Arte
Zerocalcare, il pericolo mortale di «Strappare lungo i bordi»

L’evento audiovisivo dell’anno è con probabilità – dopo Squid Game – Strappare lungo i bordi, opera di animazione Netflix in sei episodi firmata dall’oramai celeberrimo Zerocalcare.
Zerocalcare è un romano nato nel 1984. All’anagrafe si chiama in realtà Michele Rech, ponendosi quindi nel solco degli artisti romani che coprono un nome nordico con uno pseudonimo, come nel caso del grande Franco Lechner (1931-1987), in arte Bombolo, o la recentissimamente scomparsa Lina Wertmüller (1928-2021), il cui nome per esteso era Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich (in pratica aveva un nome lungo quanto gli improbabili titoli delle sue pellicole).
Zerocalcare è senza dubbio il più grande artista della sua generazione per quanto riguarda il fumetto e ora anche il cinema di animazione. Il suo è un successo davvero autentico: viene davvero dal basso, da un passaparola furioso dei suoi sostenitori (un insieme molto trasversale) che forse pure precede, o può ignorare, i social media.
Zerocalcare è senza dubbio il più grande artista della sua generazione per quanto riguarda il fumetto e ora anche il cinema di animazione
Viene dai centri sociali, un mondo che da decenni ha perso la sua spinta. La cosa è pienamente avvertibile nella sua opera, dove si dedica per lo più riferimenti della cultura popolare trasmessa dalla TV (Guerre Stellari, I Cavalieri dello Zodiaco, Game of Thrones, I Simpson, Ken il Guerriero), che con ogni evidenza vince per profondità e persistenza sulle mitologie gosciste.
La sparizione dell’anima dell’universo un tempo detto «antagonista» è stata drammaticamente visibile durante la pandemia, dove i ribelli libertari non hanno fiatato mentre si installava nelle loro città un vero Stato di polizia che ogni giorno che passa diventa sempre più distopico (botte dai celerini, libertà di parola proibita, pass digitali). Di fatto, del tema della pandemia in Strappare lungo i bordi non c’è traccia alcuna: il «centrosocialismo», con evidenza, non disponeva della capacità di calcolo per una cosa del genere, né la volontà di antagonizzare davvero il potere costituito quando esso mostra il suo vero volto.
Ad ogni modo, la serie è di altissima fattura. La sfida di trasporre in immagini in movimento la caratteristica principale dei fumetti dell’autore – ossia la visualizzazione immediata di tutti i pensieri del protagonista – è riuscita in pieno, forse in modo ancora più divertente rispetto alla carta. Si ride e si ghigna ad ogni piè sospinto.
Certo, un paio di cose stonano, forse in maniera imperdonabile. Della sigla simil-Riccardo Fogli ci chiediamo tuttora la significazione, ed è mandata in onda, apparentemente senza ironia, pure una canzone di Ron. Poi, la presenza, anche solo in voce, di Mastrandrea… Ma perché? Perché?
Del tema della pandemia in Strappare lungo i bordi non c’è traccia alcuna: il «centrosocialismo», con evidenza, non disponeva della capacità di calcolo per una cosa del genere, né la volontà di antagonizzare davvero il potere costituito quando esso mostra il suo vero volto
La serie ha fatto scattare un paio di polemiche sui giornali mainstream. La prima, la più stupida, era sul persistente uso del romanesco. La seconda invece riguardava una questione di modelli umani.
La seconda, lanciata dall’ex parlamentare radicale Daniele Capezzone, ora giornalista del quotidiano non allineato La Verità, «Voi con Zerocalcare, noi con Clint Eastwood. A ciascuno il suo, e ciascuno contento: chi con la lagna e il disagio come dimensione esistenziale; chi invece con la lotta, la sfida, l’affermazione dell’individuo contro ogni potere». Lo Zerocalcare risponde: «A me me fa volà che DANIELECAPEZZONE se sente come CLINT EASTWOOD». Non sappiamo bene se ci sua qualche allusione che non capiamo. Tra gli utenti di Twitter, scroscianti applausi.
