Cina
Pechino guarda oltre il sistema solare per colonizzare pianeti abitabili
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
L’obiettivo è completare il programma e renderlo operativo entro il 2030 grazie a immagini ad alta risoluzione. Un piano «ambizioso e significativo» per studiare i corpi celesti distanti nello spazio. La sfida economia e militare con gli Stati Uniti. La missione su Marte di Zhurong e il lancio della navicella spaziale cargo Tianzhou 6.
Se il primo obiettivo della Cina in ambito territoriale – e terrestre – nell’immediato futuro è quello di riannettere l’isola “ribelle” di Taiwan, i programmi a lunga scadenza vanno ben oltre i confini del sistema solare, alla ricerca di «pianeti abitabili» da poter colonizzare.
Almeno questo è l’ambizioso piano spaziale di Pechino che, come spiegano esperti cinesi del settore, dovrebbe essere completato e operativo entro la fine del 2030 grazie all’utilizzo di immagini ad alta risoluzione e indagini spettroscopiche.
Zhang Xuhui, vice-presidente esecutivo della China Academy of Aerospace Science and Technology Innovation, sottolinea che il piano chiamato «Miyin», ancora in fase di sviluppo, intende dare la caccia a nuovi pianeti abitabili oltre alla terra. Citato dal quotidiano in lingua inglese Global Times, vicino al partito comunista, l’esperto ha affermato durante una conferenza ad Hefei, nell’est del Paese, che i primi passi di questa nuova ricerca dovrebbero iniziare nel 2030, ultimato il processo di assemblaggio del telescopio di base.
Alla ricerca della vita
I ricercatori puntano ad effettuare immagini ad alta risoluzione e osservazioni spettroscopiche di vari tipi di oggetti, per mappare la componente acquosa presente nel sistema solare.
«Il programma Miyin – ha aggiunto Zhang – è ambizioso e significativo, ma è ancora in fase di sviluppo tecnologico. In futuro, progrediremo nel suo grado di maturità attraverso una serie di test di volo, compiendo al contempo lungo il percorso ulteriori scoperte scientifiche».
La progressione del programma spaziale cinese prevede diverse tappe: nel 2025, la stazione spaziale cinese sarà la base per gli esperimenti nel campo delle interferenze ottiche, meglio nota come interferometria, una tecnica utilizzata per studiare oggetti celesti distanti nello spazio; un anno più tardi gli scienziati intendono lanciare un satellite sperimentale con tecnologia atta a realizzare per la prima volta il rilevamento delle interferenze ottiche distribuite nello spazio, oltre a verificare i punti chiave del programma Miyin; infine, entro il 2030 il completamento del telescopio per immagini a interferenza ottica.
Ultima tappa, ha concluso Zhang, la ricerca di pianeti “abitabili”.
L’obiettivo è mappare la struttura e le proprietà fisiche degli oggetti del sistema solare, nonché la distribuzione dei componenti molecolari del sistema solare, in particolare l’acqua, e rivelarne l’origine, la dinamica e l’evoluzione della composizione chimica.
La corsa allo spazio di Pechino prevede inoltre indagini sulla genesi della vita sulla terra e delle sue componenti, in un mix di progresso verso l’esterno e di indagine interna fino alle origini. Un piano che rafforza, una volta di più, le ambizioni cinesi con i suoi investimenti miliardari e che hanno già decretato alcuni successi come l’atterraggio di una sonda sul lato più lontano e oscuro della Luna nel gennaio 2019, una prima assoluta mondiale sino ad oggi.
Inoltre, la stazione spaziale cinese Tiangong diventerà con tutta probabilità la sola operativa e funzionante in orbita nel momento in cui la NASA condurrà fuori dall’orbita del nostro pianeta la Stazione Spaziale Internazionale entro il 2031. Washington ha sempre negato l’accesso alla Cina sulla ISS, per i segreti militari connessi al programma spaziale.
La guerra spaziale
Pechino ha avviato i primi programmi spaziali negli anni ‘50 del secolo scorso, inizialmente collaborando con l’allora Unione Sovietica per proseguire con un programma autonomo dopo la crisi con Mosca del 1960.
