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Economia

Bosch taglierà migliaia di posti di lavoro

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Il fornitore tedesco di ricambi per auto Robert Bosch ha annunciato l’intenzione di tagliare la sua forza lavoro globale di 5.500 posti di lavoro nei prossimi anni, citando la stagnazione delle vendite globali di automobili. Lo riporta l’emittente statale germanica Deutsche Welle.

 

Secondo la portavoce dell’azienda, citata da DW, circa 3.800 dei tagli di posti di lavoro saranno effettuati in Germania. Il numero esatto di licenziamenti sarà negoziato nei colloqui con i rappresentanti dei lavoratori, ha detto venerdì.

 

Entro il 2027 il gruppo taglierà 3.500 dipendenti nella sua divisione software per auto; circa la metà dei posti di lavoro persi si verificherà in Germania.

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Bosch ha inoltre dichiarato di voler tagliare fino a 1.300 posizioni tra il 2027 e il 2030 presso la sua divisione di direzione con sede a Schwaebisch Gmuend, nella Germania sudoccidentale.

 

L’azienda ha affermato in una nota, citata dall’emittente, che la debole domanda di veicoli elettrici ha avuto un “impatto diretto” sul numero di ordini effettuati dai produttori a Bosch.

 

«L’industria automobilistica soffre di una notevole sovracapacità», ha affermato Bosch, aggiungendo che la concorrenza e la pressione sui prezzi hanno continuato a intensificarsi.

 

Il responsabile della Bosch Stephan Hoelzl ha affermato che l’azienda ha dovuto adattarsi al mutevole contesto di mercato e ridurre i costi in modo sostenibile «per rafforzare la nostra competitività».

 

A ottobre, in un’intervista rilasciata a Der Tagesspiegel, il presidente Stefan Hartung aveva messo in guardia da un calo dei ricavi nel prossimo anno, affermando di non poter escludere ulteriori tagli ai posti di lavoro in Germania.

 

Già a dicembre 2023 la Bosch aveva annunciato l’intenzione di tagliare 1.500 posti di lavoro nel settore delle forniture per autoveicoli.

 

Frank Sell, a capo del consiglio dei lavoratori della divisione automotive della Bosch in Germania, ha descritto i licenziamenti programmati come uno «schiaffo in faccia», promettendo di combatterli.

 

Il settore automobilistico in difficoltà della Germania ha suscitato preoccupazione per la salute della più grande economia manifatturiera dell’UE. Questa settimana, Ford ha annunciato piani per tagliare 4.000 posti di lavoro in Europa, poiché la domanda di veicoli elettrici è rallentata. I dipendenti di un altro colosso automobilistico tedesco, Volkswagen, stanno minacciando scioperi dopo che l’azienda ha dichiarato di star meditando chiusure di stabilimenti e tagli significativi di posti di lavoro.

 

L’Associazione tedesca dell’industria automobilistica ha lanciato l’allarme lo scorso anno: il Paese sta “perdendo drasticamente la sua competitività internazionale” a causa dell’impennata dei costi energetici.

 

Un recente sondaggio dell’associazione dell’industria automobilistica VDA ha ipotizzato che la riorganizzazione dell’industria automobilistica tedesca potrebbe comportare la perdita di 186.000 posti di lavoro entro il 2035, circa un quarto dei quali si sono già verificati.

 

Come riportato da Renovatio 21, nel 2022 il capo della Bosch Stephan Hartung si oppone all’embargo del gas russo. «Abbiamo bisogno di gas per la produzione», aveva detto il CEO di Bosch all’Handelsblatt. «La stessa Bosch copre il 20% del proprio fabbisogno energetico con il gas. Quindi non abbiamo bisogno di grandi quantità, ma alcuni dei nostri fornitori sì».

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Una settimana fa si sono registrate proteste violente dei lavoratori negli stabilimenti Audi in Belgio.

 

Come riportato da Renovatio 21, in Germania Volkswagen, dopo averlo annunziato in lungo e in largo, sta pianificando licenziamenti di massa.

 

Lo scorso mese scioperi di massa avevano scosso l’industria automotive tedesca, cui per taluni si prospetta una «caduta orribile».

 

Nella UE sono crollati i livelli di immatricolazione di auto nuove, secondo i dati dell’Associazione Europea Costruttori Automobili (ACEA).

 

Come riportato da Renovatio 21, due anni fa Herbert Diess, capo di Volkswagen, aveva chiesto all’UE di perseguire una soluzione negoziata della guerra in Ucraina per il bene dell’economia del continente.

