innamorati del telefono cellulare e saturi di wireless.

 

Il solo Alzheimer è già la malattia più costosa d’America, che costa di più rispetto alle malattie cardiache o al cancro. Se non invertiamo la rotta delle epidemie di malattie croniche e diminuiamo o eliminiamo le esposizioni tossiche dei bambini, è probabile che il prossimo studio sulla demenza ad esordio precoce presenterà risultati ancora più preoccupanti e ci saranno meno adulti con abbastanza cervello per capirle.

La letteratura scientifica collega già l’esposizione ai campi elettromagnetici alla demenza precoce

 

 

Il Team di Children’s Health Defense

 

 

Traduzione di Alessandra Boni

 

© 30 aprile 2020, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.

 

Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

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Cervello

Paziente Neuralink usa il chip cerebrale per imparare nuove lingue

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Il primo paziente umano della società di interfaccia cervello-computer Neuralink sta ottenendo risultati già sette mesi dopo aver impiantato un chip nel cranio.

 

Noland Arbaugh, che ha perso il controllo degli arti dopo un incidente subacqueo otto anni fa, ha anche un nuovo soprannome per il minuscolo dispositivo a forma di moneta: «Eva».

 

In un lungo post su X, Arbaugh ha rivelato che trascorre circa tre ore al giorno imparando il francese e il giapponese usando nuova tecnologia. Ha persino «deciso di reimparare la matematica da zero in preparazione per sperare di tornare a scuola un giorno».

 

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Al di fuori dei progetti personali, trascorre circa quattro ore al giorno, cinque giorni alla settimana con lo staff di Neuralink, che lo coinvolge «facendo un sacco di esperimenti su base giornaliera per cercare di migliorare tutto per tutti coloro che vengono dopo di me».

 

Arbaugh aveva impiantato il chip l’anno passato e da allora ha imparato a muovere un cursore con la sua mente, permettendogli anche di giocare ai videogiochi.

 

Ma mesi dopo l’esperimento, il paziente ha iniziato a perdere gran parte della funzionalità del chip. A tal proposito gli ingegneri di Neuralink hanno scoperto che alcuni dei fili che collegavano il chip al suo cervello si erano ritirati. Fortunatamente, si è riusciti a intervenire apportando modifiche all’algoritmo e recuperando gran parte delle funzionalità.

 

La società afferma inoltre di aver risolto il problema con il suo secondo paziente umano incorporando i fili ancora più in profondità.

 

Ora che quasi tutte le funzioni sono state ripristinate, Arbaugh spera di tornare ai suoi studi universitari per terminare il suo percorso e conseguire la laurea o passare alle neuroscienze, dal momento che «potrebbe avere qualche intuizione sul campo a questo punto».

 

Il soggetto in questione ha grandi speranze per il chip del cervello e le cose che potrebbe permettergli di fare in futuro. In un tweet ha rivelato che «stiamo aspettando l’approvazione della FDA che mi consente di controllare altre macchine fisiche come un’auto, un drone, forse un robot o due o 10.000».

 

«Qualcosa di fare in modo che sia sicuro…» ha aggiunto scherzosamente.

 

 

Come riportato da Renovatio 21, un anno fa Elon Musk disse che il primo paziente Neuralink era giunto a controllare il mouse del computer con i pensieri.

 

Come riportato da Renovatio 21, negli anni scorsi, in concomitanza con la partenza degli esperimenti sugli esseri umani approvati dall’ente regolatorio americano FDA, era emerso che alle scimmie su cui era stato sperimentato l’impianto erano successe «cose terribili», cosa che Musk ha poi negato.

 

Neuralink, che aveva iniziato con impianti di microchip cerebrali sui suini, non è la prima azienda ad avviare sperimentazioni umane con un’interfaccia cervello-computer. Nel 2022, la società tecnologica con sede a New York Synchron, finanziata dai miliardari Bill Gates e Jeff Bezos, ha già impiantato il suo primo dispositivo per la lettura della mente in un paziente statunitense in una sperimentazione clinica.

