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Il papa apre la Finestra di Overton sui preti sposati

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Il celibato dei sacerdoti cattolici è «una prescrizione temporanea… Non è eterna come l’ordinazione sacerdotale»: sono parole del papa, che ci fa ulteriormente sapere quindi che «il celibato, invece, è una disciplina».

 

Bergoglio si è fatto intervistare da un sito suo conterraneo, Infobae. L’intervistatore Daniel Hadad, editore, giornalista ed avvocato molto noto in Argentina, a questo punto si è spinto verso il colpaccio: se il celibato non è eterno, ma temporaneo, può essere rivisto?

 

«Sì» ha risposto subito il pontefice, che ha ricordato come, nella Chiesa cattolica «di fatto ci sono preti sposati», cioè quelli di rito orientale. Bergoglio ha quindi aggiunto il suo pensiero: l’abolizione del celibato non poterà più vocazioni, tuttavia, sottolinea il papa, va ricordato che «a volte il celibato può portarti al maschilismo».

 

Ebbene sì, ecco la Chiesa machista. «A un prete che non sa lavorare con le donna, manca qualcosa, non è maturo». Non è chiaro cosa significhi «saper lavorare con le donne», soprattutto se detto da un religioso  che, a poche ore dall’elezione al Soglio di Pietro, fece sapere urbi et orbi: «ho avuto una fidanzata, era del gruppo di amici con i quali andavamo a ballare. Poi ho scoperto la vocazione religiosa». La storia di questa «morosa del papa» fece il giro dei giornali del mondo, con abbondanti interviste all’interessata.

 

«Il Vaticano era molto maschilista» ha continuato Bergolio nell’intervista al suo concittadino, «ma fa parte della cultura, non è colpa di nessuno. Si è sempre fatto così». Sì, il Vaticano machista. Poi la classica ipocalorica insalata di parole bergogliana: «hanno un’altra metodologia, le donne. Hanno un senso del tempo, dell’attesa, della pazienza, diverso dall’uomo. Questo non sminuisce l’uomo, sono diversi. E devono completarsi a vicenda».

 

Infobae non è l’unica testata argentina a cui il pontefice ha fatto rivelazioni di gender ecclesiastico: al quotidiano La Nacion, il papa ha solennemente annunziato che al sinodo di ottobre voteranno anche le donne. «Voteranno tutti coloro che partecipano al sinodo», ha promesso il «vescovo di Roma» all’intervistatrice Elisabetta Piqué.

 

Insomma, è chiaro che ci risiamo: Bergoglio apre la Finestra di Overton sul celibato ecclesiastico e, pur senza ancora nominarlo, sul percorso verso l’ordinazione di pretesse, vescovesse, cardinalesse e papesse.

 

Chi ha seguito gli anni di questo devastante papato sa che non si tratta della prima volta. Si disse che l’erosione del celibato era già tutta nel famoso Sinodo dell’Amazzonia (2019), quello del trionfo idolatra  della Pachamama, dove nel documento finale era possibile leggere: «proponiamo di stabilire criteri e disposizioni da parte dell’autorità competente per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti della comunità, che abbiano un diaconato potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile». Il Vaticano quindi negò per quanto possibile: «non era un sinodo sul celibato. L’esortazione del papa è magistero, il documento finale no».

 

Come si dice, excusatio non petita. Ma anche, el tacon pezo del buso.

 

Appena eletto papa, cominciò il tamburello del catto-feminismo che vuole entrare in gerarchia: «Può questa femminista sposata divenire la prima donna cardinale? Consistenti voci che il riformista Papa Francesco si stia preparando a rompere con novecento anni di storia» titolava a tutta pagina nel 2013 il Daily Mail.

 

Una donna cardinale (cardinalessa? cardinala?)? Si può, dicono tutti. Per 700 anni il Papa poté nominare cardinale chi voleva, come Alessandro VI che rese porporato il figlio diciottenne Cesare Borgia. Poi, nel 1917, una legge canonica stabilì che potevano diventare cardinali solo uomini con ordinazione sacerdotale. Quanto ci può impiegare il papa della misericordia a bypassare leggine recenti come questa?

