Satira
L’inconsolabile ratzinguerismo volante colpisce ancora: striscione aereo balneare sulla «sede impedita»

Tornano nei cieli sopra le spiagge italiane, più articolati che mai, i messaggi del ratzinguerismo volante, che pare più che mai determinato, ed inconsolabile. Nuovi enigmi sulla sede vacante si abbattono sulle vacanze di ignari turisti nostrani e non.
Sul litorale adriatico veneto e romagnolo domenica è comparso un ulteriore misterioso striscione volante trainato da un aereo a elica. Stavolta la scritta aviatoria diceva «Benedetto XVI era in sede impedita».
In rete video e foto sono circolati subito, talvolta con relative richiese di spiegazioni, perché il messaggio forse non era di immediata comprensione al gregge dei fedeli una cum bagnanti.
“Benedetto XVI era in sede impedita”
Sarebbe una protesta per…? pic.twitter.com/uD1rg7aozq— sergio san. (@SergioSangio) August 27, 2023
Come riportato da Renovatio 21, settimane fa era capitato sopra i cieli di Ostia. «Benedetto XVI non ha mai abdicato», scriveva il messaggio aereo manifestatosi sopra i bagnanti romani, che hanno fatto in tempo a riprenderlo con i telefonini, immaginiamo tra molteplici «amvedi», «aoh», «ma cheeè?» e magari pure qualche «estic…», mentre magari il corpo gli lavorava di impegno per la digestione delle cibarie festive.
Con il messaggio nell’aere adriatica siamo saliti di livello: il ratzinguerismo aero-messaggiante scrivendo «Benedetto XVI era in sede impedita» aumenta di non poco la complessità del discorso, anche da un punto di vista grammaticale. Ci chiediamo, in totale sincerità: si dice così?
Oppure vi è una contrazione di «in condizione di sede impedita»? Ma allora è giusto il soggetto? Il verbo? Sarebbe più corretto dire «Benedetto XVI si trovava in condizione di sede impedita»?
Oppure «in sede impedita» è da considerarsi come locuzione latina? Se sì, quel punto non si poteva aggiungere con semplicità una «t» al verbo («erat», italiano-latino, una fazza una razza) e chiamarlo Benedictus, visto che accanto c’era già un numero romano?
Come avrebbero reagito i vacanzieri adriatici alla scritta in cielo «Benedictus XVI erat in sede impedita»? Quanti sarebbero corsi al più vicino liceo classico, tentando di farlo aprire ad agosto?
Non lo sapremo mai. Tuttavia non sorprende che testata locali abbiano parlato di un messaggio «criptico e incomprensibile», se non «strano».
Di fatto, sono cose da addetti ai lavori. Roba, se non da cintura nera di diritto canonico, da cintura marrone, colore che ci sta sempre bene quando si parla del Vaticano odierno.
Lungi dall’essere espressione di insulto, come vorrebbe un certo gergo giovanile forse non più in uso («sei un’impedita!», si dice ancora? Origina per caso dal latinorum ecclesiastico?), la «sede impedita» è uno scenario disciplinato nei canoni 412, 413, 414 e 415 del Codice di Diritto Canonico. Il caso si verifica quando vi è una diocesi o una chiesa specifica dove il legittimo vescovo titolare non è in grado di svolgere il proprio incarico a causa di circostanze esterne.
Le ragioni per cui un vescovo non può operare nella sua diocesi possono variare e includere situazioni come prigionia, confino, esilio o impedimenti fisici che compromettano il suo ruolo di guida spirituale o che lo rendano incapace alla comunicazione con i fedeli, nemmeno tramite lettere pastorali.
Il Ratzinger non possiamo dire che fosse esattamente tagliato fuori: già nei primi mesi di post-papato rispose per iscritto al geometra matematico ateo Piergiorgio Oddifreddi redarguendolo per un libro che gli aveva mandato. Poi eran saltati fuori i casi altri libri, come quello con il cardinale Robert Sarah da cui Benedetto infine tolse la firma, che irritarono l’argentino e la sua cricca; si era comunque fatto fotografare plurime volte con il collega pachamamista ingenerando l’icona devastante ed apocalittica della compresenza dei due papi; tornando più indietro, lo ricordiamo, senza tanto calore a dire il vero, mentre faceva ciao con la manina ai fedeli mentre nell’ultimo giorno di pontificato lasciava Roma in elicottero, con grande spiegamento di TV che riprendevano il tutto dagli angoli giusti.