Tra i primi successi da annoverare, la messa in orbita del satellite artificiale 10 anni più tardi nel 1970, cui è seguita una fase di lenti progressi fino alla nuova accelerazione – grazie a investimenti ingenti e tecnologie all’avanguardia – negli anni ‘90 con l’invio di astronauti oltre l’atmosfera e i più recenti veicoli robotici sulla Luna e su Marte. I progressi di Pechino sono seguiti con preoccupazione dagli Stati Uniti, che vedono in pericolo il loro primato nello spazio e per la minaccia economico-militare.
La Cina è la terza nazione dopo Unione Sovietica e Stati Uniti ad aver realizzato missioni umane oltre l’atmosfera terrestre con l’uso esclusivo di tecnologia di produzione interna. Già oggi il controllo dello spazio appare di vitale importanza tanto quanto quello delle risorse economiche sulla terra, in particolare per le potenzialità dei satelliti artificiali. E se, in futuro, diventerà possibile e sostenibile sul piano economico lo sfruttamento delle risorse del nostro satellite o di altri corpi celesti, il confronto fra le parti è destinato a diventare ancora più aspro anche perché gli attuali trattati inerenti il diritto aerospaziale non sanciscono regole precise per le diverse controversie politiche, diplomatiche e strategiche che ne possono derivare.
Da Zhurong a Tianzhou 6
Nel maggio 2021 un veicolo robotico cinese chiamato Zhurong, è atterrato con successo su Marte, sancendo di fatto l’ingresso della Cina fra le nazioni protagoniste delle missioni oltre l’atmosfera. Il mezzo da 240 kg con sei strumenti scientifici fra i quali una telecamera topografica ad alta risoluzione ha studiato il suolo e l’atmosfera del pianeta rosso, esplorandone la superficie per ben 358 giorni e viaggiando per quasi 2mila metri. Superato il periodo di missione previsto di tre mesi, il rover completamente robotico dal maggio dello scorso anno è entrato in una fase di letargo, con tutta probabilità dovuto a un accumulo di sabbia e polvere, facendo così perdere le tracce.
Gli esperti cinese continuano a monitorare l’evoluzione della situazione, proseguendo al contempo l’attività su molti altri fronti considerando che oggi dispone di quattro spazio-porti per lanci orbitali, di razzi e tecnologie all’avanguardia a conferma delle ambizioni.
Uno degli obiettivi dichiarati è quello di inviare astronauti sulla Luna e installare sul satellite una base permanente, per poi proseguire puntando dritti su Marte oltre a pianificare la costruzione di una centrale capace di immagazzinare energia solare nello spazio e trasferirla sulla terra.
Questo è il domani, mentre l’oggi è rappresentato dal lancio della navicella spaziane da cargo Tianzhou 6, che è chiamata a rifornire la stazione spaziale Tiangong, prima missione di questa natura dal completamento della stazione a novembre.
Il vettore, privo di equipaggio e caricato con 7,4 tonnellate di carburante, cibo, rifornimenti e mezzi di ricerca scientifica, è partito ieri dalla stazione di lancio di Wenchang, isola di Hainan, nel sud del Paese secondo i dati forniti dalla China Manned Space Agency (CMSA).
«Il razzo e il mezzo sono in ottime condizioni. Pronti a volare» ha affermato Zhong Wenan, ingegnere capo presso il centro di Xichang, che sovrintende al sito di Wenchang.
Il mezzo è poi regolarmente attraccato alla stazione orbitante, completando tutte le fasi otto ore dopo il lancio. «In futuro – aggiunge il capo progettista Wang Ran, operativo alla China Academy of Space Technology – abbiamo in programma l’invio di un enorme frigorifero, di modo che gli astronauti possano cibarsi di frutta fresca e cibo congelato».
La corsa allo spazio continua.