 

Il processo, per quanto ci riguarda, non ha in sé molta importanza. La questione è che è stato fatto partire. La Finestra di Overton si muove rapidissima: rimuovere il celibato sacerdotale non è più impensabile, e nemmeno è un pensiero radicale: è accettabile, razionale, in attesa che diventi quindi tanto popolare da poterci fare su una legge canonica. La proposta del papa è diretta, non fa sconti, usa parole nette: il celibato dei preti «è temporaneo…»

 

Il timer sta tichettando, insomma.

 

Perché Bergoglio ha deciso di riaprire ora questa finestra? Il motivo potrebbe essere ricercato nella questione dei vescovi tedeschi, i quali – oramai sguazzanti e grufolanti nel modernismo più slatentizzato e nel benessere derivante dalla simoniaca kirchensteuer, il ricchissimo contributo alla chiesa di Germania assegnato dal fisco tedesco – sarebbero in procinto di fare qualcosa di simile a uno scisma.

 

Forse non hanno fedeli, ma i soldi per farlo, ce li hanno… e di certo non fanno fatica, credete, a trovare qualcuno che darà loro una mano per portare avanti le «riforme» che Roma si ostina a non concedere (cioè: si sta prendendo più tempo del dovuto…): matrimoni omosessuali, comunione ai divorziati, intercomunione con i protestanti, magari anche un po’ di aborto libero, cioè tutto quello che è non solo consentito, ma inflitto alla cittadinanza dallo Stato moderno.

 

Di certo si sa che gli zucchetti tedeschi parlano di abolizione del celibato, così come elezione diretta dei vescovi.

 

Ecco, Bergoglio sta quindi tendendo la mano ai neoscismatici oltremontani? Oppure sta facendo l’opposto, sta togliendo loro l’acqua, incamerandone i contenuti, così da rendere la posizione dell’episcopato tedesco come «capricciosa» agli occhi dei fedeli?

 

Non sappiamo dirlo.

 

Sappiamo che oltre Tevere è in corso una guerricciola: lo capiamo dalla pubblicazione di libri come quelli di mons. Gaenswein, alias «Padre Georg», e del cardinale Mueller, entrambi peraltro tedeschi.

 

Nessuno dei due, pur denunciando il caos dell’ora presente, è pronto tuttavia a fare il salto, e dire apertamente che, oramai, il Vaticano va, quello sì, resettato, formattato, ripristinato.  Il sistema operativo da usare è uno solo: la dottrina, infallibile ed invariabile, della Chiesa cattolica, così come è stato per millenni dalla venuta di Dio in terra.

 

Questo significa: ripudio del Concilio Vaticano II, e azzeramento dell’intera gerarchia ecclesiastica. La quale, a breve, sarà ancora più difficilmente disinstallabile: i cardinale potranno dire «tengo famiglia» e avvertire il sindacato, e le cardinalesse potranno gridare alla discriminazione di genere, e magari pure querelare.

 

Il tempo è poco, ma la crisi della chiesa non può durare tanto oltre. Nel IV secolo, quando immani persecuzioni colpirono i cristiani (con i vescovi che cedevano, bruciavano all’idolatria dell’imperatore il granello d’incenso e consegnavano i libri – i traditores, letteralmente, coloro che tradivano, cioè consegnavano, mentre eserciti di innocenti e famiglie cristiane accettavano il martirio pur di non farlo) si ebbero circa 70 anni di disordine e violenza, prima che Atanasio riportasse le cose a posto. Ora, dal Concilio Vaticano II sono passati poco più di 60 anni, il che significa che potremmo essere in fase di uscita.