 

Vi sono altri casi simili di impianti cerebrali che tentano di aiutare pazienti in condizioni estremamente critiche come quello portato avanti dagli scienziati della Stanford University, che consente ad un uomo con le mani paralizzate di poter «digitare» fino a 90 caratteri al minuto, semplicemente pensando alle parole.

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Anche un colosso digitale come Facebook era interessato alla tecnologia del pensiero degli individui.

 

Chip cerebrali sono stati utilizzati per comandare piante carnivore. Pochi mesi fa è emerso che gli scienziati sono riusciti a far giocare sempre a Pong anche delle cellule cerebrali in vitro.

 

La trasformazione cibernetica della vita umana è uno dei punto focali del transumanismo, predicato sia da entusiasti della Silicon Valley più o meno innocui che da vertici planetari come il Klaus Schwab, patron del World Economic Forum di Davos, che immagina un mondo dove in aeroporto saranno fatte «scansioni cerebrali» per evitare che il passeggero nutra idee pericolose. «Una fusione della nostra identità fisica, digitale e biologica» dice Klaus Schwab.

 

Elon Musk si conferma figura davvero significativa, e potenzialmente apocalittica, del nostro tempo.

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Chip cerebrali, concorrente di Neuralink ripristina la vista nei pazienti ciechi con impianto oculare

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Science Corporation, una startup biotecnologica lanciata da uno dei fondatori di Neuralink, sostiene di aver raggiunto una svolta nella tecnologia dell’interfaccia cervello-computer che può aiutare i pazienti affetti da grave perdita della vista.   Nelle sperimentazioni cliniche preliminari, i pazienti ciechi che avevano perso la visione centrale hanno ricevuto impianti retinici dell’azienda, i quali hanno ripristinato loro la vista e gli hanno persino consentito loro di leggere libri e riconoscere i volti.   «A mia conoscenza, questa è la prima volta che il ripristino della capacità di leggere fluentemente è stato definitivamente dimostrato in pazienti ciechi», ha affermato in una nota il CEO Max Hodak, che è stato presidente di Neuralink prima di fondare Science Corp.

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Il dispositivo, chiamato Prima, è un piccolo chip fotovoltaico impiantato chirurgicamente sotto la retina. Si combina con uno speciale paio di occhiali con una telecamera incorporata che proietta dati visivi nel chip oculare usando una luce invisibile, vicina all’infrarosso.   Quando i raggi del vicino infrarosso colpiscono i pannelli fotovoltaici del chip, non solo alimentano il dispositivo, ma convertono i dati trasmessi in segnali elettrici che stimolano i neuroni retinici ancora rimasti. Questi vengono inviati al cervello, così da avere una vista rudimentale.  