A me me fa volà che DANIELECAPEZZONE se sente come CLINT EASTWOOD https://t.co/5tLk2jyyFD
— zerocalcare (@zerocalcare) December 3, 2021
Nella storia, a Biella i genitori della ragazza suicida hanno allestito per la «cerimonia funebre» la sua palestra di Boxe
Tuttavia vorremo qui parlare di qualcosa di più serio.
Gli episodi sono essenzialmente costruiti su due livelli, che peraltro non si incollano benissimo fra loro: da una parte una serie di gag sul micromondo del ragazzo, con discorsi che vanno dalla sporcizia del bagno degli uomini alla sporcizia del suo divano, passando per il dolore di deludere la propria maestra alle elementari.
A questi segmenti, divertenti e autoconclusivi, è agglutinata la storia principale, che (SPOILER) è il viaggio, anche questo di minimalismo disperato, da Roma a Biella per andare al «funerale» di un’amica, potenzialmente una morosa, morta suicida.
E in questo frangente che si pongono, per chi ha presente di cosa si sta parlando, dei problemi di non poco conto.
Riteniamo questa cosa – le esequie di un suicida celebrate in qualsiasi forma, nella palestra di un centro sociale o in una cattedrale della fu religione cattolica – un pericolo estremo per la società, un rischio mortale e concreto per tante persone
Un giornale romano lo ha intervistato titolando «È una storia autobiografica, tranne il suicidio». Dice che il personaggio di Alice, la ragazza suicida al centro dell’intreccio, è immaginario. Noi tuttavia ricordiamo un suo fumetto, uno dei primi, che cercava di elaborare la morte di un’amica anoressica. Non sappiamo se si trattai di quello. «Non avevo voglia di raccontare una persona specifica per non lederne la privacy. Evidentemente, però, nella vita mi sono trovato a vivere delle situazioni molto simili» chiosa.
Nella storia, a Biella i genitori della ragazza hanno allestito per la «cerimonia funebre» la sua palestra di Boxe, che sembra uno di quei luoghi che, come da moda recente (a sinistra ma non solo), vengono «okkupati» per questioni sportive.
La suicida, viene detto orgogliosamente al microfono, non era una vittima. Il protagonista si interroga sulla mancata solennità della situazione.
Vengono fatti ascoltare gli audio della ragazza con i bambini per cui faceva la volontaria. Canzoni. Ricordi. È una festicciola, anche affollata, in onore di quella che si è uccisa.
Se c’è una cosa detta giusta dall’OMS è che il suicidio è contagioso. Il suicidio infetta chi gli sta intorno. Il suicidio può propagarsi come una vera epidemia
Il suicidio non viene condannato, da nessuno. Per qualche minuto, qualche domanda viene posta. Ma in fondo, pare di capire da altri discorsi che vengono fatti tra gli amici, è una sua scelta. Così come quella di aver voglia di fare sesso, o di mangiare del gelato a tarda notte, o di provare un’esperienza «lella», cioè lesbica.
Ha deciso di andarsene, punto. Non dobbiamo stare qui a chiederci il motivo. Celebriamone, tutti insieme, l’esistenza – compresa forse anche quest’ultima scelta. Si ricava questa impressione. E dobbiamo essere sinceri, è quella che si ha da qualsiasi funerale conciliare fatto ad un morto suicida.
Riteniamo questa cosa – le esequie di un suicida celebrate in qualsiasi forma, nella palestra di un centro sociale o in una cattedrale della fu religione cattolica – un pericolo estremo per la società, un rischio mortale e concreto per tante persone.
Non stiamo parlando a caso. Perché se c’è una cosa detta giusta dall’OMS è che il suicidio è contagioso. Il suicidio infetta chi gli sta intorno. Il suicidio può propagarsi come una vera epidemia.
Se il semplice «parlare» di un suicidio come fatto di cronaca fa aumentare i suicidi, giustificare un morto suicida, che effetto può avere? E fare della sua morte una celebrazione?.
Ma non è solo l’OMS. Questa semplice verità, e cioè che il suicidio può contagiare, è conosciuta, in teoria, perfino dall’Ordine dei Giornalisti, che sul suicidio mette in piedi corsi deontologici:
«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita».
Se il semplice «parlare» di un suicidio come fatto di cronaca fa aumentare i suicidi, giustificare un morto suicida, che effetto può avere? E fare della sua morte una celebrazione festosa?
