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Pensiero

Blackout, attacchi cibernetici, guerra civile: i film del «Predictive Programming» sono qui

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L’8 dicembre su Netflix è uscito un film a lungo annunciato. Si tratta di Il mondo dietro di te, opera del regista egiziano-statunitense Sam Esmail, autore dell’acclamata serie Mr. Robot.

 

Trailer e tam-tam sulla stampa avevano creato grande attesa per la pellicola, sostenuta da un cast stellare. C’è la regina dell’A-List (ovvero, la vetta degli attori più pagati ad Hollywood) Julia Roberts, il cui volto pare un po’ cambiato, tanto che in certe inquadrature, a guardarle il mento, vengono in mente certi quadri di Picasso.

 

C’è il meno pagato, ma forse più amato dal pubblico della Generazione X, Ethan Hawke.

 

C’è, inevitabilmente Mahersala Ali, sul quale vale la pena di dire due parole, anche perché molti lettori non lo conoscono, ma se lo ritrovano dappertutto: è l’attore musulmano nero finito nell’ultimo decennio in ogni possibile film, già due premi Oscar, uno dei quali per Moonlight (2016), pellicola a tema omosessuali neri anche giovani che rubò – nel momento più basso della storia del premio – l’Oscar al capolavoro La La Land.

 

Il Mahersala compare ovunque serva un nero che debba sembrare «figo», e di fatto ad un certo punto del film anche la Julia Roberts vuole fare un giro – era inevitabile (si tratta in verità un pattern cinetelevisivo, che qualcuno chiama «Bull», di cui non parleremo ora).

 

La storia racconta di una famiglia di Nuova York – marito, moglie, figlio figlia figli adolescenti – che affittano per un weekend una stupenda casa fuori città, tra i boschi vicino alla costa di Long Island. Strane cose cominciano ad accadere: una immensa nave si spiaggia davanti a loro, i telefoni, internet stessa, non funzionano più. Così di sera ricevono la visita di un elegantissimo uomo di colore (il Mahersalo) con sua figlia, anche lei tiratissima.

 

L’uomo chiamato G.H., di squisita gentilezza, dice di essere il padrone di casa, e racconta che erano andati in città per un concerto di musica classica, quando l’intera città è andata in Blackout. Riconoscendo che l’affitto era già stato pagato, il ricco afroamericano chiede quindi di dormire nel suo scantinato, che è raffinatissimo anche quello.

 

 

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Seguono spoiler che però non so quanto vi rovinino un film davvero noioso e mal riuscito, che vale pochissimo.

 

Apprendiamo, da un lampo di internet momentaneamente ripristinata da un satellite per poi sparire, che gli USA sarebbero stati vittime di un attacco di epiche proporzioni. Tutto il Paese è andato offline. Nessuno sa davvero cosa sta succedendo: ogni famiglia, ogni persona, è isolata. Si possono solo fare congetture sul macello di caos in cui si possono essere trasformate le città.

 

Si aggiunge l’inquietante fenomeno di un suono fortissimo che si ripete più volte, talmente roboante da spaccare i vetri e fare urlare le persone prostrate con le mani a chiudere le orecchie.

 

Cosa sta succedendo? È una guerra? Con chi? Russia? Cina? Iran?

 

Apprendiamo che il G.H., che nel frattempo testimonia lo schianto al suolo di vari aerei, in realtà sa qualcosa più degli altri. O meglio, intuisce. Uomo che lavora in finanza, dice di aver un cliente famosissimo, appartenente all’apparato militare-industriale, un personaggio gioviale che lo aveva preso in simpatia, e che talvolta gli comunica ridacchiando che ogni tanto si trova con la sua «cricca che governa il mondo».

 

Nell’ultima telefonata, il ricco cliente chiede al broker di spostare una considerevole somma di danaro, un atto di per sé incomprensibile. Questa volta non ride. Quindi, è comprensibile che sapeva di qualcosa che stava per succedere.

 

Ma quindi è stato lui con la cabala globale ad ordire questo? Macché, ribatte subito il nero: quelli hanno solo magari delle avvisaglie, nessuno veramente controlla il mondo, assicura (tra qualche riga forse capirete anche perché in questo film spunta fuori un concetto del genere).

 

Alla fine del film, l’elegante, saggio e generoso uomo di colore molla un’ulteriore rivelazione ai babbani bianchi: il suo cliente dell’élite finanziario-politico-militare lo aveva avvertito del fatto che circolava uno studio sulla strategia con la quale un nemico potrebbe produrre la distruzione di un Paese attraverso una dirompente «manovra in tre fasi».

 

Prima fase: attacchi informatici, isolamento delle persone con interruzioni di corrente e satellitari.

 

Seconda fase: seminare il «caos sincronizzato» con campagne di disinformazione, come certi volantini con la scritta in arabo «Morte all’America» che alcuni droni si mettono a sganciare per strada.

