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Cina

La Cina pianifica una missione lunare con equipaggio entro il 2030

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La Cina ha in programma di inviare astronauti sulla Luna entro il 2030, ha annunciato lunedì Lin Xiqiang, vicedirettore della China Manned Space Agency (CMSA). Ha aggiunto che la missione si concentrerà sulla padronanza della tecnologia del volo spaziale con equipaggio e preparerà le basi per un’ulteriore esplorazione lunare.

 

Annunciando i piani al Jiuquan Satellite Launch Center nel nord-ovest del paese, Lin ha rivelato che la Cina mira a «effettuare esplorazioni scientifiche e relative dimostrazioni tecnologiche sulla superficie lunare» nonché ad affinare la tecnologia legata ai viaggi di andata e ritorno con equipaggio.

 

Il Lin ha quindi dichiarato che uno sbarco sulla Luna era stato preso di mira entro il 2030, ma non ha fornito un lasso di tempo più preciso.

 

Lin ha affermato che il CMSA intende «sviluppare un sistema di commutazione e permanenza a breve termine per gli equipaggi [sulla Luna]» mentre esplora le opportunità per i test integrati uomo-robot. Gli astronauti cinesi condurranno anche passeggiate sulla superficie lunare per raccogliere campioni ed effettuare ricerche.

 

Il funzionario aerospaziale della Repubblica Popolare ha osservato che la Cina ha già schierato una «stazione spaziale umana vicina alla Terra e un sistema di trasporto umano di andata e ritorno». Si tratta della stazione spaziale Tiangong, completata lo scorso novembre e attualmente orbitante intorno al pianeta in LEO (orbita bassa) con un equipaggio di tre persone.

 

Se la missione lunare cinese avrà successo, dice il Lin, «porterà le nostre missioni con equipaggio dall’orbita terrestre bassa allo spazio profondo e aiuterà ad approfondire la conoscenza dell’umanità sull’origine e l’evoluzione della Luna e del sistema solare».

 

La Cina sta sviluppando i sistemi necessari per soddisfare le sue ambizioni, compreso un razzo di nuova generazione che dovrebbe effettuare il suo primo volo nel 2027. All’inizio di quest’anno, l’amministratore della NASA Bill Nelson ha descritto Washington e Pechino come entrate in una «corsa allo spazio» dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato l’intenzione di riportare gli astronauti americani sulla Luna nel 2025.

 

Nelson ha riconosciuto che il programma spaziale di Pechino ha ottenuto «un enorme successo» negli ultimi anni, ma ha avvertito che la Cina potrebbe rivendicare parti della Luna. In un’intervista dell’anno scorso al tabloid tedesco Bild, l’amministratore della NASA aveva accusato la Cina di voler addirittura conquistare la Luna. L’intervista è stata ampiamente ripresa dalla stampa internazionale.

 

Il ministero degli Esteri cinese ha respinto tali accuse, affermando di essere impegnato in «normali e ragionevoli sforzi nello spazio». Pechino ha accusato gli Stati Uniti di condurre una «campagna diffamatoria» contro le aspirazioni spaziali della Cina.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Cina sta costruendo una luna artificiale che simula magneticamente la gravità.

 

La corsa internazionale verso la Luna si sta intensificando in grande stile e la Cina si pone tra i paesi più avvantaggiati nella sfida cosmonautica che poche potenze al mondo sono in grado di portare avanti. Essa non ha dubbi riguardo l’idea di sfruttare le risorse minerarie della Luna.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Cina sta investendo in armi progettate per bloccare o distruggere i satelliti statunitensi, cioè armi antisatellite (ASAT): «dal laser abbagliante al jamming, all’abbattimento cinetico da terra o dallo spazio – in tutte queste cose, sono in marcia», avrebbe rivelato una fonte del Pentagono a Natural News 11 mesi fa.

 

Di fatto, la Cina ha già schierato missili terrestri per distruggere i satelliti in orbita terrestre bassa (LEO).

 

Nel maggio 2021 un veicolo robotico cinese chiamato Zhurong, è atterrato con successo su Marte, sancendo di fatto l’ingresso della Cina fra le nazioni protagoniste nella corsa verso il Pianeta Rosso.

 

Come riportato da Renovatio 21, vi sarebbe un piano di Pechino per colonizzare pianeti oltre il sistema solare.