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Science Corp ha acquistato la tecnologia che alimenta Prima da un’altra startup, Pixium Vision, l’anno passato.    Nel settembre scorso, Neuralink ha ricevuto la designazione di «dispositivo rivoluzionario» dalla Food and Drug Administration per il suo impianto cerebrale «Blindsight», che Elon Musk sostiene «permetterà anche a coloro che hanno perso entrambi gli occhi e il nervo ottico di vedere». È molto probabile che per il raggiungimento di obiettivi validi e soddisfacenti, ci vogliano ancora diversi anni.    L’ultimo studio clinico di Science Corp, i cui risultati devono ancora essere pubblicati come studio, ha coinvolto 38 pazienti affetti da atrofia geografica, una forma di perdita della vista centrale causata dalla degenerazione maculare legata all’età, o AMD, la principale causa di deficit visivo negli anziani.   A tutti è stato impiantato l’impianto Prima. I risultati sono stati differenti, ma promettenti. Alcuni partecipanti hanno acquisito la capacità di leggere stringhe di lettere. Altri hanno potuto leggere lunghe porzioni di testo da un libro e persino compilare un cruciverba. mentre cinque non hanno avuto miglioramenti.   Mentre Prima offre un vantaggio sui concorrenti ripristinando la «form vision» che consente ai pazienti di distinguere le forme, Hodak ha detto a Wired che non fornisce immagini a colori. Science Corp. non ha inoltre specificato la frequenza con cui i pazienti hanno dovuto usare la funzione zoom per rendere il testo leggibile.   Come riportato da Renovatio 21, un anno fa Elon Musk disse che il primo paziente Neuralink era giunto a controllare il mouse del computer con i pensieri.   Come riportato da Renovatio 21, negli anni scorsi, in concomitanza con la partenza degli esperimenti sugli esseri umani approvati dall’ente regolatorio americano FDA, era emerso che alle scimmie su cui era stato sperimentato l’impianto erano successe «cose terribili», cosa che Musk ha poi negato.   Neuralink, che aveva iniziato con impianti di microchip cerebrali sui suini, non è la prima azienda ad avviare sperimentazioni umane con un’interfaccia cervello-computer. Nel 2022, la società tecnologica con sede a New York Synchron, finanziata dai miliardari Bill Gates e Jeff Bezos, ha già impiantato il suo primo dispositivo per la lettura della mente in un paziente statunitense in una sperimentazione clinica.   Vi sono altri casi simili di impianti cerebrali che tentano di aiutare pazienti in condizioni estremamente critiche come quello portato avanti dagli scienziati della Stanford University, che consente ad un uomo con le mani paralizzate di poter «digitare» fino a 90 caratteri al minuto, semplicemente pensando alle parole.   Anche un colosso digitale come Facebook era interessato alla tecnologia del pensiero degli individui.   Chip cerebrali sono stati utilizzati per comandare piante carnivore. Pochi mesi fa è emerso che gli scienziati sono riusciti a far giocare sempre a Pong anche delle cellule cerebrali in vitro.   La trasformazione cibernetica della vita umana è uno dei punto focali del transumanismo, predicato sia da entusiasti della Silicon Valley più o meno innocui che da vertici planetari come il Klaus Schwab, patron del World Economic Forum di Davos, che immagina un mondo dove in aeroporto saranno fatte «scansioni cerebrali» per evitare che il passeggero nutra idee pericolose. «Una fusione della nostra identità fisica, digitale e biologica» dice Klaus Schwab.   Elon Musk si conferma figura davvero significativa, e potenzialmente apocalittica, del nostro tempo.

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Svelata la causa della morte di San Tommaso d’Aquino?

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Un articolo della rivista World Neurosurgery, pubblicato nel numero di febbraio 2024, presenta una ricostruzione medica della causa della morte di san Tommaso d’Aquino, dottore comune della Chiesa, di cui da tre anni celebriamo il triplice anniversario: il 700° anniversario della sua canonizzazione (1323), il 750° anniversario della sua morte (1274) e l’800° anniversario della sua nascita (1225).

 

Il celebre dottore scolastico, insignito del titolo di «dottore comune» della Chiesa, ebbe una vita breve. Nato nel 1225, morì il 7 marzo 1274, a meno di 50 anni, nell’Abbazia di Fossanova, mentre era in viaggio per il Concilio di Lione su richiesta di papa Gregorio X. Anche se l’aspettativa di vita era inferiore a quella odierna, si trattò di una morte che potremmo definire prematura.

 

Come in ogni ricerca diagnostica che rispetti le regole, gli autori hanno esaminato innanzitutto l’anamnesi, cioè le informazioni raccolte interrogando il paziente o chi gli sta intorno. In questo caso sono state messe in discussione le fonti storiche per cercare di ricostruire al meglio le circostanze che precedettero la morte del santo dottore.

 

L’articolo ci informa che tra le fonti principali figurano notizie biografiche di Pietro Calò, Guglielmo da Tocco e Bartolomeo da Capua, scritte alcuni anni dopo la morte del santo. A ciò si aggiungono le testimonianze raccolte durante il processo di canonizzazione. La maggior parte delle fonti risalgono al XIII e XIV secolo.