 

Terza fase: la guerra civile. «Perché se la nazione presa di mira fosse sufficientemente disfunzionale, in sostanza, farebbe il lavoro per te», afferma G.H. dice. «Chiunque abbia iniziato, vuole che lo finiamo».

 

Il film finisce senza tante ulteriori spiegazioni, né colpi di scena, né crescite dei personaggi, né catarsi narrative di qualche tipo. Come se ci stessero semplicemente telegrafando delle scene, senza troppo bisogno di fare spettacolo.

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È interessante andare a vedere chi è l’autore del romanzo da cui è tratto: il giornalista bengalese-statunitense Rumaan Alam, affiliato alla rivista progressista Slate, fondata a fine anni Novanta sotto la Microsoft e poi passata al gruppo del Washington Post, cioè Bezos, Amazon. L’Alam ha «sposato» un fotografo con cui, secondo la stampa, starebbe crescendo due figli, venuti da dove non sappiamo.

 

Più notevole ancora è vedere nei titoli di testa i nomi, come produttori della pellicola, di Barack e Michelle Obama.

 

Eh?

 

Scusate, non capiamo bene: l’ex presidente, tanto amato dalla sinistra americana, il primo inquilino della Casa Bianca di colore (forse anche il primo che probabilmente viene da una famiglia interamente alla CIA; forse anche il primo che potrebbe essere omosessuale) produce un film apocalittico sulla fine dell’America?

 

L’ex vertice degli USA finanzia un film dove è possibile vedere gli USA distrutti, cancellati nel modo più doloroso possibile?

 

Eravamo rimasti ad Obama che, temendo il global warming e il conseguente innalzamento delle maree, si era comperato una mega-magione in riva al mare a Martha’s Vinyard, praticamente il luogo più esclusivo del pianeta, dove dà festoni cine-brivido a base di COVID e dove talvolta qualche giovane aitante cuoco viene trovato morto annegato, come del resto capita anche ad altri cuochi della storia recente della Casa Bianca.

 

E invece, eccotelo: Obama finanzia la pellicola più disforica e tetra dell’anno, che colpisce direttamente l’ethos americano, anzi lo disintegra raccontandoci la storia che Davos e altri continuano a ripetere senza requie: è in arrivo il cyberattacco del secolo, è in arrivo la ciber-pandemia.

 

Che poi, la presenza di Obama che mette il soldo (cioè, mette il nome, altri poi schiacciano sulla fiducia del presidente cool) si capisce da certi dettagli che emergono nel film.

 

Innanzitutto, momento di razzismo puro: la figlia nera dice al padre nero che in quel momento la cosa giusta da fare è stare lontani dai bianchi. Lui non fiata e la accarezza. Julia Roberts, prima di fare un pensierino riguardo ad uno zompo col G.H., ha tempo di intavolare un germe di autoaccusa per il suo razzismo interiorizzato, automatico, sistemico. E poi continua a ripetere, che la gente è orrenda.

 

Va segnalato anche come il personaggio del prepper (interpretato da Kevin Bacon), ossia il vicino di casa operaio che, a differenza degli altri, è preparato per l’apocalisse, beni alimentari, armi e medicine e quant’altro, sia di fatto squalificato – pure quando ci ha ragione – come un paranoico e infine un corrotto.

 

Poi il tocco più attuale: le strade vengono intasate da migliaia di Tesla che vengono hackerate per tamponarsi l’una con l’altra, bloccando tutto e creando un pericolo per chiunque stia in mezzo. Come non riconoscere la stoccata a Elon Musk, vecchia conoscenza di Obama (che lo ha finanziato con danaro pubblico proprio per la Tesla) che però ora pare passato dall’altra parte.

 

L’apparente dissonanza cognitiva può salire di intensità: Obama produce un film che parla degli albori di una guerra civile. Sappiamo che l’argomento è caldo: soprattutto un paio di anni fa, come registravamo su Renovatio 21, scappava a tanti di parlarne. Analisti, politici investitori miliardari, poi Trump, perfino Biden. Tuttavia, far circolare diecine di milioni di dollari per vedersela rappresentata plasticamente in esplosioni a fungo sopra Nuova York, con la più pagata attrice di Hollywood a guardare per noi, è decisamente next-level.

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La guerra civile annunciata ci porta all’ulteriore pezzo del puzzle uscito l’altro ieri.

 

È stato pubblicato il trailer di un film chiamato semplicemente, brutalmente Civil War. Guerra civile. Il sottotitolo recita: ogni impero cade. In questo caso stiamo parlando ovviamente dell’impero americano, e di una Seconda Guerra Civile USA.

 

In questo caso il film non è ancora visibile: uscirà nelle sale la prossima primavera. Tuttavia le immagini dicono tutto: l’America è sconvolta da una guerra civile, file di profughi che spingono trolley su strade polverose, militari che sparano ovunque, F-35 che attaccano civili a terra, i palazzi di Washington bombardati, giornalisti sconvolti e bambine messi in ginocchio per un’esecuzione.