A noi, in quel momento, venne in mente il titolo di una pubblicazione sulle frasi che si trovano scritte sulle schede elettorali nulle, Cazzi vostri io domani vado in Svizzera (1994). Tuttavia, il romano pontefice, elevandosi con l’aeromobile, non riparò presso i cantoni elvetici, preferendo il Vaticano, che da un punto di vista fiscale e di cura dei giardini crediamo sia pure meglio.
Più che impedita, qui la cosa ci sembra riuscita, ma è un’impressione tutta nostra.
Ma concretamente quanto si può dare canonicamente la sede impedita?
Un esempio storico notevole di sede impedita è rappresentato da Paolo Angelo Ballerini (1814-1897), a cui fu vietato di accedere all’arcidiocesi di Milano a causa di contrasti con le autorità statali del neonato Regno d’Italia, cioè la famosa «Italia unita» voluta dal programma della massoneria e dai suoi scopi di distruzione del papato e cancellazione del cristianesimo. La Santa Sede in seguito nominò monsignor Ballerini patriarca titolare di Alessandria dei Latini, sede titolare soppressa nel 1964 dopo 10 anni di sede vacante.
E a proposito di sede vacante, a questo punto, ci chiediamo, in un contesto programmaticamente vacanziero, si dovrebbe parlare non quindi di sedevacantismo, sedeplenismo, sedeprivazionismo, ma di sedeimpeditismo?
La minaccia che incombe sul mondo è che ora siamo tutti sedeimpediti? Siamo stati sedeimpediti? Ha senso grammaticalmente? Come dobbiamo esprimerci?
Potrebbe un prossimo messaggio ratzingo-aeronautico chiarire anche queste dubbiosità?
Oppure lo striscione dirà ai cristiani in ferie qualcosa tipo «siete sedeimpediti nella vostra sedevacanza»?
Dovremmo saperlo a breve. Perché, dice il poeta, «l’estate sta finendo».
Bizzarria
Ecco il vescovo leopardato

La rete è impazzita per le foto uscite di una messa tenuta a Ruvo di Puglia (provincia di Bari) celebrata lo scorso 4 settembre da monsignor Nicola Girasoli, nunzio apostolico in Slovacchia, che ha svolto la funzione con una casula leopardata.
Si trattava di una messa fatta in occasione dei 40 anni di sacerdozio di un parroco locale. Il vescovo di Molfetta ha concelebrato.
Le foto della messa, riporta il Corriere della Sera, sarebbero state pubblicate e poi rimosse sulla pagina Facebook della cattedrale.
#MiL Novus Horror Missae a Ruvo di Puglia: il vescovo Girasoli in pianeta leopardata, sdogana l'animalier liturgico per "San Tarzan"? ; #mtl Per leggere il post di #Messainlatino, cliccare su:https://t.co/SynTJzuZ35 pic.twitter.com/NIk24hQAWG
— MiL_MessainLatino.it (@messainlatino) September 14, 2023
I commenti della rete si sono sprecati, alcuni inviperiti, altri invece ironici: tra questi ultimi segnaliamo «della serie Crudelia Demon levati», «e il prete tigre combatte contro il male», ma anche «novus horror missae» non è male.
L’immagine del discendente degli apostoli che celebra con casula animalier spinge il collezionista di orrori postconciliari (avete presente: presbiteri vestiti da clown, messe sul materassino sul bagnasciuga, etc.) ad interrogarsi se mai si era vista una cosa del genere. Al momento, non ci pare, anche se elementi di leopardamento si erano già visti durante le visite apostoliche in Mozambico di papa Giovanni Paolo II e di papa Francesco.
Il significato della veste leopardata sarebbe stato chiarito più tardi della stessa pagina della cattedrale.
«Date le interpretazioni particolari e sui generis, si precisa che la casula indossata per la celebrazione fa parte della liturgia ufficiale dei popoli poveri africani di cui il celebrante (monsignor Girasoli, ndr) si è sempre interessato nel suo mandato pastorale ed è stata indossata per ringraziare il Signore in merito alla costruzione di una casa per i più bisognosi di quei territori».