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Cina
La Cina scopre un processo che rivoluziona la produzione dell’acciaio
Dopo oltre un decennio di intensa ricerca in Cina, gli scienziati hanno sviluppato una nuova tecnologia rivoluzionaria per la produzione del ferro che potrebbe apportare cambiamenti di vasta portata nell’industria siderurgica globale. Lo riporta il giornale di Hong Kong South China Morning Post.
l professor Zhang Wenhai, accademico della Chinese Academy of Engineering, in un articolo pubblicato sulla rivista peer-reviewed Nonferrous Metals a novembre, ha riferito che lui e il suo team hanno sviluppato un metodo per iniettare polvere di minerale di ferro finemente macinata in una fornace estremamente calda, innescando una «reazione chimica esplosiva».
Il risultato è una serie di goccioline di ferro liquido rosso vivo e incandescente che piovono e si raccolgono sul fondo della fornace, formando un flusso di ferro ad alta purezza che può essere utilizzato direttamente per la fusione o la «produzione di acciaio in un unico passaggio».
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Noto come flash ironmaking, il metodo «può completare il processo di fabbricazione del ferro in soli tre-sei secondi, rispetto alle cinque-sei ore richieste dagli altiforni tradizionali», riporta lo studio. Ciò equivale a un aumento di 3.600 volte della velocità di fabbricazione dell’acciaio. Il nuovo metodo funziona anche eccezionalmente bene per i minerali a bassa o media resa che sono abbondanti in Cina.
Gli attuali metodi di produzione del ferro dipendono fortemente dai minerali ad alta resa e la Cina spende una grande quantità di denaro per importare tali minerali da Australia, Brasile e Africa. La Cina non avrà nemmeno bisogno di importare il suo elevato volume di carbone per la fabbricazione dell’acciaio, scrive EIRN.
Nell’attuale produzione tradizionale di acciaio, partendo da zero, il carbone viene utilizzato principalmente per produrre «coke», una forma di carbonio quasi puro, che funge sia da fonte di calore per fondere il minerale di ferro sia da agente riducente per rimuovere l’ossigeno dal minerale, lasciando dietro di sé ferro puro. Quel coke può essere omesso da questo processo.
Il team del Zhang ha sviluppato una lancia a vortice che può iniettare 450 tonnellate di particelle di ferro all’ora. Un reattore dotato di tre di queste lance può, in modo ottimale, produrre 7,11 milioni di tonnellate di ferro all’anno. Il documento nota che la lancia «è già entrata in produzione commerciale». Quando i cinesi generano un documento di ricerca, di solito hanno svolto molto lavoro nell’area.
Il concetto originale per questo processo di fabbricazione del ferro è nato negli Stati Uniti, ma, come nel caso di così tante aree di ricerca, gli Stati Uniti non lo hanno sufficientemente seguito, mentre il team di Zhang ha sviluppato una tecnologia di fusione rapida.
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Immagine di Goodwin Steel Casting via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
Cancro
Cina, indagata clinica che prometteva di curare il cancro con la medicina tradizionale
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Cina
Xinjiang e lavoro forzato: i «passi indietro» in Cina di Volkswagen e Uniqlo
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Le nuove normative sulle catene di approvvigionamento adottate da Stati Uniti e Unione Europea stanno costringendo molte aziende a prendere posizione sulla questione dello sfruttamento degli uiguri. La casa automobilistica tedesca ha venduto «per ragioni economiche» il discusso stabilimento di Urumqi, ma rilanciando i suoi piani commerciali in Cina. Il brand di abbigliamento giapponese: non usiamo cotone dello Xinjiang.
Dopo la BASF anche la Volkswagen ha deciso di lasciare lo Xinjiang, sull’onda delle accuse sull’impiego del lavoro forzato degli uiguri nella costruzione di una pista di prova per le auto. L’annuncio della casa automobilistica tedesca, arrivato ieri, parla ufficialmente di «ragioni economiche» legate al ridisegno della presenza in Cina. Ma segna di fatto una vittoria importante delle associazioni che si battono per la difesa dei diritti della minoranza musulmana, che nella provincia più occidentale della Repubblica popolare da più di dieci anni è oggetto di dure politiche repressive da parte del governo di Pechino.