 

Si riesce a capire poco della trama. Sembra di capire che Washington e il suo presidente viscido-mellifluo siano in guerra con una ventina di Stati che hanno dichiarato la secessione, tra cui un’alleanza tra il Texas e la California – cosa che ha fatto sorridere molti utenti in rete, visto che è più probabile un’alleanza tra Pisa e Livorno: si tratta di due Stati diametralmente opposti, tanto che dalla democratica e fallita California tantissimi (incluso lo stesso Musk e la sua industria) stanno emigrando nel prospero Texas dei conservatori.

 

Perché stanno combattendo? Quale l’oggetto del contendere? Ad oggi non è dato saperlo. Forse non rivelerà nemmeno il film, più interessato a mostrare il massacro tra concittadini. Ad un certo punto, tuttavia, si vede un signore di razza non distinguibile che mira con un fucile automatico: ha i capelli di vari colori sintetici, così come lo smalto sulle unghie… un indizio? La resistenza sarà fatta di trans e goscisti woke? Rimaniamo col dubbio.

 

Il trailer è davvero ben fatto, ritmato, immaginifico, a suo modo esaltante. Il regista è il romanziere britannico Alex Garland, già noto per la storia di The Beach con Di Caprio e soprattutto per la pellicola sull’Intelligenza Artificiale Ex Machina, davvero ottima.

 

 

Civil War sta venendo linciato a scatola chiusa dalle orde del MAGA, comprese quelle più raziocinanti. Fecero lo stesso, nell’anno dell’elezione fatale di Biden, per il film The Hunt, che raccontava di un gruppo di ricconi liberal che rapiva una quantità di popolani conservatori (chiamati proprio «deplorables», come da immortale definizione di Hillary Clinton) per massacrarli senza pietà in una caccia selvaggia. Il film, pur fatto da liberal hollywoodiani, forniva non pochi elementi di pesante satira contro la stessa sinistra dei ricconi, che di fatto veniva pure quella sterminata.

 

Il caso di Civil War è diverso. Si tratta, probabilmente, del primo film che mette in piedi la rappresentazione di una Guerra Civile USA in era moderna con i mezzi del grande cinema. Pellicole passate, come La seconda guerra civile americana (1997) erano più film semicomici con un messaggio corrosivo sul pericolo della distorsione della realtà media. Qui invece i media non c’entrano più: gli stessi giornalisti sono divenuti carne da macello.

 

Insomma, due grandi produzioni, dove pure è coinvolto un ex presidente americano, sembrano parlarci di eventi massivi che sconvolgono la società americana (e quindi, mondiale…). Ciber-attacchi, guerra civile… messi in bella copia, messi in nitide immagini cinematografiche dopo essere stati ripetuti da media e politici e «esperti vari», talvolta sussurrando, talvolta gridando.

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È a questo punto che bisogna parlare di Predictive Programming. La «programmazione predittiva» è una teoria non verificabile, ma ci è impossibile non dire che non sia già verificata.

 

Secondo l’idea del Predictive Programming, il potere – sia esso governativo, finanziario oligarchico, etc. – utilizza cinema, serie e libri di narrativa come mezzo di controllo mentale, o meglio, di preparazione psicologica della massa: mostrando in forma di fiction ciò che sta per accadere (cioè, cioè che si vuole che accada, cioè che accade per disegno) la popolazione diviene più disposta ad accettare gli eventi futuri pianificati dal potere stesso.

 

Ne parlò per primo il ricercatore Alan Watt, che nei decenni scorsi ne ha parlato in diverse trasmissioni radiofoniche e podcast; solo ora molti paiono convincersi della profonda verità delle sue tesi.

 

Per Watt «la programmazione predittiva è una sottile forma di condizionamento psicologico fornita dai media per far conoscere al pubblico i cambiamenti sociali pianificati che devono essere implementati dai nostri leader. Se e quando questi cambiamenti verranno attuati, il pubblico li conoscerà già e li accetterà come progressioni naturali, riducendo così la possibile resistenza e agitazione del pubblico».

 

È facile per molti ricordare il film Contagion (2011), che dieci anni prima dell’accaduto mostrava per filo e per segno cosa sarebbe arrivato con la pandemia: lockdown totali, panico nelle strade, la corsa al vaccino sperimentale, la punizione dei dissidenti complottisti (che per il film sono falsi e corrotti). New York nel 2020 rispettò a tal punto la trama del film del decennio precedente che fece sapere al mondo che si era arrivati al livello delle fosse comuni.