«Ci rendiamo conto che i commenti irrispettosi sono dovuti alla non conoscenza» prosegue il messaggio «e vi preghiamo di rettificare le interpretazioni non consone».
Non ci permetteremmo mai interpretazioni non consone della vesta episcopale e del suo significato, e ci mancherebbe: il foro interiore nostro si fa guidare dai post di una pagina Facebook pugliese gestita, dice, «da alcuni collaboratori della parrocchia».
Tuttavia, vogliamo, così per esercizio gnoseologico, aggiungere un paio di cose, senza mancar mai di rispetto al nunzio e alle sue scelte in fatto di vestiario liturgico.
Monsignor Girasoli era stata nunzio apostolico in Zambia e Malawi, due Paesi africani che, tutto sommato, non stanno malissimo.
In Zambia vi è un luogo, lungo la vallata del fiume Luangwa, chiamato «valle del Leopardo», dove, a differenza di altre parti del Paese, vi è la presenza del leopardo. Tra i turisti ha accumulato una certa notorietà il leopardo Alice, che si fa fotografare narcisamente con i propri cuccioli.
In Malawi, invece, il leopardo non è così presente, al punto da essere stato oggetto di un programma di ripopolazione, non dissimile da quello degli orsi in Trentino.
The Facebook page of the Ruvo Cathedral has posted a clarification of the much-maligned image of the Italian Archbishop Nicola Girasoli celebrating Mass in an animal-print chasuble. 1/https://t.co/WkgGm3KCBv pic.twitter.com/dz0FMGOYlU
— Mike Lewis (@mfjlewis) September 17, 2023
La storia del tessuto leopardato è piuttosto ricca in termini di antropologia e spiritualità, non sempre benevola.
In Sud Africa, le pelli maculate in passato contrassegnavano l’aristocrazia Zulu e ancora oggi svolgono un ruolo importante nelle tradizioni della Chiesa Shembe, un mix di cristianesimo e culti zulù.
In diverse regioni del continente africano, la pelliccia a macchie del felino è associata al potere maschile, e in fotografie scattate all’uomo forte di Kinshasa, in Congo, ne troviamo diverse troviamo in cui il leopardo è indossato dall’ex dittatore Joseph Mobutu, il cui regno durò più di trent’anni, accusato, come altri colleghi dell’area, di essere un cannibale.
Più tenue, ma presente, il legame tra il leopardo e la framassoneria. Secondo alcuni, sulla costa occidentale dell’Africa, sarebbero esistite «fraternità del Leopardo» che si sarebbero poi evolute fuori dal Continente Nero in un ordine afro-cubano-massonico detto Ordine dei Caribali, detto anche Abacuà, che pure non avendo origine in logge europee, sarebbe ora in molti casi sovrapponibile all’appartenenza massonica classica.
In Norvegia esiste una Loggia San Olaus al Leopardo bianco, una loggia massonica dell’Ordine dei Massoni Norvegesi. Fu fondata il 24 giugno 1749 sull’isola di Ladegaard. Il canuto felino nello stemma, tuttavia, non pare avere macchie, che pure avrebbero senso all’interno del pensiero dialogico-dualista massonico sempre rappresentato dai pavimenti a scacchiera.
L’idea di un nesso tra il tessuto leopardato e forme di aggregazione para-massoniche è stata diffusa internazionalmente dal telefilm Happy Days, nel quale il pater familias di casa Cunningham spesso si assentava per riunioni presso una misteriosa «loggia del leopardo», indossando un fez maculato.
Met a delightful elderly lady at Woolworths wearing triple leopard print: slacks, jacket and a Howard Cunningham-style leopard print fez. I told her I loved her hat and she looked disappointed. “I thought you were going to say you loved *me*…!” pic.twitter.com/bOkiymbk5N
— Stephen Downes (@TheNewDownesy) April 9, 2019
Vi è, infine, la questione della donna leopardata e della sua moda.