 

Cari lettori, pregate perché sia così. Perché tolta dalla terra la Chiesa, implosa per le infiltrazioni del Male o autoannientata dalla propria corruzione, nulla più potrà trattenere il regno dell’Anticristo.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine di Edgar Jiménez via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

 

 

 

 

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Cantone Svizzero, chiesta la revoca del concordato con il Vaticano

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Il cantone di Zugo è uno dei ventisei cantoni svizzeri, il più piccolo per superficie, ad eccezione dei due semicantoni di Appenzello Interno e Basilea-Città, ma che occupa il primo posto per ricchezza, perché svolge il ruolo di un paradiso fiscale all’interno della Confederazione.

 

Al Consiglio cantonale – il parlamento cantonale – è stata proposta una mozione parlamentare volta ad abrogare il concordato del 1828 con la Santa Sede, per ragioni finanziarie. La proposta è stata avanzata da tre deputati appartenenti rispettivamente ai Verdi, al Partito socialista e ai Verdi liberali, i tre partiti con il minor numero di deputati in questo Consiglio.

 

Il concordato del 1828

Bisogna innanzitutto ricordare – per chi non è svizzero – che la Svizzera è una Confederazione e che ogni Cantone è uno Stato, certo limitato nelle sue prerogative, ma che ha la capacità di firmare un trattato internazionale come un concordato. Inoltre la Costituzione svizzera risale al 1848 e quindi è successiva al concordato di Zugo.

 

Questo concordato fu stipulato tra la Santa Sede e i cantoni di Soletta, Lucerna, Berna – l’attuale Canton Giura – e Zugo. Ha definito il nuovo territorio della diocesi di Basilea riunendo le parrocchie di questi quattro cantoni. Il trattato prevede che il cantone di Zugo – che qui ci riguarda – si faccia carico degli emolumenti di un canonico residente e di un contributo diretto al vescovado di Basilea.

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Una preoccupazione per l’imparzialità?

La motivazione addotta dai parlamentari è la diminuzione del numero dei cattolici: «abbiamo una tradizione cattolica nel cantone di Zugo, ma non è accettabile che il contribuente paghi lo stipendio del canonico e del vescovo», ha dichiarato Luzian Franzini (Verdi).

 

Soprattutto, spiega, il 57% della popolazione non è più cattolico. La mozione rileva quindi che il finanziamento del vescovo e del canonico con fondi pubblici è «sempre più anacronistico».

 

Infine, gli autori della mozione criticano il fatto che la diocesi di Basilea non è stata sufficientemente «riformata» (?) e che il suo attuale vescovo, mons. Félix Gmür, ha commesso degli errori riguardo alle procedure di abuso.

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Una mozione che non ha alcuna possibilità di successo

Questa mozione dovrà però passare attraverso diverse prove: prima il voto del Parlamento per essere trasmessa al governo. Tuttavia i partiti di maggioranza (Centro, UDC, PLR) probabilmente non sono pronti a farlo. Ma non si sa mai…

 

Dire poi che il 57% della popolazione cantonale non è più cattolica è un modo per dire che il 43% degli zughesi professa la fede cattolica e paga le corrispondenti tasse ecclesiastiche. Non è quindi davvero anormale che gli emolumenti del canonico e del vescovo di Basilea siano pagati con le tasse della maggioranza dei cattolici.

 

Infine, i parlamentari che hanno presentato tale mozione dovrebbero sapere che un concordato è un trattato internazionale che non può essere denunciato unilateralmente. La violazione di un simile trattato è considerata una violazione della legge più elementare. Per non parlare delle considerazioni finali che giudicano il modo in cui la Chiesa di Basilea è guidata dal suo vescovo.