 

Incredibile vedere oggi, nel finale di Contagion, che il virus della storia sarebbe saltato fuori in Cina passando da un pipistrello ad un maiale all’uomo: esattamente la teoria dello spillover, inflittaci a suon di censure sino a che quella della fuga del patogeno dal laboratorio non è divenuta innegabile, nel frattempo tuttavia erano stati soffocate milioni di voci (compresa quella di Renovatio 21) e istituito l’apparato industriale di censura ancora in attività, anzi ora istituzionalizzato da leggi come il Digital Service Act dell’Unione Europea.

 

Contagion, rammentiamo, fu messo in piedi dal regista Soderbergh con il cast più stellare mai visto a partire da documenti di preparazione pandemica dell’OMS, che partecipò al progetto.

 

Ma ci sono esempi di Predictive Programming perfino più vicini nel tempo – e sconvolgenti.

 

Nel 2022 Netflix lancia un film tratto da un romanzo di Don Delillo, White Noise, dove la storia ruota intorno alle conseguenze di un catastrofico incidente ferroviario che scatenava una nuvola di rifiuti chimici tossici su una piccola cittadina dell’Ohio. A fine gennaio 2023, a East Palestine, in Ohio, un treno carico di sostanze tossiche deraglia creando il più grande disastro ambientale americano degli ultimi anni.

 

Il tutto, sì, proprio nella zona dove era stato ambientato, e girato, White Noise. Alcune dei cittadini di East Palestine vittime del disastro chimico avevano partecipato come comparse al film. Coincidenza significativa – così come quella per cui, si è appreso, ka cittadina di East Palestine poco prima aveva lanciato ufficialmente un programma pilota di ID digitale chiamato MyID.

 

Potremmo andare avanti con tanti altri esempi, ma è chiaro che in tanti resterebbero fissi nei loro sorrisetti: siete paranoici, siete complottisti… un film è un film, e basta.

 

Soprattutto questa ultima idea è una sciocchezza che squalifica chi ci crede: anche se non sono visibili in superficie (talvolta, in realtà, sì) i rapporti tra Hollywood e lo Stato americano (soprattutto con l’Esercito, la CIA, lo Stato profondo) sono solidi, radicatissimi, sono fondamentali per la sopravvivenza del cinema americano. Tanti kolossal (Transformers, Top Gun) paiono spot di reclutamento dell’esercito, o ancora peggio réclame per determinati armamenti prodotti dal complesso militare industriale.

 

Il legame tra l’Intelligence e la Mecca del cinema è perfino dichiarato in un film come Argo (2013) – ovviamente premiato con l’Oscar – dove il protagonista-regista Ben Affleck mostra con dovizia di particolari come il connubio sia rodato, e noi ci ricordiamo che la prima moglie dell’Affleck, Jennifer Garner, pochi anni prima spopolava in TV con una serie cretina, Alias, dove interpretava una invincibile agente CIA.

 

La quantità di idee, concetti, sentimenti, che il potere profondo ha veicolato occultamente tramite il cinema è ad oggi sconosciuta. Non sappiamo quante delle cose che ci hanno piantato in mente con un bel film al cinema siano in realtà originate dai programmi dei padroni del mondo, che sono solitamente programmi di morte.

 

Ora, riconosciamolo, siamo il punto in cui il pudore viene sempre meno. Quindi eccoti che a mostrare la futura guerra civile americana è il loro stesso ex presidente. Eccoti che ti parlano della grande catastrofe cibernetica in arrivo.

 

Azzereranno Internet, niente più andrà, chissà per quanto. Poi, dopo non sappiamo quale caos di terrore e atrocità (l’anarco-tirannide per le quali scafisti, Stati, super-Stati e ONG hanno portato abbondante manovalanza), ripristineranno tutto, epperò stavolta con una soluzione: per far funzionare il mondo cibernetico, bisognerà che esso divenga ancora più cibernetico, e cioè, etimologicamente, basato sul controllo.

 

Cioè: quando vi ridaranno la tecnologia esplosa con il disastro di questa ciber-pandemia, vi diranno che dovrete sottomettere la vostra esistenza alla biosorveglianza elettronica più fitta, altrimenti si ha il rischio che la catastrofe accada di nuovo. Tutto sarà controllato, registrato, manipolato: sapete come la pensa Klaus Schwab, perfino i vostri pensieri diverranno leggibili, dovranno essere scansionati quando andate all’aeroporto.

 

Questo progetto è vecchio di secoli, o di millenni, se considerate che nella Repubblica Platone teorizza esattamente la tecnocrazia.

 

Ci lavorano da tanto, tanto tempo, mentre noi ci facciamo turlupinare dalle storie dell’industria culturale, e con i popcorni sulle ginocchia, a sera spegniamo il cervello nei film, che poi film non sono: sono programmi, il cui codice prevede la nostra sottomissione, la nostra schiavitù la nostra estinzione.

 

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine screenshot da YouTube

 

 

 

 

Civiltà

Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica

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Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.   Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.   Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.

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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.   Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.   Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.   Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.   Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.   O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.   Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.   Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.   Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».   Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.

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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.   Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.   Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.   Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.   Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.   Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.   la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.   La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.   Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.   Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.   Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.   Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.

