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Predazione degli organi

Fallito il sistema di opt-out britannico per la donazione di organi: le famiglie si oppongono agli espianti

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Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.

 

Il sistema inglese di opt-out per la donazione di organi non sembra funzionare.

 

Lanciato nel 2020, il sistema avrebbe dovuto fornire 100 donatori extra e 230 trapianti in più ogni anno. Meno persone, avevano previsto i funzionari, sarebbero morte nelle liste d’attesa. Si presumeva che tutti acconsentissero alla donazione di organi a meno che non si fossero opposti. Con il vecchio sistema potevano diventare donatori di organi solo le persone che avevano registrato il proprio consenso.

 

Ma quattro anni dopo, meno persone donano i propri organi, non di più. Tra il 2022 e il 2023 il numero dei donatori deceduti è addirittura diminuito del 10%. La lista d’attesa per un organo è quasi del 30% più alta rispetto all’anno precedente.

 

Il collega laburista Lord (Philip) Hunt, ha dichiarato al Mail on Sunday: «avevo grandi speranze che vedessimo un reale aumento nel numero delle donazioni, ma la realtà è che non abbiamo visto alcuna prova evidente di un cambiamento significativo. È molto frustrante. … Se potessimo aumentare il tasso di donazioni, potremmo fare del bene per salvare la vita delle persone che stanno disperatamente male».

 

L’ostacolo sembra essere rappresentato dalle famiglie. Quando vengono consultati, spesso si oppongono. Come in molti altri Paesi, l’Inghilterra rispetta la volontà della famiglia di un potenziale donatore di organi deceduto. E meno famiglie sono d’accordo. In Inghilterra, solo il 61% ha consentito l’utilizzo degli organi dei propri parenti lo scorso anno, rispetto al 65% nel 2017. Una percentuale molto inferiore all’80% previsto quando la legge è cambiata.

 

Le famiglie del Regno Unito povere o appartenenti a minoranze etniche hanno maggiori probabilità di opporsi. I dati del governo mostrano che solo il 39% delle famiglie asiatiche e nere ha accettato di donare gli organi di una persona cara lo scorso anno in Inghilterra.

 

«Il fallimento dell’istruzione è la questione più importante qui», ha detto al Daily Mail il professor Hugh Perry, dell’Università di Southampton. «Molte famiglie non riescono a gestire la conversazione al capezzale del letto, e altre si oppongono all’idea che il governo ora “possieda” il corpo del loro familiare. Le persone dicono anche che la loro religione non glielo permette. Se togliessi il contributo della famiglia, otterresti molte più donazioni. Ma il Brasile ci ha provato e ciò ha suscitato indignazione e la politica è stata invertita».

 

Michael Cook

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Necrocultura

Il piano inclinato della morte cerebrale

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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza.

 

Questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione. Sulla base di tale assunto, ciò che sostanzia l’uomo non è l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni.

 

La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.

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I momenti iniziale e finale della vita sono avvolti dal mistero ed è compito della filosofia indagare e speculare su di essi; la morale invece ha il dovere di trattare l’essere umano più innocente e indifeso, l’embrione, come una persona, perché non si può escludere che l’anima venga infusa nell’uomo fin dal momento del concepimento (questa tesi è oggi prevalente tra i teologi e i filosofi) e perché qualsiasi atto aggressivo nei suoi confronti rappresenta, in ogni caso, un attentato alla vita umana.

 

Per le medesime ragioni, il principio di precauzione deve essere applicato anche all’individuo di cui non è stata accertata la morte al di là di ogni ragionevole dubbio.

 

I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui erano scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente. Pertanto, fintantoché non è possibile avere l’oggettiva certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano (l’inizio del processo di decomposizione del corpo) sussiste l’obbligo morale di evitare ogni azione lesiva della sua persona.

 

Questa impostazione è stata prevalente nel mondo occidentale fino agli anni sessanta per poi essere soppiantata da una visione utilitaristica e materialistica dell’esistenza.

 

È evidente come il criterio neurologico di morte venne introdotto al fine di stabilire chi conveniva dichiarare morto, non chi era effettivamente deceduto. Nella nuova definizione di morte, commissionata agli esperti di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e funzioni che compongono l’organismo umano.