 

Gli alti costi dell’energia hanno spinto i grandi nomi dell’automotive tedesco a delocalizzare. Volkswagen a inizio anno aveva annunciato che non costruirà più la sua Golf a combustione a Wolfsburg, ma in Polonia.

 

L’anno passato le principali case automobilistiche tedesche – Volkswagen, Audi, BMW e Mercedes 2 hanno prodotto circa mezzo milione di auto in meno tra gennaio e maggio, rispetto allo stesso periodo del 2019, con un calo di circa il 20%.

 

Il crollo della produzione di auto nel contesto attuale riguarda anche l’Italia.

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Economia

Crisi e rinascita della Sicilia. Conversazione con il professor Mario Pagliaro

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Qual è la situazione della più grande regione d’Italia? Parliamo, per chi non lo sapesse, della Sicilia: terra magnifica e contraddittoria, terra problematica e fertile, paradigma di dramma e bellezza – e, per le sue eterne risorse, per la sua ubicazione, per la sua storia, luogo di fondamentale importanza per il futuro dell’Italia e non solo.   Renovatio 21 ha intervistato il professor Mario Pagliaro, chimico del CNR e accademico d’Europa, autore della preziosa guida all’energia solare Helionomics, figura da noi spesse volte interpellato per parlare di energia. Proprio con una sua intervista, Renovatio 21 è stata la prima testata giornalistica in Italia ad anticipare nell’estate del 2021 l’imminente aumento dei prezzi dell’energia in Italia.   L’Italia ha ormai 3 mila miliardi di debito pubblico. La deindustrializzazione procede senza sosta: ogni giorno si registra la chiusura di uno o più stabilimenti. È ripresa, a tassi persino maggiori di quelli ante 2020, l’emigrazione giovanile di massa.   La rinascita dell’Italia passa da quella della Sicilia? Oppure, il Meridione e la Sicilia continueranno a spopolarsi ad un tasso persino più rapida di quella di Piemonte e Lombardia? Su questo e su altro abbiamo sentito il chimico siciliano.   La Sicilia nelle regioni del Nord suscita grande curiosità. Di fatto, se ne sa poco. Tutti però sappiamo come sia un’isola potenzialmente ricchissima. La prima domanda dunque riguarda le ricchezze non sfruttate della Sicilia: quali sono? Sono numerosissime: la Sicilia ospita le miniere di sali potassici più grandi di Europa. Dispone di grandi giacimenti di petrolio e di gas naturale a terra e in mare, utilizzati solo in piccola parte. È sede di una vastissima superficie agricola fatta di terreni oltremodo fertili coltivati con le più svariate colture. Ed ospita un patrimonio storico-artistico fra i maggiori al mondo, inclusi templi antecedenti alla dominazione greca, teatri greci e romani, cattedrali bizantine e castelli medioevali.   Persino le risorse marine sono enormi: da quelle ittiche all’acqua di mare ricchissima di sali di magnesio. Ad esempio, le acque di Augusta dove la concentrazione di magnesio è così elevata rispetto a quella delle acque costiere italiane che ne rende particolarmente conveniente l’estrazione industriale, come avveniva fino a pochi anni fa.