 

In definitiva, questa mozione è una pessima manovra politica che rivela solo l’antagonismo degli autori nei confronti della Chiesa e un desiderio di danneggiarla che non li onora.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Ella via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic

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La «Dignitas infinita» promuove una dignità non ben definita

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L’8 aprile 2024 il Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) ha pubblicato la Dichiarazione Dignitas infinita sulla dignità umana, approvata da Papa Francesco il 25 marzo.   La prima parte del documento presenta la «progressiva consapevolezza della centralità della dignità umana». La seconda parte afferma che «la Chiesa annuncia, promuove e garantisce la dignità umana». La terza parte considera la dignità come «fondamento dei diritti e dei doveri umani».   Infine, l’ultima parte denuncia «alcune gravi violazioni della dignità umana»: teoria di genere, cambiamento di sesso, maternità surrogata, aborto, eutanasia e suicidio assistito…

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Una nozione squilibrata della dignità umana

Purtroppo, come rileva il sito della Fraternità San Pio X, FSSPX.Attualità del 10 aprile: «la dichiarazione riprende, e la aggrava, la nozione disallineata o squilibrata della dignità umana che era al centro del Concilio Vaticano II, affermata nella Dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae)».   «Il Concilio ha parlato della dignità posseduta da “tutti gli uomini, perché sono persone, cioè dotati di ragione e di libera volontà”, dignità chiamata “ontologica”. Su questa dignità ontologica il Concilio ha fondato la libertà religiosa, che porta a una relativizzazione della fede cattolica riconoscendo un “diritto all’errore” in materia religiosa. Diritto “negativo”, ma pur sempre legge».   FSSPX.Attualità rileva «l’aggravamento di questa dottrina con l’uso del termine “infinito” associato alla dignità ontologica, che non è più nemmeno una deviazione, ma un’aberrazione. Solo Dio è infinito».   E ricorda: «l’anima umana, creata direttamente da Dio, è da Lui unita ad un corpo: esercita quindi un duplice ruolo. Essa conferisce innanzitutto la natura umana all’individuo creato, che è quindi persona, secondo la celebre definizione di Boezio, citata nella nota 17 del documento. L’anima è così la fonte della dignità ontologica, che è dunque la stessa per tutti gli esseri umani».   «In secondo luogo, l’anima è il principio dell’azione umana attraverso le sue facoltà: intelligenza e volontà. Questa azione costituisce l’ambito morale. Quando gli atti umani ci permettono di far fiorire la nostra umanità, indirizzandoci verso il nostro fine che è Dio, si caratterizzano come “buoni”. Quando, al contrario, ce ne allontanano, questi sono atti “cattivi”».   «La dignità morale della persona dipende quindi dal suo agire: l’uomo che fa il bene per raggiungere il suo fine ultimo ha una dignità tanto maggiore quanto più ricerca questo fine. Ma chi si allontana dal suo fine e fa il male cade da questa dignità: se ne spoglia».

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Una visione naturalista dell’uomo