Ne parlo perché ho potuto testimoniare in prima persona il fenomeno: i suicidi si possono presentare sotto forma di cluster, di «grappoli» devastanti. Ne avevo scritto su un vecchio articolo pubblicato anni fa su Renovatio 21, «La vita senza il dolore». Ciò che vi scrivevo è ancora vivissimo dentro di me.
Organizzarono un funerale in chiesa per A. e io sapevo che era la cosa sbagliata, per il semplice fatto che la mia sensibilità tradizionale mi porta a sapere che, prima del Concilio Vaticano II, i funerali dei suicidi, saggiamente, non venivano celebrati. O almeno, non si facevano messe pubbliche
C’è stato un anno in cui nel giro di poco tempo ho visto morire per suicidio una sequela di amici e conoscenti. Fu sconvolgente: sparivano uno dopo l’altro. Alcuni casi in teoria non erano collegabili fra loro. Altri, invece, sì.
Iniziò A., e fu straziante. Ricordo la telefonata a tarda sera degli amici, che chiamavano dalla camera mortuaria. «Cosa?». «A. non c’è più». Ti si spalanca davanti il vuoto. Il vuoto poi comincia a vorticare. Perché? Lo sai perché. Forse non lo sai. E poi potevi fare qualcosa, potevi vederlo più spesso, anche se non c’era mai l’occasione, ormai. Ma no, non potevi fare nulla. Ecco, adesso vuol dire che a Natale quest’anno non lo rivedrai? Vuol dire che non ti farà una di quelle sue telefonate con la sua parlata irresistibile? Ma come è possibile? Poi, per tutta la notte, sentimenti indefinibili. Nei giorni successivi, pure.
Organizzarono un funerale in chiesa per A. e io sapevo che era la cosa sbagliata, per il semplice fatto che la mia sensibilità tradizionale mi porta a sapere che, prima del Concilio Vaticano II, i funerali dei suicidi, saggiamente, non venivano celebrati. O almeno, non si facevano messe pubbliche.
Ma la Chiesa, con il Concilio, è cambiata: l’Inferno è stato di fatto «svuotato». Quindi i peccati, compresi i suicidi, non potevano che aumentare a dismisura: cosa ti ferma, davanti all’errore, se non c’è il timore della punizione tremenda? Questa è la chiesa che rifiuto, e che combatterò sempre, e che accuso anche di tutte queste morti, che sono milioni.
Non fu solo quello il motivo per cui decisi, con dolore, di non partecipare. Avevo appreso che gli amici intendevano fare uno show completo: letture belle, e poi via con l’ascolto delle musiche preferite di A., che era un cultore, con tanto di spiegazione dal pubblico di altro amico musicofilo. Scelsi di stare lontanissimo da tutto questo: andai ad una conferenza in Centro Italia, di quelle dove si parla delle devastazioni del Concilio Vaticano II, e ricordai, con un accenno anonimo, A., vittima di un mondo dove la religione non ti racconta più cosa è il Bene, e che dono infinito sia la vita umana. Trovai lì un sacerdote tradizionista, un grande prete che riuscì a capire la situazione. Chiesi di dire una messa per l’anima di A., pensando così di aver chiuso nel modo giusto la storia.
La questione, tuttavia, non riguarda questi cartoni animati. È l’aria che essi respirano, che respiriamo tutti. È la Necrocultura. È la legge della realtà del secolo, è il sistema operativo del mondo moderno: tutto deve tendere alla distruzione dell’essere umano, alla sua umiliazione alla sua dannazione
E invece, mi sbagliavo terribilmente.
Poco dopo, sarebbe stata la volta di R.
Con R., che conoscevo meno, c’era una relazione famigliare. Lui si definiva come un cugino acquisito, e chiamava scherzosamente mia sorella «cugi». Mi telefonarono di pomeriggio, mentre lavoravo. Mi fu impossibile continuare qualsiasi attività. Mi fu impossibile, parimenti, non pensare ad A., non risentire tutto quel dolore, ora maggiorato, divenuto ancora più irrazionale.