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Nonostante queste ricchezze, la Sicilia perde migliaia di abitanti ogni anno: perché? Per lo stesso motivo per cui ormai da anni a depopolare sono anche il Centro e il Nord dell’Italia: il livello altissimo delle tasse e dei contributi sociali da pagare allo Stato su ogni ora lavorata incentivano le imprese esistenti a chiudere e a delocalizzare ormai da oltre 20 anni. Mentre qualsiasi giovane dotato di capacità imprenditoriali non aprirà mai la sua impresa in Sicilia o nel resto d’Italia, quando spostandosi in Croazia o in Albania o in Tunisia pagherebbe tasse e contributi che sono una piccola frazione di quelli dovuti in Italia.   I siciliani emigrano ormai per le stesse ragioni dei liguri: l’offerta di lavoro è bassa, e quel poco lavoro che c’è è retribuito poco e male. Di qui, l’emigrazione d massa dei giovani verso tutti i Paesi del Nord Europa e verso i Paesi del Golfo persico. Negli Emirati Arabi lavorano ben pagati decine di migliaia di italiani e molte migliaia di siciliani.   La stampa nazionale da decenni il messaggio fatto passare dalla stampa è Regione Siciliana come un continuo spreco di soldi pubblici. Puntualmente, ad esempio, si parla dei famosi forestali siciliani oppure delle decine di migliaia di dipendenti regionali. È così? Non è così. Dalla motorizzazione civile alla gestione del patrimonio storico-artistico alle acque e persino le autostrade, a gestire con sempre maggiore difficoltà dovuta alla crisi finanziaria queste ed altre risorse è la Regione Siciliana, e non lo Stato come avviene nelle regioni «a statuto ordinario» nate tre decenni dopo il 1946, anno di fondazione della Regione Siciliana.   Fino al 1991, guidata da un grande presidente come Rosario «Rino» Nicolosi, la Regione Siciliana è stata protagonista di una prolungata stagione di sviluppo, peraltro accompagnata dagli interventi infrastrutturali della Cassa per il mezzogiorno: dighe, reti idriche, infrastrutture stradali, case popolari, sviluppo agricolo, riforestazione, recupero del patrimonio storico-artistico, e credito attraverso le banche pubbliche, controllate dalla Regione. Poi, esattamente come per il resto d’Italia, è iniziato un declino che dura ormai da 30 anni.   Però ci sono anche enormi potenzialità: quali sono? Agricoltura e bioeconomia, turismo ed energia solare sono i 3 assi del nuovo sviluppo della Sicilia. La rinascita dell’agricoltura è già in corso, con il fortissimo e imprevisto rialzo dei prezzi dell’olio di oliva e del succo di arancia, e quindi delle arance. La Sicilia ospita la quasi totalità dell’industria agrumaria italiana, cioè quella della trasformazione degli agrumi in succo, ed è la terza regione per produzione olearia in Italia.   Fino all’avvio della guerra nelle ex repubbliche dell’URSS, la Sicilia stava anche beneficiando del forte e prolungato rialzo dei prezzi del grano. Poi i prezzi si sono più che dimezzati per le enormi importazioni di grano dalle ex repubbliche sovietiche che hanno dirottato sull’Europa una parte significativa del loro enorme export di cereali. Quando le importazioni cesseranno, i prezzi del grano torneranno a salire rapidamente, superando quelli di anteguerra.

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Sono attive in Sicilia alcune innovazioni della filiera agricola… L’agricoltura poi trova nuovi sbocchi nella bioeconomia perché dagli scarti di lavorazione agricoli e della pesca si traggono già oggi – senza che nessuno lo sappia – prodotti che valgono più dei frutti. Lasci che le citi il caso dell’azienda nutraceutica napoletana che nell’area industriale di Termini Imerese produce integratori alimentari a base di flavonoidi ottenuti dagli agrumi siciliani, che poi vende con successo in tutta Italia.   E il turismo? Il turismo da quasi un decennio anni conosce in Sicilia una crescita enorme che ha portato all’apertura di migliaia di B&B tanto nelle storiche città siciliane che nelle località turistiche costiere, oltre a decine di agriturismi, all’ampliamento degli alberghi esistenti e alla costruzione di nuovi, spesso con capitali provenienti dal Nord Italia e dall’estero.   Questo è accaduto perché inizialmente le società del turismo hanno dirottato sulla Sicilia il turismo prima diretto in Nord Africa. Poi, il passaparola reso possibile da internet e dai telefoni digitali ha fatto il resto: amici e parenti dei primi turisti, anche italiani, ricevono messaggi, foto e video entusiasti: «venite in Sicilia: è bellissima, e costa poco».   E così la Sicilia, storicamente tenuta fuori dai grandi flussi turistici, ha iniziato a intercettarli.   Parliamo del suo tema: l’energia solare- Basta un numero: in Sicilia lo scorso primo settembre c’erano 120mila impianti fotovoltaici, di cui 107mila sono installati sul tetto di abitazioni e 13mila sui tetti di aziende e uffici cui danno ogni giorno gratis abbondante energia elettrica, facendo crollare la bolletta.   Appena 15 anni fa, quando iniziammo le attività formative del Polo Fotovoltaico della Sicilia, in Sicilia c’erano una decina di impianti. Non ci credeva nessuno: invece, il fotovoltaico è divenuto la fonte di energia elettrica più installata al mondo ogni anno. E in Sicilia ci sono oltre 1 milione e mezzo di edifici che vanno ancora solarizzati.