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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.   Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.   Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.   Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».   E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.   Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.   Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.   Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.

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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.   Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.   Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.   Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.   Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.   Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.   Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.   Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.   Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.   Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.   Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.   Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».   Patrizia Fermani

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Eutanasia

Il vero volto del suicidio Kessler

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Vi è tutta una tradizione di geremiadi sulle stragi perpetrate dai tedeschi in Italia, che va dal Sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527) agli eccidi compiuti dai soldati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una strage ulteriore è partita in queste ore, ma pare non ci sia nessuno a cercare di fermarla: anzi, consapevoli o no, i funzionari dell’esablishment, e di conseguenza il quivis de populo, sono impegnati ad alimentarla.

 

Esiste infatti un fenomeno sociologico preciso, conosciuto ormai da due secoli, chiamato «effetto Werther», che descrive l’aumento dei suicidi in seguito alla diffusione mediatica di un caso di suicidio, per imitazione o suggestione emotiva. Esso prende nome dal romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774), la cui pubblicazione fu seguita da una serie di suicidi imitativi tra i giovani europei, tanto da spingere alcune nazioni a vietarne la vendita.


Quella del suicidio come contagio non è un residuo dello scorso millennio. Vogliamo ricordare, specie all’Ordine dei Giornalisti e alle autorità preposte, che le direttive per il discorso pubblico sui suicidi sono molto precise: le cronache del suicidio vanno limitate, soppesate, controllate, perché è altissima la possibilità che i lettori ne traggano un’ulteriore motivazione per farla finita. Perfino nei motori di ricerca, alla minima query sulla materia, spuntano come funghi i numeri di telefono delle linee anti-suicidio.

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«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita» scrive l’Ordine, che sull’argomento organizza pure abbondanti corsi di aggiornamento.

 

Tutto questo pudore civile e spirituale è stato completamente inghiottito dalla propaganda sulle nuove frontiere dell’autodeterminazione, quella che vuole convincere tutti di essere padroni incontrastati della propria vita e della propria morte, e ci sta riuscendo alla grande. La morte assistita assume pure, in quest’era grottesca, le forme delle gambe delle Kessler – che, forse temendo un cortocircuito di senso, non si sono rivolte per la pratica all’Associazione Coscioni. 

 

Il loro è stato un bel finestrone di Overton aperto sull’autosoppressione pianificata: basta guardare come ne parlano i giornali, le TV, gli ebeti al bar, per comprendere come esso serva a sdoganare definitivamente il suicidio come valore.

 

E per giunta una forma di suicidio nuova, con conseguenze sul racconto pubblico ancor più insidiose: par di capire infatti che si tratti di un suicidio per «vita completa», cioè il caso in cui l’aspirante morituro sente di aver esaurito, con più o meno soddisfazione, la sua esistenza. In Olanda, dove la fattispecie trova la naturale assistenza dello Stato eutanatico fondamentalista, la chiamano voltooid leven, e si adatta agli anziani (di solito tra i 70–75 anni) che non soffrono gravemente e spesso godono di una salute relativamente buona, ma che vogliono concludere la vita dettando loro le condizioni: i tempi, il contesto, la scenografia.

 

Le Kessler avevano deciso di morire. La piccola autostrage omozigotica era perfettamente programmata: la disdetta dell’abbonamento al quotidiano bavarese spedita per lettera con la data esatta del suicidio (la precisione tedesca!), i regalini inviati per arrivare a destinazione post mortem, la disposizione di essere cremate (ovvio) e di mettere in un’urna unica le proprie ceneri insieme a quelle della madre e del cane Yello. Particolare, quest’ultimo che, nel finestrone, apre un altro finestrino.

 

Le gemelle erano, come tante persone morbosamente legate a cani e gatti, nullipare: niente figli, per scelta emancipativa (tra le cronache che le immortalavano accompagnate a questo o quel divo, dicevano di aver visto il papà picchiare la mamma i fratelli morire in guerra: come in effetti non è mai accaduto a nessuno).

 

Morire così, facendosi trovare in una casa vuota, è qualcosa che ripugna al pensiero di chiunque abbia una famiglia. Perché, nella scansione naturale per cui si è figlie, ragazze, fidanzate, spose, madri, nonne, la casa si riempie di consanguinei e nemmeno solo di quelli. Nella famiglia (non fateci aggiungere l’aggettivo «tradizionale») non si può morire soli: la tua mano è stretta tra quelle di tante persone di generazioni diverse. Abbiamo in mente il caso di una nonna veneta, che, attorniata da una dozzina di figli, nipoti e pronipotini, mentre moriva pronunciò due semplici e inaspettate parole: «me spiaze», mi dispiace. Del resto, si accingeva a lasciare un intero universo che non solo non era vuoto, ma che materialmente, incontrovertibilmente, le voleva bene.