Poi la realizzazione. R. era andato ai «funerali» musicali di A. Come non pensare che, nella mente di qualcuno che ospita l’oscuro pensiero, possa scattare quel clic: se me ne vado sarò ricordato dai miei amici tutti uniti, felici, messi insieme dalle cose che ci piacciono, da un senso di affetto collettivo quasi liberatorio, catartico. La mia festa più bella – senza di me. Clic.
È chiaro che sono solo le mie stupide ipotesi. Non ho il potere di conoscere cosa c’era dentro all’anima in quel momento. Tuttavia, sulla contagiosità del suicidio, come ammesso dall’OMS e pure in teoria dalla deontologia dei giornalisti, ci sono elementi concreti.
Potete capire, quindi, perché posso ritenere pericolosa la serie di Zerocalcare. Il funerale bordo ring mi hanno ricordato A. e R. E il nulla infinito che se li è portati via, e che, senza che qualcuno faccia qualcosa, continua ad avanzare disintegrando il nostro mondo e portandosi dietro tante anime.
La situazione attuale: la Cultura della Morte è uscita allo scoperto e ci ha circondato e imprigionato
La questione, tuttavia, non riguarda questi cartoni animati. È l’aria che essi respirano, che respiriamo tutti. È la Necrocultura. È la legge della realtà del secolo, è il sistema operativo del mondo moderno: tutto deve tendere alla distruzione dell’essere umano, alla sua umiliazione alla sua dannazione.
Chi doveva difenderci, non è sparito: si è messo dalla parte dei demoni.
«L’Ordine dei giornalisti e l’OMS, ho detto all’inizio, quanto meno sulla carta si preoccupano del carattere contagioso del suicidio; la Chiesa di oggi invece no» scrivevo tre anni fa.
Potete, se volte, leggere il pezzo dedicato alla serie mandato in stampa dal giornale dei vescovi, Avvenire. La questione è totalmente ignorata (così come una microsequenza con un Armadillo prete che celebra dicendo volgarità: non sappiamo se un tempo sarebbe stata ritenuta legale). Ai cattolici di oggi, cosa interessa? Di fatto, cosa li divide dai centri sociali e dai loro «riti» improbabili?
«Perché la Chiesa di oggi è davvero un ente stupido quanto assassino» sbraitavo nel vecchio articolo. «Perché la Chiesa di oggi è il vero problema, il vero nemico dell’Umanità e del Dio della Vita».
Terminavo con un discorso filosofico sul dolore che integra la vita, da bisogna voler celebrare tutta intera, perché la vita è qualcosa di superiore al dolore e al piacere, è ciò che li contiene, e che, nella sua forza divina, va avanti anche senza di essi.
Tanti altri, da quando è iniziata questa storia, sono morti. Questo è un fatto che abbiamo accettato. Solo, ricordiamoci di non celebrarlo. Ricordiamoci di combatterlo.
Blah blah. Tutto giusto, per carità. Ma guardo alla situazione attuale: la Cultura della Morte è uscita allo scoperto e ci ha circondato e imprigionato.
In questi due anni, resistere alla lusinga della tenebra per molti è diventato difficile. Lo sappiamo dalle statistiche. L’impianto dello Stato globale pandemico ha avuto questo effetto, e forse era nei programmi. Di certo, qui la gerarchia cattolica ha dato una grossa mano, mostrandosi programmaticamente impotente verso un organismo acellulare che ha chiuso i suoi templi e cancellato i suoi riti – oltre ad aver introdotto un sacramento nuovo, quello della siringa mRNA.
Tanti altri, da quando è iniziata questa storia, sono morti. Questo è un fatto che abbiamo accettato.
Solo, ricordiamoci di non celebrarlo. Ricordiamoci di combatterlo.
Roberto Dal Bosco
Immagine di Peterbandle85 via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-ND 3.0)
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Ode all’equinozio di primavera

Oggi, 21 marzo, è il giorno dell’equinozio.
Tecnicamente, significa che la rivoluzione ha portato il sole allo zenit rispetto all’equatore. Tecnicamente, questo momento è stato raggiunto ieri, 20 marzo, alle ore 22:24.
Questo è il giorno in cui il giorno è in equilibrio con la notte. Questo è il giorno in cui inizia la primavera – il momento di rinnovamento, di rigenerazione della vita. Anche se il mondo moderno non vi fa più caso, l’importanza di questo giorno è conosciuta, e misteriosamente tramandata, nei millenni della storia umana.