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Benché migliore di quella del resto d’Italia, anche in Sicilia la situazione demografica non è buona. Può darci qualche dato aggiornato? Certo. La Sicilia fra il 2014 e il 2023 ha perso 300.425 abitanti: una media di oltre 30.000 ogni anno. Soltanto nel 2021 gli abitanti persi sono stati poco più di 300 a causa del fatto che con le chiusure nessuno lasciava la Sicilia. Oggi siamo in grado di capire la reale dimensione della nuova emigrazione siciliana.   Dal 2018, anno dell’avvio del censimento permanente della popolazione, Istat dà infatti la popolazione censita ogni anno, e non più quella rilevata dalle anagrafi, visto che moltissimi dei residenti che lasciano la Sicilia non cancellano la propria residenza dalle anagrafi comunali. Infatti nel 2018 ISTAT comunicò una riduzione della popolazione siciliana superiore alle 118mila unità. Effetto, appunto, della differenza fra popolazione censita e quella registrata alle anagrafi.   All’inizio del 2024 la popolazione siciliana censita era di 4.794.512 residenti. Nel 2023 è diminuita di oltre 19.000 unità.   Cosa prevederebbe un disegno di rinascita dell’isola? Come il resto d’Italia, la Sicilia ha bisogno di un profondo cambiamento delle classi dirigenti, e di un ritorno alle politiche di programmazione pubblica dell’economia che hanno reso grande l’Italia fra il 1933, anno di fondazione dell’IRI, e il 1991. È verosimile che l’aggravarsi della crisi delle relazioni internazionali con le guerre ormai in corso ai confini europei, e di quella delle finanze pubbliche dovuta all’insostenibilità economica del sistema dei cambi fissi fra monete nazionali alla base dell’euro, determinerà tale cambiamento già nel breve periodo.   Italia e Sicilia hanno all’estero decine di migliaia di concittadini di altissime competenze, che con l’approfondirsi della crisi torneranno a dare un importante contributo alla rinascita economica e sociale del Paese e della Sicilia. Ce ne sono altrettanti in tutta Italia, che fino ad oggi hanno rifuggito da ogni impegno pubblico.   L’aggravarsi della crisi farà sì che molti di loro saranno chiamati ad un impegno pubblico diretto.  

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Economia

Ammiraglio della NATO avverte le aziende: prepararsi allo «scenario di guerra»

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Le aziende dei Paesi della NATO dovrebbero prepararsi a uno «scenario di guerra» e adattare le loro linee di produzione e catene di fornitura per essere meno vulnerabili al ricatto da parte di nazioni come Russia e Cina, ha affermato lunedì il capo uscente del comitato militare del blocco guidato dagli Stati Uniti, l’ammiraglio Rob Bauer.

 

Intervenendo a un evento del think tank European Policy Center tenutosi a Bruxelles, ha esortato le industrie e le aziende occidentali ad attuare misure deterrenti.

 

«Se possiamo garantire che tutti i servizi e i beni essenziali possano essere forniti a prescindere da tutto, allora questa è una parte fondamentale della nostra deterrenza», ha sostenuto Bauer.

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«Le aziende devono essere preparate per uno scenario di guerra e adattare di conseguenza le loro linee di produzione e distribuzione. Perché mentre potrebbe essere l’esercito a vincere le battaglie, sono le economie a vincere le guerre», ha affermato il funzionario della NATO, menzionando Cina e Russia nel contesto di come ritiene che le guerre siano combattute nella sfera economica.

 

«Pensavamo di aver raggiunto un accordo con Gazprom, ma in realtà avevamo un accordo con Putin», ha affermato, apparentemente riferendosi al calo delle forniture di gas russo all’UE, avvenuto dopo l’escalation del conflitto in Ucraina nel 2022.

 

All’epoca, l’UE aveva dichiarato che porre fine alla dipendenza dall’energia russa era una priorità fondamentale e molti membri interruppero volontariamente le importazioni, mentre le forniture sono crollate anche a causa del sabotaggio dei gasdotti russi Nord Stream, attribuito dal giornalista premio Pulitzer americano Seymour Hersh ad un’operazione della CIA, che ha negato.

 

L’ammiraglio Bauer ha poi esteso il suo avvertimento alla Cina, sostenendo che Pechino potrebbe usare le sue esportazioni verso i paesi della NATO e le infrastrutture di sua proprietà in Europa come leva in caso di conflitto.

 

«Siamo ingenui se pensiamo che il Partito Comunista [cinese] non userà mai quel potere. I leader aziendali in Europa e America devono rendersi conto che le decisioni commerciali che prendono hanno conseguenze strategiche per la sicurezza della loro nazione», ha affermato il funzionario atlantico.