Cappotti in pelle di leopardo e altri capi di abbigliamento e accessori divennero particolarmente popolari negli anni ’20, dopo che star del cinema come Joan Crawford si pavoneggiavano nei film di Hollywood indossando la pelle maculata del maestoso felino. Christian Dior, mantenne la tendenza per le donne più glamour: «se sei giusta e dolce, non indossarlo» avrebbe detto il modista francese.
Negli anni ’50 e ’60, tale significato lasciò il posto all’idea che una donna che indossava il leopardo fosse una moglie trofeo. In altre parole, la stampa rappresentava una donna piuttosto «selvaggia». Leoparderie varie sarebbero divenuta la cifra di maison odierne come Roberto Cavalli e Dolce&Gabbano.
E quindi, cosa ci riserva il futuro? Una chiesa selvaggia e animale? Una chiesa chic? Una chiesa africanizzata, oppure para-massonizzata, oppure femminilizzata?
Satira
Turista a Venezia fa i suoi bisogni sotto il ponte di Calatrava. Le possibili ragioni storiche, metafisiche, architettoniche del gesto

Giusta indignazione pubblica per una foto che ha fatto il giro della rete e dei giornali. Quella che è presumibilmente una turista a Venezia, è stata immortalata mentre defecava – riportano i quotidiani locali – sotto il passaggio pedonale che collega Piazzale Roma alla Stazione di Santa Lucia il famigerato «ponte di Calatrava».
«La persona risulta sconosciuta ai Servizi sociali e la polizia locale ricorda che invece di fotografare sarebbe stato meglio avvertire, visto che ci sono pattuglie sempre a piazzale Roma, che avrebbero potuto darle un aiuto, visto che certamente ne avrebbe bisogno» scrive il Gazzettino.
Gli agenti, quindi, brancolano nel buio, come si dice di solito in gergo giornalistico, e pure sono seccati perché non bisognava fare una foto alla donna che «usava il Canal Grande come un WC», come è stato riportato.
Degrado oltre il limite: si accuccia sotto il ponte di Calatrava e usa il Canal Grande come wc https://t.co/wniZEcspfY
— Gazzettino (@Gazzettino) September 8, 2023
Lo sdegno è tanto, anche perché Venezia è abituata a scene di belluina inciviltà turistica, dove le secrezioni del corpo umano la fanno da padrone. In questi anni di fatto non si sono visti solo tuffi nei canali (auguri), tizi seminudi seduti ai tavolini dei bar in Piazza San Marco sommersa dall’acqua alta e perfino la profanazione del Canal Grande attraversato da australiani in surf elettrico (sacrilegio!), ma anche casi ripetuti di «pellegrini» del turismo decerebrato che hanno fatto la pipì ovunque, persino dinanzi al Palazzo Ducale.
Video di inciviltà urinaria contro Venezia continuano ad essere trasmessi impunemente sulle piattaforme video: e vorremmo tanto che i colpevoli fossero individuati e perseguiti.
E come non ricordare il trauma dei traumi, il visionario concertone dei Pink Floyd per la Festa del Redentore 1989, che sommerse Venezia di esseri umani e rifiuti, con apocalittiche immagini di urina contro i beni culturali?
La sconvolgente esperienza fu cantata nei versi di Pin Floi, canzone che rende allora celebri i Pitura Freska
Tuttavia l’atto estremo della signora defecatrice – che potrebbe essere stato, comunque, una performance di un’artista per la Biennale, anche se un po’ fuori tempo – porta alla mente questioni di rilievo: su un piano storico, metafisico ed architettonico.
La prima cosa su cui ci interroghiamo sulla questione arrivata sin nel titolo dei giornali, quel «Canal Grande usato come un WC». Il cittadino veneto medio, con cognizione storica o fede calcistica, conosce vari epiteti per gli abitanti di tutte le città – avente presente, quella cosa per cui «vicentini magnagati/veronesi tuti mati».
I veneziani, nella filastrocca erano detti «gran signori», tuttavia un altro modo di definirli, in senso dispregiativo, i veneti dell’entroterra lo hanno sempre avuto «cagainacqua».
