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Economia

Le banche svizzere e i futuri blackout: dai pagamenti offline alla moneta digitale stile green pass

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Se arrivassero blackout, come faremmo a pagare? Dovremmo stare ore o magari giorni senza la possibilità di comprare prodotti o servizi?

 

Ebbene, il cavallo di troia della moneta digitale potrebbe entrare proprio per risolvere questi scenari.

 

Il problema se lo sono posti in Svizzera alla Fondation Genève place financière (FGPF); certo, gli svizzeri sono un popolo lungimirante e ponderato, ma si vede che ritengono l’eventualità di blackout non del tutto remota. La differenza della classe dirigente svizzera, rispetto a quella di molte altre Nazioni, sta nel fatto che non vivono di frottole alla giornata e Pulcinella non è di certo eroe nazionale.

 

Le soluzioni tecnicamente possibili sono poche. Ma quella più sicura da frodi sarebbe una specie di moneta digitale. Questo ve lo diciamo noi, perché la regia sta ancora facendo finta di non averci pensato.

 

La soluzione più antiquata per permettere pagamenti senza contanti sarebbe un ritorno alle vecchie carte di credito. Un tempo però le carte di credito avevano i dati scritti in sovraimpressione su su supporto cartaceo: quando si voleva pagare con la carta di credito il negoziante passava la carta in un apparecchio che copiava i dati della carta su della carta carbone. A quel punto il credito veniva stornato periodicamente presso l’istituto bancario del venditore, che doveva portare fisicamente all’istituto bancario le copie-carbone delle carte di credito.  Di certo, tuttavia, in quegli anni non tutti i negozianti accettavano carte di credito da qualsiasi pagatore perché di fatto funzionavano esattamente come degli assegni e il credito poteva risultare scoperto.

 

Anzi, addirittura la carta di credito poteva risultare falsa e inesistente. Infatti, eredità di quegli anni, ancora oggi può capitare che per poter pagare con carta si richieda di esibire  un documento di identità.

 

Con l’attuale sistema di credito elettronico invece la verifica del credito disponibile e dell’identità del pagatore sono effettuate in tempo reale, collegandosi ai circuiti centralizzati di banche e carte di credito e leggendo il chip che c’è sulla carta.

 

Ma se non ci fosse la corrente elettrica come si farebbe? Non si pagherebbe più? Si tornerebbe ai sistemi insicuri degli anni ‘60

 


Certo, si potrebbero riesumare questi sistemi antiquati per importi bassi; giusto per permettere ai consumatori di comprare da mangiare durante un blackout. Con basso rischio di frodi per i venditori.

 

«Per esempio nei caselli autostradali in Francia si può pagare con la carta di credito senza che la transazione sia verificata dalla banca» ha detto direttore di FGPF Edouard Cuendet. «L’approccio funziona molto bene per i piccoli importi. Si potrebbe ampliare questo sistema ai commerci, ma non a transazioni di grande ampiezza, perché c’è il rischio di malversazioni. Bisogna essere prudenti», riporta un articolo di Tutti.ch, che introduce il tema dei «possibili pagamenti offline».

 

In realtà oggi esisterebbe una tecnologia per verificare che un pagamento a credito non sia scoperto senza dover usare un circuito bancario centralizzato: si tratta della tecnologia blockchain, su cui si basano tutte le criptovalute.

 

Come funziona? Semplicemente prevede che tutta la catena di transazioni ( di tutti gli utenti) sia registrata su un registro distribuito, che può – e anzi deve – essere scaricato periodicamente da tutti gli utenti del circuito. Più o meno come funzionava il green pass: se vi ricordate per verificare la validità di un green pass il controllore doveva avere una app e doveva collegarsi a internet almeno una volta ogni 48 ore. Poi per 48 ore era autonomo. Questo perché – stiamo semplificando – almeno ogni 48 ore doveva essere scaricato il registro aggiornato coi certificati dei nuovi green pass rilasciati e ritirati. La cosa funzionerebbe così anche coi pagamenti.

 

E le criptovalute funzionano esattamente in questo modo: esiste un grande registro delle transazioni condiviso e redistribuito che viene aggiornato da tutti gli utenti del circuito. Senza alcuna possibilità di frode, perché è matematicamente impossibile falsificare alcunché, dato che viene usato un sistema di firme digitali ineludibile – in teoria.

 

In tal modo, se venisse usato un sistema blockchain e doveste pagare 100 euro, il venditore potrebbe stare certo che fino all’ultimo aggiornamento della app predisposta (magari 5 ore prima) il compratore disponeva davvero di 100 euro.

