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Mons. Viganò: «chiesa bergogliana complice dell’élite globalista, verificare l’esistenza di un piano deep state per l’eliminazione di Benedetto XVI»

Monsignor Carlo Maria Viganò ha rilasciato una dense intervista ad Aldo Maria Valli, il vaticanista animatore del blog Duc in Altum, in cui indica le possibili correlazioni tra i poteri occulti e il papato di Bergoglio.
L’idea di una correlazione tra Deep State e quella che il prelato chiama Deep Church è ora confortata dall’esplosione dello scandalo USAID, dove si è scoperto come l’agenzia – che è di fatto un braccio economico, con un budget di 50 miliardi di dollari l’anno (cioè, un miliardo a settimana!), per le operazioni estere e non solo di dipartimento di Stato USA e CIA – finanziasse ogni sorta di gruppo, anche in odore di estremismo, e pure quantità di grandi istituzione mediatiche in tutto il mondo, di fatto controllando il consenso della stampa del pianeta.
«Spero tanto che il nuovo direttore della CIA vorrà verificare l’esistenza di un piano del deep state per l’eliminazione di Benedetto XVI così da avere un emissario di Davos sul Soglio di Pietro» dice a Valli a fine intervista monsignor Viganò. «Realtà innegabile, per quanto tremenda e sconvolgente, è la complicità della chiesa bergogliana con il sistema criminale organizzato dall’élite globalista: dobbiamo prendere atto che il tradimento dei governanti nei confronti dei propri concittadini è speculare al tradimento dei Pastori verso il proprio gregge».
L’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America torna ad attaccare la lettera, di chiaro intento anti-trumpiano, inviata da Bergoglio alla Conferenza Episcopale USA. «Come tutto quello che esce dalla bocca di Bergoglio, anche queste sue accuse al governo Trump sono false e deliranti. Non c’è nessuna deportazione di massa. Piuttosto, c’è la precisa volontà di porre fine ai flussi migratori, che le Amministrazioni precedenti avevano programmato, favorito e incoraggiato».
Monsignor Viganò pensa, più che alla deportazione, al tema centrale di quanto sta avvenendo, cioè la sostituzione di fatto della popolazione – fenomeno vero tanto per l’America quanto per l’Europa.
«La deportazione (…) c’è stata in senso contrario, durante le Amministrazioni Clinton, Obama e Biden, escludendo a priori progetti mirati di cooperazione internazionale per aiutare le popolazioni bisognose nei rispettivi Paesi d’origine, focalizzando invece ogni sforzo – anche contro la legge – per incrementare il piano di sostituzione etnica» dice l’arcivescovo.
«Su questa migrazione forzata, resa possibile dalla complicità di organizzazioni internazionali e dalla criminalità organizzata che gestisce la tratta di esseri umani, hanno lucrato vergognosamente tutti coloro che oggi si stracciano le vesti perché il loro business è finito».
Alla base dell’inaudito testo in cui di fatto il papa dice ai vescovi americani di schierarsi contro l’amministrazione Trump vi è secondo Viganò una manipolazione della dottrina cattolica, utile a rinsaldare il business immigratorio alla cui mangiatoia vari enti cattolici partecipano ovunque nel mondo.
«La lettera di Bergoglio è un coacervo di falsità e di inganni e tradisce il panico dei mercenari e la rabbia dei loro finanziatori. Bergoglio è arrivato a inventarsi una nuova dottrina per imporre come dovere morale “l’accoglienza degli immigrati”, dalla cui gestione ottiene miliardi di finanziamenti pubblici e mediante la quale egli si accredita come principale interlocutore dell’élite globalista ed esecutore dell’agenda woke. Egli strumentalizza il magistero di Pio XII – decontestualizzando e stravolgendo le sue parole – perché citando un Papa non sospetto di contaminazioni moderniste o conciliari, spera di ottenere l’ascolto di quei fedeli che non ascoltano lui».
«Occorre comprendere l’operazione fraudolenta di Bergoglio: egli vuole portare lo scontro che oppone la deep church immigrazionista e woke all’Amministrazione Trump su un altro piano, “dogmatizzando” – per così dire – l’accoglienza dei clandestini e forzando così i Cattolici americani a vedere in Trump un nemico della Chiesa Cattolica. Cerca insomma, secondo il modus operandi che lo contraddistingue, di creare un avversario per togliere al Presidente Trump il sostegno dell’elettorato cattolico».