 

Non è chiaro cosa Bauer intenda prevedere «in tempo di guerra» nelle sue dichiarazioni.

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La NATO ha dichiarato da tempo che la Russia rappresenta una minaccia diretta e i funzionari occidentali hanno ripetutamente affermato che se si permettesse a Mosca di vincere il conflitto in Ucraina, potrebbe poi attaccare altri paesi europei.

 

La Russia ha liquidato queste affermazioni come assurdità. Le restrizioni che Mosca ha introdotto nel commercio con l’Occidente sono state in gran parte una risposta alle sanzioni economiche senza precedenti imposte al paese in relazione al conflitto ucraino.

 

Anche Pechino ha dovuto affrontare la sua quota di barriere e restrizioni commerciali introdotte dagli stati occidentali, e ha introdotto misure simili in risposta. Secondo la maggior parte degli esperti, compresi molti occidentali, la politica delle sanzioni si è ritorta contro le economie occidentali, portando a carenze di fornitura e inflazione.

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Immagine di NATO North Atlantic Threaty via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic

 

 

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Economia

Trump e la nomina dell’ugonotto gay uomo di Soros: il futuro segretario del Tesoro USA ha partecipato all’attacco alla lira del 1992?

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La nomina a segretario del Tesoro da parte di Trump di Scott Bessent – omosessuale «sposato» con figli surrogati, vera discendenza ugonotta e un passato di manager per i fondi speculativi di Giorgio Soros – non cessa di far discutere, et pour cause.   Dopo quella che diversi media hanno descritto come una «lotta al coltello» tra vari contendenti di Wall Street, la scelta finale è andata all’ugonotto Bessent, che attualmente gestisce un hedge fund chiamato Key Square Capital Management, creato nel 2015 con asset per 4,5 miliardi di dollari, di cui due miliardi, secondo quanto è stato scritto, sarebbero stati dati direttamente dal Soros.   Vari media hanno sottolineato i legami di lunga data di Bessent con il mega-speculatore George Soros, da sempre una bestia nera per il campo MAGA – testimone che il vecchio ebreo ungherese avrebbe ora passato al figlio Alex Soros, disprezzato apertis verbis come puparo dei democrat da Elon Musk, il quale si sarebbe pure opposto alla nomina del Bessent.

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Un articolo del londinese Economist, intitolato «Cosa significa la nomina di Scott Bessent per l’amministrazione Trump», sottolinea la profondità, la durata e l’entità dei legami di Bessent con Soros: nientemeno che la immane speculazione che portò alla devastazione della valuta britannica 32 anni fa, la sterlina attaccata da Soros in una mossa che trascinò nella polvere, come tutti dovrebbero ricordare, anche la lira italiana.   «Nel 1992, come giovane gestore di portafoglio presso Soros Fund Management, avvisò Stanley Druckenmiller, un partner della società, che la Banca d’Inghilterra probabilmente non sarebbe stata disposta a difendere la sterlina, poiché l’economia britannica era in difficoltà. Druckenmiller e George Soros hanno continuato a fare una delle operazioni di hedge fund più famose e di successo di tutti i tempi: hanno scommesso contro la sterlina e “hanno fatto saltare la Banca d’Inghilterra”, guadagnando 1 miliardo di dollari nel processo».   «Quando Bessent ha deciso di gestire il suo fondo nel 2015, lo ha fatto con un investimento di 2 miliardi di dollari dal signor Soros» scrive l’Economist. «Scegliendo alla fine il signor Bessent, Trump si è schierato con il suo istinto di mantenere felici i mercati. La sua scelta suggerisce che potrebbe davvero essere limitato dalla loro reazione, almeno quando si tratta di politica economica».   «Questa è una buona notizia per chiunque sia preoccupato di quanto radicale possa essere in carica» scrive ancora il giornale inglese, partecipato dalle famiglie Rotschild e Elkann. «Questa situazione non è affatto pacifica. Implica che il desiderio di Trump di placare i mercati sarà in guerra con la sua tendenza a fare qualcosa di irrazionale semplicemente perché è frustrato. In bocca al lupo, quindi, al signor Bessent».   Un’altra importante voce della City di Londra, il Financial Times, ha anche espresso soddisfazione per la nomina del Bessent. In una valutazione interna del 24 novembre, FT ha attirato l’attenzione sull’ossessione di Trump per le performance del mercato azionario come una vulnerabilità chiave che potevano manipolare.