 

 

 

 

 

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Cina

La Cina contro un vescovo «sotterraneo»: multa e ordinanza di demolizione, le nuove armi contro mons. Shao

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Al vescovo cinese che nella provincia dello Zhejiang ha rifiutato l’adesione agli organismi ufficiali, le autorità hanno comminato una nuova ammenda da 200mila Yuan e minacciano di abbattere il suo «edificio abusivo». La colpa? Aver celebrato una Messa con 200 fedeli. A Natale aveva scritto ai fedeli della diocesi invitando a vivere il Giubileo della speranza in comunione con la Chiesa universale.

 

Una multa di 200mila yuan (l’equivalente di oltre 26mila eurom ndr) per aver celebrato una Messa in pubblico con 200 fedeli. Con in più anche un’ingiunzione di abbattimento dell’edificio dove tiene le sue «attività illegali», che sono poi la casa e la cappella dove vive. Sono le ultime misure prese dalle autorità della provincia orientale dello Zhejiang contro mons. Pietro Shao Zumin, il vescovo della diocesi di Wenzhou non riconosciuto da Pechino per il suo rifiuto di aderire agli organismi «ufficiali» controllati dal Partito comunista cinese.

 

Come AsiaNews ha più volte raccontato, mons. Shao Zumin, oggi 61enne, venne ordinato vescovo coadiutore con un mandato papale nel 2011 ed è dunque succeduto al suo predecessore mons. Vincent Zhu Wei-Fang, alla morte di quest’ultimo nel settembre 2016. Non ha però mai ottenuto il riconoscimento da parte delle autorità che considerano la sede «vacante» e sostengono come guida della locale comunità cattolica padre Ma Xianshi, un sacerdote «patriottico». Per questo motivo il vescovo «clandestino» mons. Shao negli ultimi anni è stato ripetutamente arrestato, di solito in concomitanza con le solennità, per evitare che i fedeli partecipino a riti da lui presieduti.

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Proprio una Messa da lui celebrata il 27 dicembre con la partecipazione di un folto gruppo di cattolici sarebbe all’origine dei nuovi provvedimenti.

 

Come mostrano due documenti condivisi da fonti locali con AsiaNews, le autorità del distretto di Longwan hanno comminato la pesante sanzione amministrativa sulla base di fotografie scattate sul posto e verbali di interrogatorio. Allegano il piano quinquennale della diocesi di Wenzhou (compilato dagli organismi «ufficiali» della diocesi) per dimostrare che la Messa presieduta da mons. Shao era un atto illegale. E ritenendo il fatto una violazione grave dell’articolo 71 del Regolamento sugli Affari religiosi viene stabilita la pena dell’ammenda da 200mila yuan.

 

Contemporaneamente, sempre per quella stessa Messa del 27 dicembre, un altro ufficio dell’amministrazione locale di Wenzhou ha emesso una seconda ordinanza che mette nel mirino l’edificio dove il rito si è svolto, che è poi la chiesa della residenza stessa dove mons. Shao vive. Il vescovo viene accusato di «costruzione non autorizzata» per una superficie di «circa 200 metri quadrati».

 

Si sostiene che questo comportamento viola l’articolo 40 della legge sulla pianificazione urbanistica, decretando una seconda sanzione da 200mila Yuan e la demolizione della struttura.

 

Dunque, dopo gli arresti, ora sono i bastoni tra le ruote posti per via amministrativa la strada adottata dalla provincia dello Zhejiang contro il vescovo «sotterraneo». Provvedimenti arrivati nelle stesse settimane in cui la stretta contro i vescovi e sacerdoti che non accettano di registrarsi aveva colpito anche mons. Guo Xijing a Mindong, nella provincia del Fujian.

 

Vale la pena di aggiungere che proprio in occasione del Natale il vescovo Shao a Wenzhou aveva diffuso una lettera in cui esortava i fedeli a vivere in comunione con la Chiesa universale il Giubileo 2025. Nel testo il presule esortava ogni parrocchia a riunirsi per studiare e riflettere sulla bolla di indizione di papa Francesco, a recitare ogni giorno al termine della Messa la preghiera dell’Anno Santo e designava ogni chiesa della diocesi come luogo in cui vivere il pellegrinaggio giubilare.

 

«Spero che questo Giubileo possa rafforzare la nostra fede, stimolare la nostra speranza e farci crescere nella carità. Perché la speranza nasce dall’amore e “la speranza non delude” (Romani 5,5)», scriveva mons. Shao a conclusione del suo messaggio natalizio. Parole inaccettabili per le autorità di Pechino, se pronunciate senza prima sottomettersi al rigido controllo del Partito.