 

Gli autori si sono recati anche a Priverno per esaminare uno dei crani attribuiti a San Tommaso d’Aquino. In effetti, un altro cranio, conservato sotto l’altare del convento dei Giacobini a Tolosa, culla dell’Ordine Domenicano, pretende di essere la testa del santo dottore, ma non è stato esaminato. Questo sarà uno degli obiettivi della ricerca futura.

 

Finora sono state avanzate diverse ipotesi o teorie sulla causa della morte di Tommaso: una grave malattia generale, la morte in seguito a un’estasi mistica e persino un avvelenamento, il cui colpevole è indicato da Dante, nella Divina Commedia, nel re Carlo I di Napoli. Più di recente, i ricercatori hanno preso in considerazione anche il danno cerebrale.

 

La ricostruzione dimostra che San Tommaso lasciò il convento di Napoli il 28 gennaio 1274, prendendo la Via Latina verso Roma, percorso che gli consentì di passare per Maenza, dove risiedeva la nipote del santo. Fu allora, racconta uno dei testimoni, che San Tommaso cadde violentemente, sbattendo contro un albero caduto, che «in qualche modo lo fece perdere i sensi» (fere stupefactus quodammodo).

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Giunti poco dopo a Maenza, la comitiva rimase per 4 o 5 giorni, e lo stesso testimone racconta che allora fra Tommaso cominciò ad essere gravemente colpito da infermità: nausea, anoressia e debolezza generale, e per questo chiese «con grande devozione che fosse trasportato al monastero di Santa Maria di Fossanova, il che fu fatto». Dovette essere trasportato su un asino.

 

È opportuno ricordare che la regola domenicana dell’epoca proibiva ai frati di cavalcare cavalli o asini. Il fatto che San Tommaso abbia accettato di essere trasportato in questo modo dimostra la sua profonda debolezza. I resoconti del suo soggiorno a Fossanova descrivono un peggioramento generale dei sintomi: debolezza, nausea e anoressia, ma senza danni neurologici rilevanti.

 

Basti ricordare un momento in cui, durante un dibattito metafisico, fra Reginald, suo compagno, descrive il santo che non sa cosa scrivere e che evita le domande. Ma pochi giorni dopo stava tenendo un sermone. Testimoni parlano della conservazione della sua capacità intellettuale: dettò un commento – purtroppo perduto – al Cantico dei Cantici .

 

Il quadro clinico può essere così riassunto: una lesione iniziale preceduta da un periodo di lucidità a cui sono seguiti sintomi di debolezza, nausea e anoressia, progressivamente peggiorati fino alla morte. Questa immagine potrebbe suggerire un ematoma subdurale, ovvero una raccolta di sangue che si forma gradualmente tra la dura madre e l’aracnoide.

 

Sono infatti tre le «meningi» che avvolgono l’encefalo: la dura madre, che è applicata contro l’osso cranico, l’aracnoide, situata più in basso, e la pia madre, immediatamente a contatto con l’encefalo. Un ematoma subdurale si trova tra la dura madre e l’aracnoide. Nella maggior parte dei casi è dovuto a un trauma cranico lieve o moderato.

 

Succede che un ematoma di questo tipo guarisca spontaneamente se è piccolo. Ma può anche accadere che si diffonda progressivamente, provocando diversi sintomi il cui sviluppo si svolge nell’arco di diverse settimane o anche più a lungo: si tratta allora di un ematoma subdurale cronico. Se non curata, molto spesso porta alla morte.

 

Gli autori concludono quindi che è altamente probabile che si sia trattato di un ematoma subdurale cronico, causato dal violento impatto con un albero sulla strada tra Napoli e Maenza. Propongono di proseguire le indagini ottenendo il permesso di esaminare i due teschi che competono per essere la reliquia del dottor angelico.

 

Questo esame potrebbe rivelare tracce dell’incidente iniziale e, chissà, decidere tra Tolosa e Priverno circa il possesso dell’autentica testa del più celebre dottore della cristianità!

Articolo precedentemente apparso su FSSPX.News

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Immagine: foto del cranio di San Tommaso d’Aquino in a Columbus, Ohio, USA, nel 2024

Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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