Come ad ogni equinozio, Renovatio 21 vuole scrivere qualcosa. O meglio, lasciare la parola a quei pochi che hanno voluto, nel corso della storia, significare sulla cara la meraviglia di questo momento.
Questa poesia si chiama proprio L’Equinozio di Primavera («The Spring Equinox»). L’autrice è Anne Ridler (1912-2001), poetessa inglese che aveva lavorato con T.S. Eliot. Questi versi sono stati scritti alla fine degli anni Trenta.
Concediamoci questo momento di meditazione estetica. Concediamoci questa «pausa tra il sonno e la veglia».
Sospendiamoci in questa metafisica del passaggio, quando «il sole oscilla sulla linea equinoziale», e la nostra anima può permettersi per un attimo di concepire la bellezza del creato e dei suoi cicli.
Now is the pause between asleep and awake: Two seasons take A colour and quality each from each as yet. The new stage-set Spandril, column and fan of spring is raised against the winter backdrop. Murrey and soft; Now aloft The sun swings on the equinoctial line. Few flowers yet shine: The hellebore hangs a clear green bell and opulent leaves above dark mould; The light is cold In arum leaves, and a primrose flickers Here and there; the first cool bird-song flickers in the thicket. Clouds arc pale as the pollen from sallows; March fallows are white with lime like frost.
This is the pause between asleep and awake: The pause of contemplation and of piece, Before the earth must teem and the heart ache. This is the child’s pause, before it sees That the choice of one way has denied the other; Must choose the either, or both, of to care and not to care; Before the light or darkness shall discover Irreparable loss; before it must take Blame for the creature caught in the necessary snare: Receiving a profit, before it holds a share. |
Ora è la pausa tra il sonno e la veglia: due stagioni prendono ancora un colore e una qualità ciascuna da ciascuna. Sullo sfondo invernale si erge la nuova scenografia con pennacchio, colonna e ventaglio di primavera. fulva e morbida; Ora in alto Il sole oscilla sulla linea equinoziale. Pochi fiori brillano ancora: l’elleboro pende un chiaro campanello verde e foglie opulente sopra la muffa scura; La luce è fredda nelle foglie di arum, e una primula guizza qua e là; il primo fresco canto degli uccelli guizza nella boscaglia. Le nuvole sono pallide come il polline dei salici; I maggesi di marzo sono bianchi di calce come il gelo.
la pausa della contemplazione e del silenzio, prima che la terra brulichi e il cuore soffra. Questa è la pausa del bambino, prima che veda che la scelta di un modo ha negato l’altro; Deve scegliere l’uno o l’altro, o entrambi, di preoccuparsi e non preoccuparsi; Prima che la luce o l’oscurità scoprano una perdita irreparabile; prima che debba prendersi La colpa per la creatura presa nella trappola necessaria: ricevere un profitto, prima che detenga una quota |
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La morte di Kenzaburo Oe, lo scrittore premio Nobel testimone di Hiroshima

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Scomparso all’età di 88 anni. Nel 1994 fu il secondo giapponese a ricevere il prestigioso riconoscimento per la letteratura. Dopo l’incidente di Fukushima si era fatto promotore di una campagna che chiedeva la chiusura degli impianti nucleari. Forte nelle sue opere anche la capacità di descrivere i drammi interiori dell’uomo di oggi.
La casa editrice Kodansha ha reso nota la morte dello scrittore giapponese Kenzaburo Oe, Premio Nobel per la letteratura nel 1994. Aveva 88 anni e il decesso avvenuto il 3 marzo sarebbe legato all’età.
La sua è stata una carriera di scrittore lunga e prolifica, segnata da riconoscimenti prestigiosi: il suo fu il secondo Nobel per la letteratura assegnato al Giappone dopo quello del 1968 a Yasunari Kawabata. La sua opera è stata influenzata da due eventi precisi: l’esperienza del conflitto vissuta da bambino (aveva dieci anni quando il Giappone dichiarò la resa il 14 agosto 1945) e la disabilità del figlio Hikari oggi 59enne, apprezzato compositore.