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«Trump sapeva che non poteva permettersi un passo falso. Doveva trovare una persona sposata con le politiche economiche populiste che aveva sostenuto durante la campagna elettorale, tra cui tariffe radicali. Ma aveva anche bisogno di qualcuno di cui fidarsi per proteggere la metrica a cui teneva di più: il mercato azionario statunitense».   Quindi, quando alla fine è stato scelto Bessent, ciò ha portato a «un senso di sollievo tra molti investitori di Wall Street (…) La sua offerta è stata rafforzata dal sostegno di persone potenti nei circoli MAGA, in particolare Steve Bannon, ex stratega politico di Trump, e Lindsey Graham, senatore repubblicano della Carolina del Sud, consolidando la sua statura come candidato consensuale».   L’attacco alla sterlina è ancora ben presente nella mente di tanti quadri del potere politico e finanziario britannico. Londra, che pure lo aveva ospitato e nutrito come profugo di guerra e poi giovane e fortunato investitore, sarebbe risentita risentita, al punto che uno degli ultimi film di James Bond (che si narra debbano aver l’imprimatur dei servizi inglesi, ma potrebbe essere una leggenda), Quantum of Solace, potrebbe avere già nel titolo un riferimento al Soros cattivone della vera Spectre: il primo hedge fund gestito da Soros dalle Antille Olandesi – per il quale si sono sprecate le illazioni, e dove nessun dipendente del fondo era americano, tanto per assicurarsi che le autorità americane mai potessero ficcare il naso nei suoi affari, si chiamava appunto Quantum Fund.   Non è ancora chiaro, a questo punto, quale ruolo il Bessent possa avere avuto nella grande manovra che, sempre quel mercoledì 16 settembre 1992, distrusse anche la lira italiana, in un movimento perpetrato da Soros che incatenava le valute di ambedue i Paesi europei: entrambi, temporaneamente, dovettero uscire dallo SME, il sistema monetario europeo, perché incapaci di mantenere un tasso di cambio sulla soglia minima di fluttuazione richiesta alle Banche Centrali europee.   Secondo calcoli, l’attacco di Soros all’Italia fece perdere in poche ore il 7% del valore sul dollaro, mandandola Borsa di Milano – con i maggiori titoli crollati: Generali, FIAT, Commerciale Italiana – in caduta libera (-5%), con un valore bruciato stimato in 6.700 miliardi di lire, pari, più o meno, a 3,5 miliardi di euro attuali – il tutto, ripetiamo, in una sola giornata, il mercoledì nero.   Dopo tale immane mossa di speculazione finanziaria – simile a quella con cui fece crollare valute asiatiche come l’indonesiano ringitt – che portò al crollo della lira sul dollaro e sul marco tedesco, il Soros fu poi premiato da Romano Prodi con una laurea honoris causa a Bologna nel 1997.

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Bisogna ricordare che riguardo l’attacco distruttivo contro la nostra valuta nazionale molte persone attive in quelle ore concitate, fecero carriera.   Giuliano Amato, socialista stranamente sopravvissuto all’ecatombe giudiziaria di Mani Pulite, era premier: venne eletto di nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri nel 2000.   Carlo Azeglio Ciampi, livornese che era governatore alla Banca d’Italia, fu fatto primo ministro e poi Presidente della Repubblica.   Draghi, pochi mesi prima, aveva dichiarato sul panfilo inglese Britannia che l’economia italiana sarebbe stata privatizzata: per gli investitori una manna, soprattutto dopo il mercoledì nero di Soros avvenuto pochi mesi dopo. I prezzi di qualsiasi bene svenduto dallo Stato, crollata la moneta, già partiva scontato di una percentuale quasi a doppia cifra. Draghi era allora direttore generale del tesoro: divenne più tardi Governatore della Banca d’Italia, poi 3° presidente della Banca Centrale Europea, poi primo ministro italiano.   Ricordiamo che chi si opponeva diametralmente allo sconquasso sorosiano, la carriera, invece che vederla decollare, la vedeva terminare: negli anni successivi, dall’esilio tunisino, l’ex leader PSI Bettino Craxi fece il nome di Soros come devastatore dell’economia italiana.       È un processo storico: chi si oppone alla desovranizzazione delle nazioni, della società, della famiglia, dell’individuo – operazione globale della quale Soros è munifico titano – viene cancellato dal discorso.   Rebus sic stantibus, non pensiamo che le cose rimarranno così a lungo senza che vi sarà una reazione patente.

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Immagine di International Monetary Fund via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0  
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