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Ecco la condanna definitiva che proviene dal mondo creatosi con il dopoguerra e il boom economico: egotismo infinito e terminale che arriva ad impedire, oltre che la trascendenza, pure la discendenza. Persone narcotizzate e sterilizzate dalla TV, o per chi come loro stava dall’altra parte, catturate dal culto dell’immagine e del successo; soggetti che, programmaticamente rifiutando di procreare – e quindi di tramandare un pezzo della propria vita biologica, un pezzo di codice, un pezzo di cuore – coltivano una visione solipsista dell’esistenza suscettibile di sfociare nel nichilismo sociopatico. Si precludono così quella forma istintiva di empatia che, antivedendo il danno che un gesto estremo può provocare ad altri, tiene in conto la possibilità concreta che questo si traduca in pedagogia distorta. 

 

Le Kessler in apparenza incarnavano il simbolo di un’era di gioia morigerata, di eleganza e di innocenza – mostravano al massimo le gambe chilometriche, mentre l’economia prosperava e il mondo costruiva una pace con il tetto di armi termonucleari – ma quell’era (che mai dobbiamo rimpiangere!) non ha fatto altro che preparare il terreno all’ambiente malato in cui ci tocca vivere nell’ora presente. Dove non c’è nulla al di fuori di me, non c’è l’al di là, ma neppure l’al di qua: no figli, no nipoti, no amici, no consorzio umano in generale. Perché, sì, l’utilitarismo edonista caricatosi nelle menti dei boomer così come nel sistema della medicina di Stato e dello Stato moderno tutto, è un orizzonte disumano e disumanizzante.

 

La vita svuotata di ogni dimensione che non sia il piacere, la vita che non contempla il dolore, non può non portare che al desiderio di morte quando la percezione del piacere sfuma, o quando appare il dolore, o anche quando, in assenza di dolore, c’è la paura che esso prima o poi si manifesti. La soglia che legittima la compilazione del modulo con la richiesta di morte si anticipa sempre di più, e lo Stato genocida è pronto ad assolverla sotto la maschera bugiarda della pietà anche per chi semplicemente desideri allestire il proprio teatrino funebre curando e controllando ogni dettaglio della scena, per chiudere il sipario definitivo sotto la propria esclusiva regia.   

 

Lo scrittore francese Guy Debord, proprio negli anni in cui le Kessler allungavano i loro arti a favore di telecamere RAI, aveva pubblicato un piccolo saggio, invero un po’ sopravvalutato, intitolato La società dello spettacolo. Ebbene, ora che quella generazione è arrivata alla raccolta, potremmo aggiungerci una specificazione e parlare di società dello spettacolo della morte.

 

Come fosse il loro ultimo balletto, la morte procurata delle soubrette non è dipinta dai media alla stregua di un fatto tragico – anzi. Se neanche troppi anni fa di un suicidio si dava conto sulle pagine della cronaca (con relativa descrizione di particolari squallidi e disturbanti), oggi potrebbe finire tranquillamente nella rubrica degli spettacoli perché, in fondo, anche quello fa parte della carriera.

 

Quando una decina di anni fa, lanciandosi dalla finestra, si suicidò il regista Mario Monicelli, il cui successo fu coevo a quello delle Kessler, non fu del tutto possibile, per questioni organolettiche, esaltarne il gesto. Ora invece sì, perché non c’è la star spiaccicata sull’asfalto, non c’è nulla da pulire, il quadretto è asettico come nella brochure di un mobilificio.

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Forse, inzuppati e inflacciditi dentro il brodo avvelenato della pubblicità progresso, non ci rendiamo più nemmeno conto di cosa alligni dietro la stomachevole apologia della carriera televisiva delle ballerine e del loro gesto orrendo, impacchettati entrambi nello stesso cartoccio mediatico che vuole profumare di teutonica, himmleriana, perfezione – quando in realtà puzza di cadavere e di impostura.

 

Non ci rendiamo conto di cosa significhi un messaggio patinato così violento nella sua apparente dolcezza per chi ne viene investito quando magari debba ancora capire, perché nessuno glielo ha trasmesso, il senso del vivere e il senso del morire, l’ineludibilità della sofferenza e la nobiltà che risiede nella forza di farsene carico. 

 

Ci resta, ora, la conta impossibile di quanti ci faranno un pensiero a togliersi di mezzo dopo l’esempio delle gemelle suicide. Magari persone che un tempo le guardavano ballare in TV, che hanno lavorato e penato una vita intera, alle quali il suicidio di due soubrette VIP dovrebbe suonare come uno schiaffo in faccia e invece un sistema putrescente vuole far apparire come un addio di gran classe.

 

Chi può contrapponga subito a loro, nella mente, l’antidoto più naturale: il ricordo della propria nonna, che ha figliato, patito, lavorato per la discendenza con infinite ore-uomo, con un’eternità di pranzi della domenica e di racconti e di ricami, la nonna saggia e piena di affetto per chi veniva dopo di lei.