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Il sistema fognario veneziano per secoli prevedeva lo scarico diretto nel rio, cioè nella via d’acqua sottostante. «In epoca medioevale solo gli edifici più prestigiosi avevano dei bagni privati, mentre la popolazione disponeva di bagni comunitari che venivano posti vicino ad un rio» apprendiamo dal sito Venezia da esplorare. Capitava spesso che i canali più stretti divenissero delle vere e proprie latrine a cielo aperto che poi l’acqua alta ripuliva».
«La parte liquida degli scarichi finiva direttamente nei canali, mentre bisognava operare manualmente alla rimozione della componente solida. Tutti gli scarti delle cucine e i reflui spesso erano scaricati al di sopra del livello medio delle maree e pertanto erano spesso visibili».
«Nel basso medioevo, con l’aumentare della popolazione, diventarono sempre più evidenti i problemi di carattere igienico. Oltre alla propagazione delle malattie, il sistema medievale del rio delle latrine non funzionava più: troppe zone della città erano impraticabili», cioè, crediamo significhi che intere aree della Serenissima erano ufficialmente sommerse dalla pupù.
Nel XX secolo, è stata reso «obbligatorio l’uso di una fossa settica prima dello scarico nel rio. Questo adeguamento fu però realizzato da pochi proprietari, visto che era obbligatorio solo per coloro che richiedevano un permesso per ristrutturare casa».
L’idea per cui Venezia poggia poggerebbe sui bisogni dei suoi abitanti era stata al centro di un vecchio episodio, ovviamente assai grossolanamente razzista nei confronti degli italiani, del cartone satirico South Park relativo alle persone che facevano la pipì in piscina.
E quindi, la signora dello scandalo ha fatto qualcosa che, in realtà, è di per sé molto veneziano? Magari infrangendo la legge e dando a tutti lo spettacolo del degrado, la signora ha come detto, «il re è nudo»? «L’acqua di Venezia contiene escrezioni umane»!
Vi è un tuttavia anche un ulteriore livello metafisico di lettura dell’evento. Il lettore foresto deve sapere che ogni bimbo veneto, e quindi ogni adulto, conosce bene una filastrocca. Si tratta di una «conta», cioè una canzoncina per decidere a chi tocca il ruolo di un particolare gioco, del tipo «ambarabaciccicoccò».
Tale filastrocca, che ha inquietato l’immaginario di generazioni di veneti, dice che «sotto il ponte di Verona / c’è una vecchia scoreggiona / che cuciva le mutande
per non fare il buco grande /Ma il buco si allargò / e proprio a te uscir toccò».
Varianti formulari, molto diffuse nel veneto centrale, sostengono che «sotto il ponte di Verona / c’è una vecchia scoresona / che scoresa tutto il dì /A-B-C-D / ci stai fuori proprio tì».
Ora, il lettore può capire lo sgomento che il bambino veneto che dentro a ciascun cittadino della regione (e non solo) può provare dinanzi a tale approssimativo inveramento della cantilena: la donna non è vecchia (pare giovane), non è a Verona (ma a Venezia), e non emette precipuamente flatulenze (ma comunque si impegna in attività non dissimili), tuttavia la sostanza, è il caso di dire, c’è tutta.
Verrà aggiornata la filastrocca scaligero-meteoristica? «Sotto il ponte di Venezia / c’è una giovane …»? È uno di quei casi in cui davvero l’ardua sentenza sarà data dai posteri, sperando che il tempo lenisca le menti dallo shock ingenerato da tale evento.
Tuttavia potrebbe esserci un ulteriore significato profondo della scandalosa e illegale oscenità vista in Laguna.
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E se la signora stesse volontariamente esprimendo un giudizio dopo una giornata a Venezia? Se fosse un rebus, potremmo ipotizzare che sta cercando di dire che «Venezia è una cagata», ma non lo riteniamo possibile, perché la capitale della Repubblica Veneta è la città oggettivamente più magica al mondo.
Era allora una forma di protesta contro l’idea – sulla cui costituzionalità non abbiamo le idee chiarissime, ma forse siamo noi a sbagliarci – di mettere l’ingresso alla città a pagamento? Si sarebbe trattata quindi di una protesta contro la Venezia a pagamento, effettuata tramite una forma estrema di mooning?