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Come noto la Cina è un mercato fondamentale per Volkswagen: vi vende attualmente 4 automobili ogni 10 prodotte nei suoi stabilimenti a livello globale. Ma si tratta di una presenza che oggi si trova a fare i conti con lo scontro tra Pechino e l’Unione europea riguardo ai dazi sulle importazioni delle auto elettriche, oltre che con la crisi più generale della Volkswagen.
Quanto poi allo Xinjang la casa automobilistica si sarebbe trovata ora a fare i conti anche con il Regolamento sul lavoro forzato, adottato da Bruxelles lo scorso 19 novembre, che – pur essendo molto meno netto rispetto all’Uyghur Forced Labor Prevention Act in vigore negli Stati Uniti nel 2021 – avrebbe comunque messo in difficoltà lo stabilimento di Urumqi. Anche perché – come scrivevamo già qualche settimana fa – il rapporto commissionato da Volkswagen che avrebbe dovuto provare l’estraneità della consociata locale alle pratiche di lavoro forzato, è risultato essere stato steso in maniera molto dubbia in un posto dove è impossibile indagare liberamente.
Alla fine, dunque, Volkswagen ha deciso di vendere lo stabilimento che su richiesta di Pechino aveva aperto nello Xinjang nel 2012 e la relativa pista: andranno alla SMVIC di Shanghai, una società che si occupa di test sulle automobili prodotte in Cina.
Nel frattempo però è arrivata anche la proroga fino al 2040 della joint-venture con Saic Motor, il partner cinese della casa automobilistica tedesca. L’accordo prevede che entro la fine del decennio arrivino sul mercato 18 nuovi modelli di vetture Volkswagen e Audi, 15 dei quali esclusivi per il mercato locale. Obiettivo: recuperare posizioni tornando a vendere in Cina entro il 2030 quattro milioni di automobili all’anno, una quota di mercato del 15%. Via dallo Xinjiang, dunque, ma non certo dal resto della Repubblica Popolare.
La vendita dello stabilimento della casa automobilistica tedesca non chiude però la questione generale dei sospetti sull’uso del lavoro schiavo degli uiguri in prodotti che inondano i mercati di tutto il mondo. Secondo le denunce della Coalition to End Forced Labour in the Uyghur Region tra gli altri settori pesantemente coinvolti nel fenomeno c’è il tessile, dal momento che nello Xinjang si stima che si concentri il 23% della produzione mondiale di cotone, ma anche la produzione dei pannelli solari e la coltivazione dei pomodori.
Proprio oggi il brand di abbigliamento giapponese Uniqlo ha dichiarato per la prima volta di non far uso nei propri prodotti di cotone proveniente dalla regione degli uiguri. Un passo dettato proprio dalle nuove normative, che stanno costringendo molti gruppi presenti sui mercati internazionali a uscire dall’ambiguità: la legge americana, infatti, chiede alle aziende stesse di provare l’estraneità delle proprie catene di approvvigionamento. E pochi giorni fa l’amministrazione Biden ha inserito altri 29 gruppi che non lo hanno fatto nella lista delle compagnie le cui importazioni sono bloccate negli Stati Uniti.
Complessivamente sono già oltre 100 le aziende escluse dal mercato Usa per il sospetto di utilizzo del lavoro forzato degli uiguri e appartengono a settori che spaziano dall’agricoltura all’industria estrattiva, dalla siderurgia alle tecnologie digitali.
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La dichiarazione di Uniqlo è significativa perché fino ad oggi il suo fondatore e presidente Tadashi Yanai si era sempre rifiutato di rispondere, sostenendo di voler rimanere «neutrale» nella guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. A pesare è anche la forte presenza dell’azienda giapponese sul mercato cinese: Uniqlo ha più negozi in Cina che nel Giappone stesso.
Di qui il timore che una presa di posizione sulla questione dello Xinjiang possa avere contraccolpi con boicottaggi di stampo nazionalista, come capitato ad altri grandi marchi del settore.
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Immagine di Ccyber5 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported
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