 

Certo, nell’arco di quelle 5 ore di blackout un pagatore truffaldino potrebbe avere speso quei 100 euro altre volte con altri venditori. E questi se ne accorgerebbero solo al prossimo aggiornamento dei registri distribuiti delle transazioni. Con le normali criptovalute – non per nulla – i registri distribuiti vengono aggiornati al massimo nell’arco di pochi minuti.

 

Ad ogni modo, una soluzione tecnologica del genere resterebbe comunque l’opzione migliore, anche se vi fossero tempi da latenza elevati tra un aggiornamento e l’altro dei registri. Sicuramente più efficiente che non tornare alla carta carbone degli anni ’60.

 

Si aggiunga che, dopotutto, questi applicativi possono girare su smartphone, che sono veri e propri computer portatili con autonomia lunga. E per ricaricarli basta una quantità modesta di corrente elettrica, ottenibile magari da piccoli pannelli solari.

 

Per evitare l’inconveniente sopra visto, sarebbe sufficiente la permanenza della rete 4G, che permetterebbe di mantenere costantemente aggiornati i registri distribuiti di un’eventuale moneta digitale su tutti gli smartphone degli utenti e, specialmente, dei venditori. In base a quanto vi abbiamo accennato, è chiaro infatti che il problema della connettività per aggiornare il registro distribuito ce l’avrebbe chi incassa, non chi paga.

 

Peraltro – chi ha mai provato a pagare in criptovalute nei posti che le accettano lo sa – la transazione avviene esattamente come l’esibizione del green pass: si deve esibire un QR code sullo smartphone e premere un bottone verde  sul display per autorizzare la transazione.



Di fatto avete già pagato con una siffatta moneta digitale, solo che in quel caso il prodotto acquistato era la vostra libertà di movimento e l’importo pagato era una puntura o un tampone.

 

Ecco, fare la spesa in un Paese trafitto dai blackout funzionerebbe nello stesso identico modo. Esibendo un QR code vi direbbero «sì, può uscire con la spesa» e vi trovereste qualche soldo in meno sul portafoglio digitale dello smartphone.

 

Il green pass palesemente non serviva per risolvere l’emergenza sanitaria e sarebbe buffo scoprire che ora serve per risolvere l’emergenza dei blackout.

 

Fa sempre bene citare questa massima pokeristica: «se ti siedi ad un tavolo da poker e dopo 20 minuti non hai ancora capito chi è il pollo, beh il pollo sei tu».

Che tradotta nel contesto suonerebbe come: «se dopo 3 anni non hai capito che il tuo ministero della Salute non è un pollo, allora il pollo sei tu».

 

 

Gian Battista Airaghi

 

 

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Economia

Nave rigassificatrice arrivata a Piombino

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La nave rigassificatrice Golar Tundra è approdata a Piombino. L’imbarcazione ha attraversato le acque del Canale di Suez scortata dalle navi della Marina Militare nell’ambito dell’operazione Mediterraneo Sicuro. Lo riporta RID.

 

Si tratta di una struttura necessaria per la riconversione del gas naturale liquefatto in forma gassosa, in cui può essere distribuito via tubo. La Gola Tundra ha potenza di stoccaggio di circa 170.000 metri cubi di gas naturale liquido (GNL) e potrà rigassificare 5 miliardi di metri cubi all’anno. Le navi di questo tipo sono chiamate generalmente FSRU.

 

La Golar Tundra, lunga 292 metri, larga 43 e alta 55, è stata acquistata dalla Snam a Singapore e batte bandiera delle isole Marshall. La nave costituisce quindi una struttura strategica per il Paese oramai tagliato fuori dalle forniture russe, che erano economiche e arrivavano direttamente via tubo.

 

Ora i fornitori di gas, sotto forma di GNL, del Paese sono USA, Qatar, Egitto. L’idrocarburo arriva dunque via nave per essere trasformato dalla nave che agisce come rigassificatore.

 

In Italia attualmente si contano solo tre rigassificatori in funzione, e di tre tipologie diverse. Il maggiore è l’impianto offshore al largo di Porto Viro, in provincia di Rovigo. Un altro rigassificatore in mare è quello di Livorno; ve ne è anche uno a terra, quello di Panigaglia, nella provincia della Spezia.

 

I prezzi del gas, comperato da americani ed altri, sono molto superiori a quelli pagati alla Russia.