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Cina

Pechino vieta agli uiguri le «nazioni sensibili» a maggioranza musulmana

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Secondo un rapporto di HRW, la Cina ha imposto restrizioni ancora più severe ai viaggi per i membri della minoranza islamica. Accessibili solo un un numero «limitato» di nazioni. Vietati contatti e interazioni con attivisti all’estero. Per il visto necessario fornire un «garante» o vengono tenuti in «ostaggio» i familiari per assicurare il ritorno in patria.   La Cina ha imposto nuove, e ancor più severe restrizioni ai viaggi per i membri della minoranza musulmana uiguri, diffusa nella provincia occidentale dello Xinjiang e già in passato – anche di recente – oggetto di pesanti persecuzioni che spesso passano sotto silenzio.   A denunciarlo è l’ong attivista Human Rights Watch (HRW), che in un rapporto pubblicato ieri documenta «violazione sistematica» del loro diritto di poter lasciare il Paese, riconosciuto pure a livello internazionale. In particolare, agli uiguri è vietato visitare «Paesi sensibili» con grandi popolazioni musulmane, fra i quali la Turchia, e possono viaggiare solo in un numero limitato in altre nazioni come il Kazakhstan, ma solo per affari.

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Secondo il rapporto, ai musulmani uiguri è vietato avere contatti o interazioni con attivisti all’estero e non è nemmeno possibile parlare «in modo critico del governo cinese». Gli elementi della minoranza musulmana cinese emigrati in una nazione diversa, ma che vogliono visitare lo Xinjiang, devono fornire uno «scopo del viaggio» e un «invito da parte di un membro della famiglia» di origine.   Una fonte della comunità uiguri, il cui padre è stato interrogato al ritorno da un viaggio oltre-confine, ha raccontato a HW che gli è stato chiesto «chi ha incontrato, dove è andato e cosa ha detto alla gente».  «Non andavamo nemmeno nei ristoranti uiguri» ha quindi aggiunto «per evitare l’attenzione e la sorveglianza della Cina».   Gli uiguri, cittadini di Paesi che richiedono un visto per visitare la Cina, devono affrontare una procedura di richiesta più lunga, fino a sei mesi. Secondo il gruppo, anche la partecipazione ad attività non politiche, come mandare i figli in scuole di lingua uigura o partecipare a un matrimonio in presenza di attivisti, può comportare il rifiuto di ingresso.   Il rapporto giunge mentre le autorità cinesi iniziano a permettere ad alcuni uiguri di viaggiare fuori dallo Xinjiang, anni dopo aver confiscato i passaporti di alcuni membri della minoranza etnica e averli imprigionati per “contatti” con persone all’estero. Pechino è inoltre accusata di averli perseguitati (coi musulmani Hui) nell’ultimo decennio, anche attraverso una campagna di detenzioni arbitrarie; accuse che la leadership nega in modo sistematico e bollandole come la «menzogna del secolo».   Secondo le Nazioni Unite la Cina, in seguito alla drammatica escalation nell’applicazione delle misure anti-terrorismo del 2017, avrebbe arrestato e detenuto oltre un milione di musulmani appartenenti alle minoranze, perlopiù uiguri. Di contro, Pechino ha sempre negato – almeno nella prima fase – l’esistenza di centri di detenzione per i membri della minoranza, per poi difenderli definendoli come «centri di rieducazione».

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Fra le nazioni straniere, la Turchia è fra quelle che ha maggiori legami culturali ed etnici con gli uiguri e molti membri della comunità, in fuga dalle violazioni dei diritti umani nella regione occidentale cinese, hanno trovato rifugio fra le braccia di Ankara. Tuttavia il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan, che un tempo criticava aspramente il trattamento riservato dalla Cina agli uiguri, ha nell’ultimo periodo moderato le sue critiche, anche in seguito allo sviluppo di relazioni economiche più forti – e redditizie – con Pechino.   Alcuni uiguri hanno raccontato a HRW che le autorità cinesi hanno permesso a una sola persona di ciascuna famiglia di viaggiare, tenendo in «ostaggio» i parenti più stretti per garantire il loro ritorno in patria. Alcuni hanno affermato che le autorità hanno richiesto loro di fornire un «garante» – spesso un altro funzionario che si spendesse per loro – prima di concedere il permesso di viaggiare o il visto di espatrio. Inoltre, il mancato rispetto delle regole mette il garante o i membri della famiglia a rischio di durissime punizioni.   «Gli uiguri si trovano ad affrontare condizioni e requisiti severi se vogliono ricongiungersi brevemente o anche solo comunicare con i familiari in Cina» ha dichiarato Yalkun Uluyol, ricercatore sulla Cina di Human Rights Watch. «Poter contattare o visitare i propri cari all’estero» conclude «non dovrebbe essere un privilegio concesso a pochi uiguri, ma è un diritto che il governo cinese è obbligato a rispettare».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Cina

Regista cinese condannato a 3 anni e mezzo di carcere per un documentario sulla tirannide COVID

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Un regista cinese è stato condannato a tre anni e sei mesi di prigione per aver realizzato un documentario sulle proteste contro le pesanti restrizioni imposte dal governo cinese durante l’era del COVID. Lo riporta LifeSiteNews.