Le paure suscitate dalla guerra hanno segnato la sua memoria, a partire – lui stesso raccontava – da quella di non riuscire a mostrare la fedeltà e lo spirito di sacrificio allora richiesti in Giappone anche ai più piccoli, ma anche dall’esperienza delle bombe atomiche sganciate sul suo Paese che hanno più volte ispirato i suoi lavori. Un ricordo determinante per alcuni suoi libri, come Note su Hiroshima del 1965 e poi Note su Okinawa del 1970.
La sofferenza propria e quella del popolo giapponese durante il conflitto e per le sue conseguenze, permea molti suoi scritti ed è alla base del suo convinto impegno pacifista e anti-nuclearista. Al punto che dopo l’incidente dei reattori nella centrale di Fukushima-2 nel 2011 si fece promotore di una campagna che, con milioni di sottoscrizioni, chiedeva la chiusura degli impianti nucleari.
«Ripetere con la costruzione di reattori nucleari l’errore di mostrare la stessa mancanza di rispetto verso la via umana è il peggiore tradimento possibile della memoria delle vittime di Hiroshima», dichiarò alla rivista The New Yorker, dieci giorni dopo che il blocco dei sistemi di raffreddamento provocato dal fortissimo terremoto e dall’ancora più disastroso tsunami dell’11 marzo di 12 anni fa innescasse il rischio di una nuova catastrofe nucleare.
Oe ha anche pubblicato opere più introspettive, autobiografiche, a partire da Un’esperienza personale del 1964, con la descrizione di un uomo incapace di accettare la nascita di un figlio cerebroleso in un contesto di una famiglia in crisi.
La lunga e prolifica carriera di Oe era iniziata nel 1957, quando era ancora studente di letteratura francese all’Università di Tokyo, con la pubblicazione di La preda, cruda visione della sorte di un aviatore afro-americano catturato in un villaggio giapponese che gli portò l’assegnazione del Premio Akutagawa l’anno successivo a soli 23 anni.
Per il pubblico mondiale Il grido silenzioso pubblicato in Giappone nel 1967 e tradotto successivamente in molte lingue, è stato il suo, dirompente, biglietto da visita, mostrando le caratteristiche sottolineate nella motivazione del Nobel, assegnato nel 1994: la sua capacità di «creare con forza poetica un mondo immaginario dove vita e mito si condensano per formare una immagine sconcertante della difficile condizione umana di oggi».
Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne.
Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni
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Rileggere 1984 oggi

Negli ultimi tre anni si è parlato molto di distopie, di incubi che si avviano purtroppo a divenire realtà, superando l’immaginazione romanzesca.
Il capostipite indiscusso di questa narrativa di anticipazione, delle utopie negative, è indubbiamente 1984 dell’inglese George Orwell. Il titolo 1984 era un piccolo espediente letterario: l’inversione delle ultime due cifre, in quanto scritto nel 1948. La storia ci mostra uno scenario di mondo futuro dominato da un totalitarismo cupo, terribile, molto simile allo stalinismo ma, in qualche modo, anche ai fascismi, una sorta di sintesi di quelli che erano stati i totalitarismi dominanti negli anni Trenta.
In quegli anni Orwell, pseudonimo di Eric Blair, inglese nato nelle colonie, esattamente nel Bengala, era un giornalista militante nella sinistra britannica andato volontario nella guerra di Spagna, dove potette assistere agli orrori di quel conflitto, compiuti non solo dai franchisti, ma anche dai repubblicani, che si accanivano soprattutto contro religiosi e religiose innocenti, arrivando a fare tra di essi circa settemila vittime.
Tornato in Inghilterra totalmente disincantato, Orwell cercò di raccontare le storture delle ideologie, a cominciare da quella comunista, sotto forma di racconto allegorico, quasi una fiaba, sul modello di Jonathan Swift. Nel 1945 aveva pubblicato La fattoria degli animali, una satira brillante e dolorosa del comunismo sovietico. Infine, portando alle estreme conseguenze l’avversione per il totalitarismo, pubblicò 1984.
La condanna di tutte le ideologie totalitarie garantì maggior fortuna a questo libro, considerato, nella letteratura utopistica del Novecento, il classico per eccellenza.