Tuttavia, il progetto bergogliano per il cattolicesimo americano è destinato, ancora una volta, a finire nel nulla, suggerisce il prelato lombardo.
«Questa operazione disonesta serve anche per rimettere al centro del dibattito politico e sociale americano un episcopato ampiamente screditato a causa degli scandali sessuali e finanziari che sinora lo hanno visto totalmente asservito all’establishment del partito democratico. Il vero scontro è tra il conservatorismo politico – trumpiano – in cui si identifica la maggioranza degli americani, cattolici compresi, e l’ultra-progressismo della deep church bergogliana. I cattolici americani hanno però compreso la frode!»
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Siamo ad un punto in cui un presidente degli USA opera a favore della vita umana più di un romano pontefice.
«Mentre Bergoglio per obbedire ai suoi padroni globalisti scaglia anatemi contro chi “costruisce muri”, il presidente Trump ha annunciato – tra le altre misure che salutiamo con profonda soddisfazione – il rientro degli Stati Uniti nella Geneva Consensus Declaration, che difende il diritto alla vita di tutti, ribadisce l’importanza della famiglia e afferma che non esiste alcun “diritto” internazionale all’aborto», continua Viganò.
«Suscita sgomento come gli appelli di Bergoglio sulla “dignità infinita di tutti” escludano ostinatamente i bambini indifesi massacrati con l’aborto, le vittime della predazione degli organi e delle mutilazioni per la cosiddetta transizione di genere, le madri usate come merce per la maternità surrogata, i giovani corrotti dalle perversioni woke, le masse di minori che alimentano il racket della prostituzione o finiscono in una villa di Beverly Hills per soddisfare le depravazioni esecrande dell’élite pedofila».
Si tratta di una accusa già formulata da monsignore ancora di recente, e che riprende le voci, ora sempre più consistenti, sulla quantità immane di minori che con l’immigrazione vengono trafficati dagli Stati, per poi sparire misteriosamente dai radar.
Viganò si muove quindi nel suo classico attacco a Davos e al suo pensiero globalista, con il Grande Reset invocato dal World Economic Forum definito dall’arcivescovo cattolico come uno «sterminio».
«Prelati bergogliani e vescovesse» accusa monsignore «si mostrano tra loro d’accordo su due punti: l’apostasia nelle cose della Fede e la brama di denaro e potere. Il loro ecumenismo è alla fine motivato solo dalla volontà di spartirsi il bottino, e dinanzi a questo tutti i dogmi della Fede possono essere cambiati. Ci parlano di povertà anche dai pulpiti – rielaborando in chiave pauperista il “Non avrai niente e sarai felice” di Klaus Schwab – e si rendono complici di chi ci rende poveri con speculazioni e frodi scandalose; nel frattempo lucrano spudoratamente sulla miseria e sulle crisi che provocano».
«Così, mentre i fedeli venivano terrorizzati dalla propaganda psicopandemica e non potevano andare a Messa se non erano vaccinati, la Santa Sede riceveva generose donazioni da BigPharma per ospitarne i convegni in Vaticano, e Bergoglio si improvvisava piazzista di vaccini nocivi e mortali, prodotti con feti umani abortiti, col placet dell’ex-Sant’Uffizio. Un atto d’amore, diceva (…) intanto Bergoglio parlava già di “Madre Terra” – guarda caso, la Pachamama – di “peccati contro l’ambiente”, dell’urgenza di passare alle energie rinnovabili» tuona l’arcivescovo.
Viganò ne ha anche per vaccino e pandemia, confermando le posizioni tenute ancora all’inizio della catastrofe COVID, che il prelato considera la conferma della «matrice satanica del piano globalista».
«La prostituzione morale (…) non indietreggia dinanzi a nulla, se ci sono soldi in ballo: negli Stati Uniti ci sono oltre 150 cliniche “cattoliche” che eseguono interventi di transizione di genere (mutilazioni genitali) finanziati dal governo, e Dio solo sa quanti soldi hanno preso gli ospedali cattolici durante la farsa psicopandemica, per uccidere i pazienti con terapie letali, o per inoculare un siero genico mortale o gravemente invalidante. D’altra parte, per ogni “vaccino” somministrato c’era un bonus che incoraggiava e legittimava qualsiasi aberrazione: ed è stato così ovunque, con un unico copione sotto un’unica regia».