Riguardo alla protesta, circola, fra chi si interroga sulla vicenda, un’ulteriore ipotesi, quella architettonica. Il gesto della signorina con i capelli colorati potrebbe essere correlato ad un giudizio sul controverso Ponte della Costituzione (lei), più noto come Ponte di Calatrava, il ponte pedonale che unisce i parcheggi di Piazzale Roma alla Stazione Ferroviaria.
Il ponte, che ha visto i suoi costi praticamente raddoppiare, a fine anni 2000 fu oggetto di una inchiesta conoscitiva a cui prese parte anche l’allora procuratore aggiunto, ora ministro della Giustizia, Carlo Nordio. L’inchiesta fu archiviata, ma Nordio sottolineò «i gravissimi errori caratterizzanti sia la fase progettuale sia quella esecutiva, sia quella relativa allo stesso bando di gara, errori rappresentativi di una radicale incapacità (…) di comprendere la complessità tecnica di un’opera così ambiziosa, errori ripetutisi in una sorta di clonazione esponenziale hanno dilatato i tempi di realizzazione e i costi dell’opera (…)» riporta un articolo del La Nuova Venezia del 2010 intitolato «Ponte Calatrava, incapaci e cinici».
Apprendiamo dalla nota enciclopedia online che «il 13 agosto 2019, dopo averlo precedentemente assolto in primo grado, la Corte dei Conti ha condannato Calatrava in appello a pagare la somma di 78.000 euro in favore dell’erario, essendo stato ritenuto responsabile di un aggravio dei costi dell’opera legati alla sottostimazione delle dimensioni di alcuni tubi (una “macroscopica negligenza”, secondo i giudici contabili) nonché in relazione ai tempi di usura dei gradini, che sono stati sostituiti dopo soli 4 anni, piuttosto che dopo i 20 stimati da Calatrava, in quanto fortemente danneggiati».
La Corte dei Conti tuonò quindi contro l’archistar parlando di «negligenza», dicendo che la questione è «tanto più grave e meritevole di essere stigmatizzata in quanto proveniente da uno stimato professionista di fama mondiale di elevatissima competenza, con lunga e provata esperienza proprio nella costruzione di ponti.»
Al di là dei risvolti giudiziari, vi è la questione dei gradini irregolari, che costringono il pedone ad aggiustare il passo, con la quantità di cadute che ci si deve quindi attendere: fratture alle gambe, alle spalle, al volto, e relativi risarcimenti, esosissimi, da parte del Comune. Gli stessi veneziani accusarono il ponte voluto fortemente dal sindaco-filosofo Cacciari (il Socrate lagunatico che bevve la cicuta mRNA) di essere «troppo pericoloso».
Qualcuno può fantasticar che sia a causa di tali controversie che nel 2011 quattro giovani di Jesolo furono motivati ad inforcare il ponte in automobile, ma è ben più verisimile l’ipotesi alcolica, visto che il conducente fu denunziato per guida in istato di ebrezza: tuttavia egli, secondo quanto riportato all’epoca dai giornali, aveva mantenuto la parola con i suoi amici: «vado a prendere l’auto e vengo a prendervi» avrebbe detto loro dopo una serata tra i locali della città.
Il ragazzo, all’arrivo degli agenti, avrebbe enigmaticamente buttato le chiavi in Canal Grande, proprio lì dove, una dozzina d’anni dopo, avrebbe fatto pluf la deiezione della signora ora al centro delle polemiche.
In ogni caso, lo sfregio al ponte dell’archistar rimane.
E quindi, alcuni si chiedono: la ragazza della cacca sotto quei controversi gradini, è per caso un’architetta in rivolta contro l’architettura moderna?
Come riportato da Renovatio 21, sappiamo che tali gruppi esistono, e cominciano a farsi largo un po’ ovunque, in Isvezia, per esempio, con gli Arkitetkturupproret.
E quindi, la soluzione del rebus posto dalla scandalosa immagine è «il ponte di Calatrava è una cagata»? Oppure «l’architettura moderna è una cagata»?
Non lo sappiamo, non lo sapremo mai, e ricordiamo, prima che qualcuno si offenda, che questo è un pezzo di satira.
Forse era satira anche quella che voleva fare l’impavida ragazza?
Immagine di Yair Haklai via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)
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