 

Quindi, coerentemente con tale impostazione, una lesione cerebrale ritenuta irreparabile comporterebbe la fine dell’essere umano considerato come un tutt’uno integrato, e i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o delle funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.

 

Una volta dichiarata la morte cerebrale, «viene interrotto qualsiasi supporto vitale. I familiari possono voler essere accanto alla persona in quel momento. Hanno bisogno che venga spiegato loro che uno o più arti possono muoversi quando viene interrotta l’assistenza respiratoria o che la persona può addirittura sedersi (talvolta chiamato segno di Lazzaro). Questi movimenti sono causati dalle contrazioni muscolari di riflesso della colonna vertebrale e non significa che la persona non sia in stato di morte cerebrale». (Manuale MSD, diagnosi della morte cerebrale).

 

Da notare come gli estensori del Manuale, probabilmente per non cadere in dissonanza cognitiva, non se la siano sentita di definire cadaveri per l’appunto le persone che dimenano gli arti perché non riescono a respirare …

 

La stessa legge 194/1978 sull’aborto volontario, che fissa il limite dell’omicidio dell’innocente entro i primi 90 giorni dal concepimento, poggia le sue basi ideologiche sulla tesi del cervello come sede dell’essere, senza di cui non è possibile considerare il bambino ai primi stadi dello sviluppo come una persona, bensì come un semplice agglomerato di cellule e tessuti.

 

Non solo, il fatto che per i novatori il cervello costituisca il principio vitale dell’individuo pone in ogni caso il bambino non ancora nato, o comunque non ancora in grado di avere una vita autonoma al di fuori del grembo materno, in una posizione di «inferiorità ontologica»: non è affatto chiaro, infatti, quando un feto o un bambino molto piccolo possa aver sviluppato la quantità richiesta di autocoscienza per poter essere considerato una persona.

 

Sono note le teorie del filosofo australiano Peter Singer secondo il quale uccidere un neonato non equivale moralmente a uccidere un essere umano razionale e autocosciente e che un malato può essere eliminato se ciò può tornare utile alla società. È quindi interessante notare come Singer sia stato molto critico nei confronti del nuovo criterio di morte cerebrale. Egli riteneva infatti che non ci fosse bisogno di contrabbandare una scelta etica con una indimostrata presunta verità scientifica.

 

Il recente fatto di cronaca accaduto a Traversetolo in provincia di Parma, in cui due bambini appena nati sarebbero stati uccisi dalla madre e sepolti nel giardino della villetta in cui abitava insieme ai genitori, è emblematico dell’insopportabile ipocrisia di una società che condanna l’eliminazione di un innocente appena nato e al contempo considera un diritto l’uccisione del medesimo bambino innocente poco prima, quando si trova ancora nel grembo materno.

 

Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza.

 

I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia e dei piccoli Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, così come altri tragici casi italiani, possono rappresentare casi di persone uccise tramite eutanasia di Stato semplicemente perché bisognosi di cure e assistenza, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.

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In altri termini, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle capacità intellettive del soggetto.

 

Pertanto, il vero obiettivo della rivoluzione non era quello di modificare il criterio di accertamento della morte bensì, attraverso di esso, di arrivare a trattare gli esseri umani, nessuno escluso, come corpi senz’anima, ammassi di organi tenuti insieme da principi meramente meccanicistici.

 

Non stupisce allora come nella società contemporanea l’uomo venga considerato un prodotto, un insieme di «pezzi di ricambio».

 

Cos’è la fecondazione in vitro (e tutte le pratiche da essa discendenti come l’utero in affitto e l’utilizzo di cellule embrionali per la produzione di farmaci e vaccini) se non la produzione in laboratorio dell’essere umano ridotto a bene di consumo?

 

Cos’è la cosiddetta «donazione» (meglio dire: predazione) degli organi se non la logica conseguenza della riduzione dell’uomo a merce di scambio?

 

Cos’è l’eutanasia se non l’omicidio di una persona le cui facoltà intellettive risultano ridotte o latenti?

 

Cos’è l’infanticidio se non l’inevitabile approdo della Necrocultura imperante il cui fondamento pseudo scientifico è la cosiddetta morte cerebrale?

 

Alfredo De Matteo

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Immagine di JasonRobertYoungMD via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International;immagine modificata.

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Bioetica

La morte cerebrale è vera morte?