L’arcivescovo accusa la chiesa bergogliana di aver tradito la vera Chiesa come Giuda Iscariota ha tradito Nostro Signore Gesù Cristo.
«I finanziamenti per l’attuazione dell’Agenda 2030, per la propaganda woke o per la sostituzione etnica sono i nuovi trenta denari con cui il nuovo Sinedrio globalista paga questi nuovi Giuda perché consegnino non più il Signore, ma i Suoi fedeli, i Suoi ministri, il Suo Corpo Mistico. E come l’Iscariota – che significativamente Bergoglio propone a modello – sono anch’essi apostoli, ancorché rinnegati, ma sempre in un’ideale “successione apostolica” con il mercator pessimus».
Secondo Viganò, vi sarebbe già una pista concreta da seguire sull’interferenza del Deep State americano – con il suo corollario partitico dei Democrat – nel processo che potrebbe aver portato al conclave 2013.
«Un fatto è comunque palese: tutti i punti programmatici che le mail del consigliere di Hillary Clinton, John Podesta, auspicavano come riforme di una “primavera della Chiesa” trovano pedissequa esecuzione nell’azione di Bergoglio e dei suoi accoliti. Spero tanto che il nuovo Direttore della CIA vorrà verificare l’esistenza di un piano del Deep State per l’eliminazione di Benedetto XVI per avere un emissario dell’élite di Davos sul Soglio di Pietro».
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Il prelato, nel rimirare questo panorama di disastro, ha tuttavia parole di speranza per il destino della Chiesa.
«È difficile, umanamente, pensare ad una via d’uscita pacifica e soprattutto a breve termine. Mi pare evidente che la società occidentale abbia ormai raggiunto quel livello di decadenza che solitamente prelude al tramonto di una civiltà. È già successo in passato, ad esempio con Roma, il cui impero si è dissolto a causa della corruzione e dei vizi dei suoi vertici. Si direbbe che il ruolo dell’Occidente sia esaurito, quantomeno di questo Occidente apostata e ribelle. Ma la Chiesa Cattolica non segue le dinamiche di un regno umano e ha una missione divina – e una divina assistenza – che le permettono di affrontare anche la passio Ecclesiæ già iniziata».
«Questa consapevolezza non ci deve indurre né a considerare la Chiesa come una società meramente umana, né ad attribuire alla Chiesa, che è santa, i peccati di cui si macchiano i suoi indegni ministri. Il male che vediamo intorno a noi va denunciato e combattuto, ma sempre nella persuasione che la Sposa dell’Agnello, per quanto umiliata, per quanto sfigurata dai suoi aguzzini, rimane l’unica Arca di salvezza in questo mondo».
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Dugin: la guerra per il nuovo ordine è dinanzi a noi

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La società del ricatto, della censura e della schedatura di massa. Renovatio 21 intervista Marcello Foa

Renovatio 21 ha incontrato in margine ad una conferenza ad Assisi Marcello Foa, giornalista che ha mosso i primi passi della sua carriera professionale ne Il Giornale diretto da Indro Montanelli. Foa è una figura che da anni opera nel mainstream massmediatico, già presidente della Rai Dal 26 settembre 2018 al 16 luglio 2021, quando fu nominato dall’allora governo gialloverde, per concludere il suo mandato con il governo tecnico di Mario Draghi.
Dottor Foa, partirei dal presente. La trasmissione in onda su Rai Radio Uno Giù la maschera, che la vedeva nella veste di conduttore insieme ad altri suoi colleghi, ha subìto uno stop improvviso. Questa chiusura l’ha colta di sorpresa o in un certo qual modo se lo aspettava?
È molto semplice. C’è stato un cambio alla direzione di Rai Radio Uno, il nuovo direttore è entrato in funzione e in Rai, essendo stato presidente, so cosa significa. Bisogna affrontare l’assalto dei partiti, ed è sempre così quando ci sono delle nomine. Davo quasi per certa una riconferma della mia trasmissione, perché aveva molta visibilità, avevamo molto equilibrio nell’approcciare gli argomenti e con me c’erano giornalisti e intellettuali di diverso orientamento politico che garantivano un pluralismo: Peter Gomez, Alessandra Ghisleri, Giorgio Gandola e all’inizio anche Luca Ricolfi.