 

Perché dopo di lei qualcosa c’è: ci siamo noi, c’è la vita e c’è un mondo da ricostruire. 

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

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Il Corriere e Lavrov, apice del cringe giornalistico italiano

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In un episodio imbarazzante come pochi altri per la stampa nazionale italiana, il Corriere della Sera ha rifiutato di pubblicare un’intervista esclusiva con il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.   L’incredibile sviluppo è stato ridicolizzato dal portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zakharova, che, facendo ridere i presenti ad un briefing a Mosca, ha raccontato che quando il ministero russo ha chiesto come mai l’intervista non fosse stata pubblicata il Corriere avrebbe risposto che non c’era spazio; la Zakharova ha proseguito dicendo che, visiti i «problemi con la Carta che deve avere l’Italia», era stato proposto dal Cremlino di pubblicarla sul sito, ma sarebbe stato risposto da via Solferino che non c’era spazio nemmeno su internet. Infine, non si sa quanto scherzando, la portavoce dice che è stato ulteriormente proposto all’antico quotidiano italiano di pubblicare un link ad una pagina esterna, ma sarebbe stato detto che non c’era spazio nemmeno per quello.   È finita che l’intervista la ha pubblicata il sito del ministero degli Esteri russo e dell’ambasciata russa in Italia.  

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Se le parole della Zakharova non fossero per ischerzo saremmo davanti ad un fatto di gravità – professionale, diplomatica, umana – sconcertante. Il racconto della portavoce racconta di una vetta di cringe giornalistico senza precedenti.   Nelle scorse ore il giornale della borghesia italiana ha tentato di rispondere, giustificando la mancata pubblicazione di uno dei vertici della massima superpotenza atomica planetaria (possiamo dire «censura»?) con i contenuti dei discorsi del Lavrov, che con evidenza il giornale ed i suoi padroni non condividono – ma dei quali i lettori dovrebbero essere informati.   «Le risposte del ministro contenevano anche molte affermazioni del tutto discutibili e dal chiaro intento propagandistico» scrive il Corriere in un articolo. Come, ad esempio, il passaggio sul «cruento colpo di Stato anticostituzionale a Kiev del febbraio 2014, organizzato dall’amministrazione Obama» (in via Solferino forse erano in vacanza quando uscì l’audio di Victoria Nuland che oltre che a parlare degli investimenti USA e decidere il premier di Kiev proclamava in maniera indimenticabile «Fuck the EU»), oppure quello sul «regime di Kiev» che definisce «subumani» o «terroristi» gli abitanti delle quattro regioni ucraine annesse illegalmente dalla Russia» (anche qui, forse il giornalone era in letargo negli anni dal 2014 al 2022, e quanto alle annessioni illegali, magari ricordare che ci sono stati dei referendum in zone quasi totalmente russofone sarebbe stata una cosa bella e «giornalistica»)   Il Corriere mica desiste: ha cancellato la pubblicazione dell’intervista al decano della diplomazia mondiale perché «in altre parti, Lavrov arriva a sostenere che, “a differenza degli occidentali”, l’esercito russo protegge “le persone, sia civili che militari” e che le “nostre forze armate” agiscono “con massimo senso di responsabilità, sferrando attacchi di precisione esclusivamente contro obiettivi militari e relative infrastrutture di trasporto ed energetiche”».   Qui sarebbe bello che il giornalissimo dimostrasse che non è così, facendoci vedere, chessò, Kiev e Kharkov ridotte in macerie come Baghdad e Beirut – perché non è che ci voglia un genio per vedere quanto la guerra condotta dalla Russia sia diversa da quelle fatte da USA, NATO e compagni in Iraq, Libano, Afghanistan, Siria, Libia e pure in Serbia… Diverso è il caso di Donetsk, città che dicono essere ucraina, ma che l’Ucraina, per qualche ragione, bombarda, anche a Natale e a Pasqua vicino alle chiese, nei mercati, nei centri commerciali, con le ondate di sangue civile che conosciamo: ma guarda chi li fa, i massacri degli innocenti.   Al Corrierone, come a tutte le testate occidentali possedute da camerieri atlantici o peggiobrucia ancora che Bucha non sia riuscita col buco, e di questa presunta «strage» che doveva fungere da casus belli per mandare i nostri soldati a morire in Ucraina non se ne è fatto più nulla. Voi avete più sentito nulla? Chissà perché.   Ma non basta: il Corriere è disturbato assai dal fatto che il Lavrov «dichiara che «il nazismo sta rialzando la testa in Europa». Lo scrive il giornale dove in prima pagina, con corsivi non esattamente imperdibili, scrive per qualche ragione uno che in TV andò a dire che un generale vicino al Battaglione Azov è «giusto» come Schindler e Perlasca. Lo scrive il giornale il cui inviato a Kiev riprese un militare nazi-odinista dichiarare la sua fede pagana dinanzi all’assedio dei monaci della Lavra. È stato detto, giustamente, che il Corriere in quell’occasione era riuscito, senza volerlo, a realizzare l’apice della propaganda ucraina e pure russa nello stesso momento.  