 

Un tribunale di Shanghai ha condannato Chen Pinlin, 33 anni, ha riferito la CNN, in seguito alla sua condanna per «aver provocato liti e disordini», un’accusa usata solitamente per colpire gli attivisti politici cinesi dissidenti, tra cui i giornalisti.

 

Il crimine apparente di Pinlin è stata la creazione di Urumqi Middle Road, un film che mostrava uno scorcio della tirannica repressione del COVID-19 da parte del governo cinese e presentava le conseguenti proteste del «Libro bianco», chiamate così per i fogli di carta bianchi tenuti in mano dai dimostranti di strada al posto dei cartelli, per evitare la censura del Partito Comunista Cinese (PCC).

 

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Il movimento di protesta è stato innescato da un incendio mortale in un appartamento a Urumqi 0 città nell’estremo Ovest cinese dell’inquieta provincia dello Xinjiang, un tempo chiamata «Turkestan cinese» – che ha causato almeno 10 vittime, presumibilmente a causa delle misure di blocco del COVID che hanno impedito sia la fuga degli abitanti sia i tempestivi sforzi di soccorso. Le veglie di strada sono spuntate a fine novembre 2022 per ricordare i defunti, trasformandosi in proteste che hanno preso piede in diverse grandi città della Cina, tra cui Pechino, Shanghai, Guangzhou e Xi’an.

 

Le proteste sono diventate uno sfogo per l’indignazione e l’angoscia causate dalle politiche draconiane anti-COVID in tutto il paese e hanno chiesto la fine delle politiche zero-COVID del presidente cinese Xi Jinping, che hanno imposto ai cittadini di essere crudelmente rinchiusi nelle proprie case per settimane intere. A Shanghai, ad esempio, il governo ha imposto il confinamento in alcuni casi sigillando o chiudendo a chiave le porte.

 

Secondo la CNN, le proteste del Libro Bianco, che spesso attaccavano direttamente Xi Jinping, erano le più grandi che la Cina avesse visto dalla manifestazione studentesca di Piazza Tienanmen del 1989. Il documentario di Pinlin, ancora disponibile su YouTube fuori dalla Cina, include filmati dei manifestanti del Libro Bianco che gridavano: «vogliamo la dignità!» «Vogliamo la verità!» «Vogliamo i diritti umani!»

 

Masse di manifestanti hanno erano arrivate a chiedere le dimissioni di Xi Jinping. Alcuni hanno gridato per la «rimozione del traditore Xi Jinping», e si può sentire un uomo gridare: «Senza il Partito Comunista, ci sarebbe una nuova Cina!»

 

Il titolo della versione inglese del film di Pinlin è Not the Foreign Force («Non la forza straniera»), in obiezione alle affermazioni del PCC secondo cui «forze straniere» avrebbero fomentato proteste contro il governo cinese.

 

«Spero di esplorare perché, ogni volta che sorgono conflitti interni in Cina, le forze straniere vengono sempre rese il capro espiatorio», ha scritto Pinlin. «La risposta è chiara a tutti: più il governo inganna, dimentica e censura, più dobbiamo parlare, ricordare agli altri e ricordare. Solo ricordando la bruttezza possiamo tendere verso la luce. Spero anche che un giorno la Cina abbracci la propria luce e il proprio futuro».

 

Sin dal suo arresto, i gruppi per i diritti umani chiedono il rilascio di Pinlin.

 

Come riportato da Renovatio 21, il lockdown di Shanghai a visto scene di crudeltà incredibile, come la separazione delle famiglie e l’uccisione di animali domestici, rivolte popolari (come nella fabbrica che produce i prodotti Apple), scontri con la polizia, nonché l’utilizzo di droni e robocani per il controllo della popolazione.

 

Secondo alcuni il numero dei morti creati dal megalockdown di Shanghai sarebbe stato maggiore di quello causato dal COVID.

 

Il regime fu scosso dalle proteste al punto da mandare i carri armati in strada, facendo presagire una nuova Tien’an Men.

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Immagine screenshot da YouTube

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