In uno studio pubblicato in due parti su Réinformation.tv, l’8 e il 9 aprile, Jeanne Smits denuncia «una visione naturalista dell’uomo», contenuta nel documento romano.   Così, scrive, «la Dignitas infinita, ignorando deliberatamente la natura ferita dell’uomo, basando tutto sul valore della persona, eliminando il bisogno della grazia, nonostante alcune affermazioni contrarie, si colloca generalmente nella sfera dell’utopia orizzontale. Ma questa dichiarazione piacerà senza dubbio a coloro che vi troveranno la condanna di certi eccessi dei tempi».   Più avanti, il giornalista francese cita padre Victor Berto, lui stesso citato da padre Bertrand Labouche nel bollettino del convento di Nantes, L’Hermine (n°46, giugno-luglio 2015). Il teologo privato di mons. Marcel Lefebvre al Concilio Vaticano II scrisse sulla Dignitatis humanæ, all’epoca ancora sotto forma di schema:   «La dignità umana adeguatamente considerata richiede che si tenga conto dei suoi atti. L’ignorante e l’uomo colto non hanno la stessa dignità; e soprattutto, la dignità non è uguale in chi aderisce alla verità e in chi aderisce all’errore, in chi vuole il bene e in chi vuole il male».   «I redattori, che hanno costruito tutto il loro schema su una nozione inadeguata della dignità della persona umana, hanno già presentato con questo un’opera deformata e di straordinaria irrealtà; infatti, che ci piaccia o no, esistono, tra le persone umane adeguatamente considerate, immense differenze di dignità».   «E questo è tanto più vero per quanto riguarda lo schema sulla libertà religiosa; perché evidentemente la libertà religiosa si adatta alla persona non secondo la sua dignità radicale, ma secondo la sua dignità operativa, e quindi la libertà non può essere la stessa nel bambino e nell’adulto, nello stolto e nella mente penetrante, nell’ignorante e nell’uomo colto, in uno posseduto del demonio e in quelli ispirati dallo Spirito Santo, etc.»   «Ora questa dignità, che chiamiamo operativa, non appartiene all’essere fisico, ma riguarda, è ovvio, l’ordine intenzionale. La negligenza di questo elemento intenzionale, cioè la scienza e la virtù, è nello schema un errore molto grave».   In Lo hanno detronizzato, Mons. Lefebvre afferma della dichiarazione conciliare Dignitatis humanæ: «la dignità umana radicale è sì quella di una natura intelligente, capace quindi di scelta personale, ma la sua dignità terminale consiste nell’aderire “in atto” alla verità e al bene».   «È questa dignità terminale che merita a ogni persona la libertà morale (la capacità di agire) e la libertà (la capacità di non essere impedito di agire). Ma nella misura in cui l’uomo aderisce all’errore o si lega al male, perde la sua dignità terminale o non la raggiunge, e su di essa non si può fondare nulla! […]»   «Parlando delle false libertà moderne, Leone XIII scrive nell’Immortale Dei: “se l’intelligenza aderisce a false idee, se la volontà sceglie il male e ad esso si lega, nessuna delle due raggiunge la perfezione, entrambe cadono dalla loro originaria dignità e si corrompono”».   Jeanne Smits conclude il suo studio in questi termini: «basando tutto sulla “dignità infinita dell’uomo”, essendo creato e quindi dipendente da Dio, che solo possiede dignità infinita, la dichiarazione (romana) ipertrofizza il creato in relazione al Creatore; il culto e il servizio a Lui dovuti passano in secondo piano, impantanati da qualche parte nella palude della “libertà religiosa”».   «[Dignitas infinita] Esalta l’uomo al punto da facilitarne il culto, in attesa che il giusto stupore di fronte alla creazione conduca questo pensiero all’oblio di Dio e al panteismo, una spiritualità globale che già si delinea in modo sempre più preciso. In ogni caso essa non li contraddice, omettendo di ricordare che senza la grazia, l’uomo nella sua condizione decaduta è in uno stato di sottomissione al male».

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Dignitas infinita e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite

In modo meno teologico e più politico, il blog argentino The Wanderer dell’11 aprile rileva un’altra incongruenza nella Dignitas infinita, vale a dire «l’insistenza nel collegare la dignità dell’uomo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Infatti, questo documento delle Nazioni Unite è menzionato 26 volte».   «La tesi del cardinale Fernández è che se la questione della dignità umana è sempre stata difesa dalla Chiesa, è proprio con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che essa raggiunge il suo splendore […]»   «Si scopre quindi che una dichiarazione costituzionalmente atea, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non menziona mai Dio, e alla quale la Chiesa ha ufficialmente resistito, diventa con il nuovo pontificato di Francesco la pietra angolare di una parte importante del suo magistero […]»   «Dice il documento romano: “in tal orizzonte, la sua enciclica Fratelli tutti costituisce già una sorta di Magna Charta dei compiti odierni volti a salvaguardare e promuovere la dignità umana’ (n. 6). Dimenticato il De opificio hominis di san Gregorio di Nissa, e l’Agnosce, o christiane, dignitatem tuam della predica della Natività di san Leone Magno».   «La Magna Charta sulla dignità dell’uomo non è data dai Padri e dalla Tradizione della Chiesa, ma da… Fratelli tutti di Papa Bergoglio! Sembra uno scherzo». Scherzo sinistro.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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In corso la beatificazione del missionario che fondò i cistercensi in Vietnam

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Chiusa a Roma la fase diocesana del processo di beatificazione del sacerdote francese che nella diocesi di Hue diede vita nel 1918 al monastero di Nostra Signora di Phuoc Son. Un’esperienza che oggi conta centinaia di monaci in Vietnam.