Gli elementi positivi e affascinanti di questo romanzo, però, stanno nell’esaltazione dell’individuo che si oppone al sistema, un uomo comune che si erge, con la sua piccola e banale vita, a contestare, a fermare il potere devastante del Grande Fratello.
Orwell non ha una prospettiva religiosa, bensì scettica, che parte dal desiderio di libertà dell’uomo, del piccolo uomo comune che cerca di sopravvivere al peso schiacciante del controllo esercitato non solo a livello sociale, ma anche individuale, dal potere rappresentato da quella espressione – Grande Fratello – ovvero un potere impersonale, senza nome e senza volto, semplicemente l’occhio che ti scruta ovunque vai, in tutti i particolari della vita. Un antidoto a questo potere è la memoria. La memoria contro la dimenticanza, che è invece uno degli strumenti del Grande Fratello.
L’incipit di 1984, che si apre sulla stesura di un diario, porta immediatamente in primo piano il tema della memoria, vero e proprio leitmotiv del romanzo. L’opera di Orwell si interroga continuamente, quasi ossessivamente sul ricordare, indagando a fondo il suo valore, il suo rapporto con la realtà e i suoi aspetti problematici, prime fra tutti le difficoltà che comporta ogni tentativo di recuperare il passato e inserirlo in una continuità di significato che coinvolga anche il presente e il futuro.
Il super-stato di Oceania, vero e proprio protagonista del romanzo più che semplice sfondo all’azione, è un condensato degli incubi e delle paure della generazione uscita dalle due Guerre mondiali e dall’esperienza dei grandi totalitarismi europei.
Oceania, vera e propria anti-Utopia è una società post-totalitaria, in cui il Partito dominante è davvero riuscito ad assicurarsi un potere assoluto ed eterno perché, in maniera vampiresca, ha privato il mondo della sua natura materiale e tangibile e lo ha trasformato in un intrico di narrazioni autoreferenziali, una sorta di «realtà virtuale», costruita in laboratorio, che prende il posto di quella reale.
Questo vale innanzitutto per l’atteggiamento del governo di fronte alla storia. La storia viene totalmente riscritta, manipolata, censurata, trasformata come in un laboratorio alchemico. L’obiettivo del gruppo dominante non è semplicemente alterare la storia in modo che rifletta i suoi canoni e i suoi giudizi, ma eliminarla tout court come possibile criterio di riferimento.
Ogni totalitarismo è, prima e al di là di ogni colore politico e ideologico, un enorme laboratorio per la trasformazione della natura umana e la creazione di una sorta di nuova specie. È proprio per questo motivo che il lettore di 1984 non può non assistere con trepidazione e angoscia alla sorte del protagonista, Winston Smith, l’ultimo uomo da riassorbire dal corpo sociale senza volto come una cellula tumorale.
Orwell si chiede insieme a Winston Smith quale memoria sia possibile in un mondo che si è sbarazzato del tempo e della verità, se quest’ultima continui a esistere, anche laddove è calpestata e negata, o se, di fronte a un potere che si arroga il diritto di affermare che due più due fa cinque, la risposta non possa davvero soltanto essere il «completo silenzio». Un silenzio che può essere rotto dall’incontro tra persone.
Orwell sembra aver profetizzato l’odierna ossessione per il politicamente corretto nel linguaggio, che porta spesso a esiti grotteschi. «Chi controlla il passato controlla il futuro, e chi controlla il presente controlla il passato», recita uno degli slogan del Partito.
L’obiettivo del Potere è, in ultima analisi, il completo controllo del pensiero e della coscienza. In altre parole, giungere a un pensiero unico. E se uno non si adegua, scattano le sanzioni per quello che viene definito lo «psico-reato». La colpa di pensare con la propria testa, di usare la propria coscienza anziché quella immateriale, collettiva. La coercizione usata dalla dittatura è subdola, apparentemente non violenta. Non è la brutale violenza del Nazismo e dello Stalinismo, ma non è meno efficace nel voler distruggere l’uomo.
E anche se la conclusione del libro è drammatica e può indurre al pessimismo, in realtà queste pagine hanno il pregio non da poco di tenere deste le coscienze di chi legge.
Paolo Gulisano
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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