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  Ma non è finita. Il giornalone nelle mani del venditore di pubblicità proprietario del Torino calcio alza il ditino con boria e pervicacia: «il ministero degli Esteri russo ha risposto alle domande inviate preliminarmente dal Corriere della Sera con un testo sterminato pieno di accuse e tesi propagandistiche. Alla nostra richiesta di poter svolgere una vera intervista con un contraddittorio e con la contestazione dei punti che ritenevamo andassero approfonditi il ministero ha opposto un rifiuto categorico».   Un’intervista scritta con il contraddittorio? Ma di cosa stanno parlando? Il compito dell’intervistatore è sentire quello che dice il più alto diplomatico della superpotenza oppure salvaguardare la mente dei lettori dalla possibilità di sentire l’altra campana – cioè il lavoro che dovrebbe fare il giornalismo?   Lavrov, accusa il Corrierissimo, «Evidentemente pensava di applicare a un giornale italiano gli stessi criteri di un Paese come la Russia dove la libertà d’informazione è stata cancellata». A questo punto non è più possibile trattenere le risate. «Quando il ministro Lavrov vorrà fare un’intervista secondo i canoni di un giornalismo libero e indipendente saremo sempre disponibili».   Il Corriere «libero e indipendente»? Eccerto. Ce lo ricordiamo in pandemia, quando, dopo decenni di abbonamento (chi scrive ha letto quel giornale quotidianamente da quando aveva praticamente 15 anni) abbiamo mollato il colpo, ché le menzogne (per esempio sull’ivermectina farmaco per cavalli) erano divenute intollerabili. Anche dopo, con la guerra ucraina e la lista dei putiniani italiani, con per soprammercato la stupenda affermazione che la stampa russa avrebbe usato come manifesto un articolo di Manlio Dinucci: le giornalistissime in cima al massimo quotidiano italiano non si era ovviamente peritata di comprendere o approfondire nulla – Dinucci riprendeva uno studio della Rand Corporation, citato varie volte anche da Renovatio 21, dipingendo quindi l’84 geografo italiano come faro della politica di Putin… eh?   Vabbè, qualche lettore lo sa: con il Corriere per Renovatio 21 ci può essere stata qualche screzio in passato. Come quando un video un po’ minaccioso di Bill Gates e consorte (col COVID stavano ancora assieme) trovato e sottotitolato da Renovatio 21 comparve per magia, senza credito alcuno, talis et qualis sul sito del Corriere.   Faccia il lettore il confronto. L’unica vera differenza e che noi – che abbiamo realizzato i sottotitoli, sistemato l’audio e finalizzato – non ci abbiamo messo la pubblicità.    

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O quella volta che, ci segnalarono tanti lettori, c’era nelle pagine di cultura quella lenzuolata della celeberrima romanziera Susanna Tamaro sulla scuola che sembrava, a detta di molti, un pochino somigliante ad un articolo di Elisabetta Frezza pubblicato sulle colonne di Renovatio 21.    Pressati dal nostro pubblico, scrivemmo all’altezza del Natale 2022 alla redazione di via Solferino. Siamo in grado qui di riprodurre la missiva.   Gentili signori della redazione del Corriere,
abbiamo ricevuto diverse segnalazioni riguardo una possibile somiglianza tra l’articolo comparso sul Vostro giornale lo scorso mercoledì 21 dicembre a firma di Susanna Tamaro («Perché dico no alla Scuola 4.0») e l’articolo di Elisabetta Frezza pubblicato da Renovatio 21 in data  14 dicembre 2022 (ore 15:56) con il titolo «L’abisso del Piano Scuola 4.0».
(…) Le simiglianze segnalateci dai lettori sono varie, tra cui, ad esempio, il curioso uso dell’espressione «Giovani Marmotte», che ricorre nel successivo pezzo della Tamaro, che i lettori ci ricordano essere stata impiegata in altri discorsi della dott.ssa Frezza, come l’articolo pubblicato da Renovatio 21 «Scuola, cosa ci aspetta a settembre», del 13 luglio 2020.
Più in generale, ci segnalano una certa corrispondenza fra i due articoli nella disposizione degli argomenti.
Chiederemmo dunque, se possibile, un Vostro commento a riguardo.
In attesa di Vostre,
Auguriamo a tutta la Redazione del Corriere e alle rispettive famiglie Buon Natale.
  Secondo voi i colleghi del Corriere dei grandi ci risposero? Maddeché – neppure agli auguri di Natale.   Gli auguri a questo punto glieli facciamo noi: perché, se continuano così, quanto avanti potrà andare ancora avanti il giornalismo italiano?   Roberto Dal Bosco  

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