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La morte viene identificata come la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e cardiocircolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale.    Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta. Infatti, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere vivente è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione dell’organismo: l’algor mortis, il raffreddamento del corpo, il rigor mortis, la rigidità cadaverica, il livor mortis, il ristagno e la coagulazione del sangue.    La morte è un evento complesso perché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi.

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Esiste unanime consenso nel ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte non esiste.   Secondo il regolamento di polizia mortuaria nessuna persona morta può essere chiusa dentro una bara o sottoposta ad autopsia prima che siano trascorse 24 ore dal momento del decesso, salvo i casi di decapitazione o maciullamento. Inoltre, durante il periodo di osservazione il corpo deve essere posto in condizioni tali che non ostacolino eventuali manifestazioni di vita.   È possibile dunque affermare che l’unico parametro che consente di ritenere certo l’avvenuto decesso di un individuo è l’inizio del processo di decomposizione del corpo, il cui riscontro oggettivo costituisce il vero punto di non ritorno alla vita.   Proprio allo scopo di consentire il trapianto degli organi vitali, che ricordiamo può avvenire solamente se gli organi stessi non hanno subito danni irreversibili causati dalla necrosi dei tessuti (il cuore e il fegato subiscono danni in meno di 5 minuti), era necessario modificare i criteri stessi di definizione della morte.   L’escamotage trovato dalla comunità scientifica internazionale non fu quello di soppiantare il criterio tradizionale della cessazione di tutte le funzioni dell’organismo (che sarebbe stato impossibile anche solo ipotizzare), ma di affiancare ad esso un nuovo criterio di accertamento della morte basato sulla presunta cessazione irreversibile della funzionalità di un singolo organo: il cervello.    Nel 1968 venne istituita una commissione ad hoc, un comitato di «esperti» della harvard Medical School, che definì e sottoscrisse quei criteri neurologici di morte che vennero poi ufficialmente riconosciuti come nuova definizione di morte, malgrado diversi filosofi, medici e giuristi espressero al riguardo tutte le loro riserve.   In base a tale documento, un soggetto in coma irreversibile, o presunto tale, deve essere considerato a tutti gli effetti deceduto. Nonostante la commissione di Harvard affermasse il contrario è ovvio come la nuova definizione di morte e la pratica dei trapianti di organi vitali fossero strettamente collegate, dal momento che è proprio la morte a consentire il prelievo degli organi.   D’altra parte fu la stessa commissione che ammise lo stretto legame ideologico tra il nuovo criterio e la suddetta pratica: «l’uso di criteri obsoleti per la definizione di morte cerebrale può ingenerare controversie nel reperimento degli organi per i trapianti».

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C’è da osservare che la commissione non produsse alcun dato scientifico certo e oggettivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto, come avrebbe potuto?) e i criteri di Harvard vennero pubblicati senza nessun dato statistico-clinico relativo ai pazienti.    Malgrado ciò, a partire dal 5 agosto del 1968 una persona può essere dichiarata cadavere, quindi privata delle cure o addirittura trattata come mero contenitore di organi espiantabili, nel momento in cui la funzionalità del suo cervello viene ritenuta irrimediabilmente compromessa, secondo parametri studiati a tavolino, dunque artificiosi.    La morte, da evento naturale, oggettivo e osservabile, viene di fatto ridotta ad evento artificiale, non oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica.   In altre parole, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nell’ambito prettamente medico.   È facilmente intuibile la portata rivoluzionaria della nuova definizione di morte che costituisce la base ideologica con la quale sono stati legittimati tutti gli attacchi alla vita innocente ed indifesa, dall’aborto all’eutanasia, passando per la fecondazione in vitro e, ovviamente, l’espianto degli organi vitali.    Alfredo De Matteo

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Predazione degli organi

Malori improvvisi e predazione degli organi

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Siamo talmente abituati ai malori improvvisi che quasi non ci facciamo più caso.

 

Giovani e giovanissimi in perfetta salute, sportivi che crollano al suolo e muoiono istantaneamente senza un perché. È la nuova normalità cui assistiamo impotenti dal 2021 e con cui probabilmente dovremo fare i conti soprattutto negli anni a venire.