 

La Golar Tundra inizierà la sua attività il prossimo maggio. L’Italia ha diversificato le forniture acquistando anche da Olanda e Norvegia (gasdotto Transitgas), e da Algeria (gasdotto Transmed) e Azerbaijan, con il TAP che giunge in Puglia.

 

La Golar Tundra e la Bw Singapore, l’altra nave Fsru che invece sarà collocata a Ravenna, contribuiranno al 13% del fabbisogno energetico nazionale

 

Come riportato da Renovatio 21, il consumo di gas in Europa è in caduta libera. La Germania ha ridotto il consumo del 14% , pure avendo iniziato ad importare gas anche dalla Francia. L’Austra ha dichiarato l’impossibilità di fare a meno del gas russo. L’Europa cinque mesi fa ha visto finire anche le importazioni di gas via nave dalla Cina: si trattava di gas russo comprato ad alto costo dagli Europei, che, con il giro del mondo e la cresta cinese, così non avevano direttamente a che fare con Mosca

 

La mancanza di gas in Germania, è stato notato, poteva mettere in pericolo anche le funzioni delle stesse basi USA nel Paese.

 

L’India, al contrario, pianifica un aumento di consumi di gas del 500%: sarà acquistato, ovviamente, nella Russia impossibilitata a fare commercio con l’Europa.

 

La situazione italiana è stata analizzata da Renovatio 21 con varie interviste con il professor Mario Pagliaro: il tracollo del consumo energetico è ovviamente il segno di un possibile collasso industriale.

 

 

 

 

 

Immagine di Floydrosebridge via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)

 

 

 

 

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Il tentativo da 279,6 miliardi di dollari della Banca nazionale svizzera di contenere l’innesco del Credit Suisse

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Parrebbe che i pompieri della finanza globale abbiano trovato il modo di fermare l’incendio. Così dicono: tuttavia le incongruenze della vicenda, specifiche e sistemiche, lasciano ancora piuttosto attoniti.

 

In una corsa ad alto rischio per l’ennesimo salvataggio di emergenza delle banche, prima dell’apertura dei mercati in Asia, la Banca d’Inghilterra, la Federal Reserve e le autorità di regolamentazione finanziaria nel Regno Unito e negli Stati Uniti avrebbero lavorato febbrilmente con la Banca nazionale svizzera e le istituzioni finanziarie svizzere e le autorità di regolamentazione per evitare un tracollo bancario globale il 20 marzo.

 

Poche ore prima dell’apertura del mercato di Tokyo, nella prima serata di Zurigo del 19 marzo, è stato annunciato un accordo per tentare di impedire al Credit Suisse di innescare un collasso mondiale della rete di contratti finanziari derivati.

 

Come riassume EIRN, gli elementi da considerare sono:

 

L’Unione delle Banche Svizzere (UBS) acquisterà Credit Suisse per poco più di 2 miliardi di dollari. UBS ottiene un prestito dal governo per 54 miliardi di dollari – sì, UBS spende meno del 4% del prestito concesso loro per «acquistare» Credit Suisse.

 

«Credit Suisse ottiene un prestito di 162 miliardi di dollari (oltre al precedente prestito «storico» di 54 miliardi che è stato inghiottito solo una settimana fa» scrive EIRN.

 

«UBS è liberata dal dover coprire i primi 9,6 miliardi di dollari circa di perdite attese da Credit Suisse appena acquisita lunedì. Uno non dovrebbe indagare troppo a fondo su dove arriva il governo svizzero con i 54 miliardi di dollari della scorsa settimana, tanto meno con i 225,6 miliardi di dollari di oggi».

 

Il rifiuto dell’accordo da parte degli azionisti di Credit Suisse sarebbe stato automatico, poiché la valutazione della banca era di 8 miliardi di dollari alla chiusura del mercato, circa 50 ore prima, cioè circa un quarto di quella pattuita con UBS. Il che significa che gli investitori hanno perso circa il 75%.

 

«Ciò è stato risolto ordinatamente modificando le regole in Svizzera in un batter d’occhio e vietando qualsiasi voto. Perché votare quando non va per il verso giusto?» continua EIRN.

 

La Banca Nazionale svizzera (BNS) ha annunciato domenica sera che stava fornendo una sostanziale assistenza di liquidità per sostenere l’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS e che, quindi, è stata trovata una soluzione per garantire la stabilità finanziaria e proteggere l’economia svizzera in questa situazione eccezionale.