 

«Un momento di festa per tutta la Chiesa», a Roma come in Vietnam. Così oggi nel Palazzo Lateranense il vicegerente della diocesi di Roma, mons. Baldassare Reina, ha definito la sessione di chiusura della fase diocesana del processo di beatificazione di padre Benoit Thuan, al secolo Henri François Denis (1880-1933), missionario francese in Vietnam dal 1903 e fondatore nel 1918 della prima comunità monastica maschile del Paese, il monastero di Nostra Signora di Annam a Phuoc Son, nell’arcidiocesi di Hue.

 

Come prevedono le procedure canoniche gli atti dell’inchiesta sulla santità di questo servo di Dio tuttora veneratissimo in Vietnam sono stati sigillati per essere trasmessi al dicastero per le Cause dei santi, in una cerimonia a cui erano presenti anche dom Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’ordine cistercense, e don Giovanni XXIII, l’abate presidente della Congregazione cistercense della Sacra Famiglia, il ramo fondato in Vietnam da padre Benoit Thuan.

 

Nativo di Boulogne-sur-Mere, in Francia, padre Henri François Denis fu ordinato sacerdote per le Mission Etrangeres de Paris il 7 marzo 1903. Partito pochi mesi dopo per il Vietnam fu destinato alla missione di Hue, dove assunse il nome «Thuan», che in vietnamita significa obbedienza. Si nella cultura locale ponendosi davanti alle persone che incontrava non con uno stile di superiorità ma di servizio. Finché in questo suo apostolato missionario avvertì forte però la chiamata a testimoniare il Vangelo con uno stile monastico. Così nel 1918 – in accordo con il suo vescovo e ottenuta il permesso da Propaganda Fide – diede vita in estrema povertà e inizialmente con un solo compagno al monastero di Nostra Signora di Annam.

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«Al tempo – ha ricordato mons. Reina – in Vietnam vi erano solo i due monasteri femminili che il Carmelo di Lisieux aveva fondato a Saigon e Hanoi. Ed è significativa una lettera che il 2 dicembre 1922, madre Agnese di Gesù – la sorella di santa Teresa di Lisieux che appena l’anno prima era stata dichiarata venerabile dalla Chiesa – scrisse a padre Benoit, ricordando il desiderio della grande carmelitana di partire per il Vietnam e indicandola come l’”angelo custode” di quella nuova comunità monastica maschile».

 

I monaci iniziarono subito a coltivare il riso come i contadini poveri del Vietnam. E nonostante la durezza di quella vita (uno dei primi novizi morì sbranato da una tigre), quell’ideale attrasse subito decine di giovani. Ed è un seme che – nonostante la storia estremamente dolora vissuta dal Vietnam nel Novecento – continua a fiorire ancora oggi, con centinaia di monaci in cinque comunità cistercensi in diverse zone del Paese.

 

Padre Benoit Thuan morì il 25 luglio 1933. Due anni dopo il suo grande desiderio di vedere accogliere la sua comunità religiosa nella famiglia cistercense sarebbe stato accolto.

 

A quasi un secolo di distanza l’abate Lepori ha sottolineato nella cerimonia di oggi la forza tuttora «profetica di questo missionario fattosi monaco per andare al fondo della sua missione». «Padre Benoit – ha aggiunto – aveva capito che non basta portare l’annuncio di Cristo redentore fino ai confini geografici della terra; è necessario spingerlo fino agli estremi confini dei cuori. Là dove ogni uomo giace abbandonato in una vita senza senso se non incontra Gesù Cristo».

 

«Per promuovere un rinnovamento monastico e missionario nella Chiesa – ha concluso – più che di parole abbiamo bisogno di queste figure che hanno saputo affrontare il bisogno di Cristo del loro tempo con fedeltà creatrice».

 

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