 

I più sono colti da malori fulminanti che non lasciano scampo, altri sono più fortunati e se vengono soccorsi in maniera tempestiva riescono a sopravvivere, come nel caso del ragazzo di soli 16 anni di Cremona, il quale a seguito di un malore è stato immediatamente soccorso dai suoi professori che gli hanno praticato massaggio cardiaco.

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Tuttavia, dopo l’intervento operatori del 118 chiamati sul posto e il trasporto in elicottero all’ospedale di Brescia, il ragazzo è stato dichiarato morto, e quindi espiantato degli organi.

 

A leggere le cronache si dovrebbe quindi capire che il tentativo di rianimare il ragazzo da parte dei docenti non sarebbe riuscito, ma al contempo ci viene detto che il giovane sarebbe deceduto dopo il trasferimento all’ospedale di Brescia.

 

«Inutili i tentativi di rianimarlo da parte dei professori, che hanno tentato un massaggio cardiaco» si legge su Virgilio Notizie. «Successivamente lo studente è stato trasferito in eliambulanza all’ospedale di Brescia, ma è morto pochi minuti dopo il suo arrivo».

 

Ora, ci chiediamo, un po’ confusi: se né i professori né gli operatori dell’elisoccorso sono riusciti a rianimare lo studente, egli è morto a scuola, e non in ospedale? Com’è possibile che si sia proceduto alla donazione degli organi, come riferisce la stampa, se il suo cuore non batteva più già da quando si è accasciato davanti ai compagni?

 

Sappiamo infatti che gli organi vitali possono essere prelevati solo qualora gli stessi non abbiano subito danni irreversibili dovuti alla mancanza di irrorazione e ossigenazione del sangue – in pratica, il muscolo cardiaco deve battere ancora.

 

Pertanto, è possibile ritenere che il 16enne di Cremona semmai sia stato dichiarato morto nel senso di «cerebralmente morto», altrimenti non avrebbe potuto risultare idoneo per l’espianto, che può avvenire solo a cuor battente.

 

Va aggiunto che, una volta dichiarata la morte cerebrale, tutti gli interventi medici non sono finalizzati a curare il paziente ma a preservare i suoi organi in vista dell’espianto.

 

È possibile immaginare la rapidità con cui i sanitari possono attivare le procedure necessarie per accertare la morte cerebrale del paziente, alcune delle quali sono ritenute molto invasive per il paziente o addirittura in grado di peggiorarne la situazione clinica.

 

Una delle procedure utilizzate è il famigerato test di apnea: l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.

 

L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO2. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore (gli si toglie l’ossigeno) e una volta raggiunto un certo valore soglia di CO2 nel sangue se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.

 

Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione. Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente.

 

Tali linee guida raccomandano altresì di sorvegliare attentamente il paziente stesso in quanto frequentemente possono comparire complicanze anche gravi e qualora si verifichino di interrompere il test di apnea e ripeterlo in un momento successivo (sic).

 

Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente riducendo se non addirittura azzerando le possibilità di recupero dello stesso.

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Sulla base di uno studio scientifico riportato in un convegno dal titolo «Brain death» tenutosi a Roma nel mese di maggio del 2019, ben il quaranta percento dei pazienti sottoposti al test di apnea ha subito una significativa riduzione della pressione ematica, mentre in alcuni casi è subentrato un arresto cardiaco irreversibile.

 

Secondo gli studiosi presenti al convegno, i centri respiratori dei pazienti con gravi lesioni cerebrali non riescono a rispondere ai test di apnea perché il loro flusso ematico cerebrale è molto scarso.

 

Il primo intervento medico da effettuare su questi pazienti sarebbe quello di somministrare loro ormoni tiroidei ma di solito tale procedura non viene neppure presa in considerazione perché i medici seguono pedissequamente i protocolli (Ci ricorda qualcosa? …)

 

Pertanto, anziché ricevere le cure adeguate alla loro condizione clinica i comatosi corrono il rischio di essere sottoposti agli invasivi test mirati a diagnosticare la morte cerebrale, al punto che essi stessi sono considerabili come causa di lesioni irreversibili.

 

La realtà è che non è possibile espiantare gli organi da una persona morta bensì da una viva che però bisogna dichiarare morta per eludere o aggirare la questione morale.

 

Dunque: quanti muoiono non per un malore improvviso, da cui miracolosamente scampano, ma per il brutale assassinio necessario alla predazione degli organi?

 

Alfredo De Matteo

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