 

Oltre ai 279,6 miliardi di dollari di prestiti e garanzie derivanti dall’Ordinanza d’urgenza del Consiglio federale del 2022 e dal Public Liquidity Backstop, «entrambe le banche hanno accesso illimitato alle strutture esistenti della BNS, attraverso le quali possono ottenere liquidità in conformità con le loro “Linee guida sugli Strumenti di politica monetaria”».

 

La Banca Nazionale elvetica conclude che sta adempiendo al suo mandato di contribuire alla stabilità del sistema finanziario.

 

L’incendio è domato o hanno guadagnato tempo?

 

Sappiamo cosa sorgerà dalle ceneri del sistema bancario mondiale: la CBDC, la moneta digitale di Stato. A quel punto, le banche, ovunque, diverranno obsolete, saranno quindi disintermediate, e alla fine, terminate.

 

Il portafogli elettronico del cittadino, che non potrà che essere gestito dallo Stato o da enti sovrastatali come l’UE, sarà il metodo di controllo sociale più potente mai realizzato nella storia umana.

 

I miliardi che vanno in fumo in questi giorni servono a questo: è, tra fuochi e urla, un rito di passaggio ad una nuova era di sottomissione globale dell’essere umano.

 

 

 

 

Immagine di Luca Barni via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)

 

 

 

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Economia

Macron sacrifica le pensioni all’altare del rating

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Macron non arretra sulla riforma delle pensioni nonostante la protesta che incendia il Paese da giorni. Il compito del presidente, ex banchiere d’affari presso la Banca Rothschild, sarebbe quello di tranquillizzare le agenzie di rating, che potrebbero degradare la Francia con un giudizio negativo.

 

La brutale distruzione di una parte fondamentale dello stato sociale francese del dopoguerra, una pensione decente, è considerata il sanguinoso sacrificio necessario per mantenere la fiducia del mercato e convincere le agenzie di rating che ora minacciano di abbassare il rating del credito della Francia.

 

Secondo Standard&Poor’s Parigi merita un AA, per Moodys invece il rating è AA2.

 

Il vero problema che il presidente non ha il coraggio di affrontare è l’impatto sull’economia francese di una politica energetica nazionale incredibilmente pasticciata e delle sanzioni occidentali contro Russia, Cina e altre nazioni.

 

 

Le Monde riferisce che «l’impennata dei prezzi del gas, del petrolio e delle materie prime ha portato il deficit commerciale francese a quasi raddoppiare nel 2022 a 164 miliardi di euro, secondo i dati pubblicati martedì 7 febbraio dal ministero francese per l’Europa e gli affari esteri, il più grande deficit dalla seconda guerra mondiale».

 

 

«Avevamo a che fare con una situazione eccezionale nel 2022», afferma il ministro francese del Commercio estero Olivier Becht. «Abbiamo dovuto importare elettricità per compensare il fatto che molti reattori nucleari erano in manutenzione», ha detto. «E l’impatto [della guerra] in Ucraina ha portato alle stelle i prezzi del gas e del petrolio, che a volte sono raddoppiati o addirittura triplicati».

 

 

Renovatio 21 aveva riportato della crisi di circa metà dei reattori nucleari francesi ancora sei mesi fa. Già a gennaio, Renovatio 21 aveva riferito di una strana serie di «danni inaspettati» e riparazioni alle centrali atomiche francesi.

 

Il Wall Street Journal una diecina di giorni fa aveva riportato crepe inaspettate negli impianti di dozzine di reattori nucleari francesi.

 

 

La EDF, tornata da pochissimo sotto il controllo dello Stato, ha poi bizzarramente rifiutato la proposta del governo di Londra di procrastinare la dismissione programmata della centrale atomica inglese di Hinkley Point B, di proprietà del colosso statale francese.

 

L’estate scorsa era emerso come i francesi stessero cercando di mantenere in funzione le centrali nucleari nonostante l’ondata di caldo, che non assicurava acque di temperatura sufficientemente bassa per il sistema di raffreddamento dei reattori.

 

L’Italia dipende dall’elettricità francese per il 6%. Ha destato scalpore la possibilità che la Francia possa chiudere il rubinetto dell’energia per l’Italia, mandando potenzialmente la rete elettrica italiana o parte di essa in blackout.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Banca di Francia si disse preoccupata per la recessione che si prospetta per l’economia del Paese, dove sono stati lanciati allarmi per possibili blackoutLe Figaro due settimane fa ha ipotizzato pure uno stop dell’industria alimentare nazionale.

 

 

 

 

 

Immagine screenshot da Twitter

 

 

 

 

 

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