Il nuovo direttore Nicola Rao, che conosco da tempo, mi telefona e mi dice: «Ti chiamo tra quindici giorni e poi facciamo il punto della situazione». Sparito [ride]! Nel frattempo ho capito che tirava una brutta aria e ho cercato di capire e sensibilizzare la questione, ma ho incontrato un muro di gomma. Nessuna interlocuzione costruttiva, nessun tipo di spiegazione. Finché arrivo a fine agosto quando iniziano ad arrivare segnali molto netti che non ero in palinsesto. Un po’, a quel punto, lo avevo intuito. Mi aspettavo però che perlomeno avessero la cortesia di giustificare la decisione. A quel punto ho deciso di uscire pubblicamente, rompendo gli schemi dell’establishment romano, perché di solito uno non esce così, ma ho ritenuto giusto farlo.
Il «protocollo Rai» non prevede questo tipo di comunicazione?
No, ma diciamo così: può entrare nella logica dello scambio o del ricatto [ride], parafrasando il mio ultimo libro… ma io questa logica la rifiuto e sono uscito con un video nei miei social dove non mi sono messo a inveire, ma ho usato toni pacati, ma molto oggettivo perché ho descritto quello che accadeva. Il messaggio che viene mandato all’opinione pubblica è sbagliato per il centrodestra. Vengono premiate le voci di partito, mentre le voci libere, che interpretano altre sensibilità e che di certo non erano strumentalizzabili né dall’opposizione, né dal governo, anziché essere valorizzate a testimonianza del buon servizio pubblico, vengono punite.
Purtroppo questa è la morale di questa storia e mi auguro che qualcuno faccia delle opportune riflessioni, anche se non so se accadrà [ride].
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Questa decisione di chiudere il suo programma appare quantomeno strana per un governo di centro destra dove è presente una forza politica come la Lega che all’epoca di quel governo giallo verde, da tutti etichettato come sovranista e di certo apparentemente voltato verso destra, la portò a essere nominato Presidente della Rai.
Le spiego come andò. Fu molto semplice. A quel tempo io lavoravo in Svizzera, avevo un mio blog su Ilgiornale.it, continuavo a svolgere il mio ruolo di opinionista ed ero stimatissimo sia da Gianroberto Casaleggio del Movimento Cinque Stelle, sia da Matteo Salvini. A un certo punto erano in un empasse per trovare un nome per il nuovo presidente. A quell’epoca il M5S e Lega — sembra un tempo lontanissimo – erano entrambi intenzionati e desiderosi di dare una ventata di vero cambiamento. In questa misteriosa alchimia individuano in me la persona giusta per dare un segnale forte di cambiamento, benché il ruolo di presidente non sia quello di amministratore delegato.
La Rai la gestisce l’amministratore delegato. Il presidente ha un ruolo di rappresentanza molto forte, ma ha pochi poteri reali. Fatto sta che mi chiamarono, non perché ero l’espressione di una logica di partito, ma perché rappresentavo un intellettuale che era fuori dall’establishment. Oggi tutto si ricollega e sembra un ritorno alle origini [ride].
Quando lei venne nominato presidente, qualcuno lamenta che poco dopo il suo insediamento il suo nome sparì dalle cronache.
Questo lo spiegai alla fine. Il mio nome scomparve per una ragione che all’epoca io stesso non avendo avuto nessuna esperienza istituzionale, avevo sottovalutato. Retrospettivamente avrei dovuto spiegarla subito, cosa che poi ho fatto a fine mandato: quando tu sei presidente della Rai, parli sempre a nome della Rai, qualunque cosa tu dica. Ricoprire quel ruolo, per me sono stati tre anni di sofferenza e mi rendevo conto che qualsiasi cosa dicessi – a parte che veniva strumentalizzata in maniera incredibile – veniva interpretata che era la Rai a parlare e non Marcello Foa. Ruolo delicatissimo. Periodo complesso perché sono partito con il governo gialloverde, poi Salvini rompe e diventa un governo giallorosso e quindi Conte diventa un presidente di opposizione, tra virgolette
Con i Cinquestelle devo dire che ho avuto sempre rapporti discreti, il PD mi vedeva come fumo negli occhi. Poi alla fine del mio mandato c’è stato addirittura il governo di Mario Draghi. In tutto questo c’è stata anche la crisi del COVID.
È stato difficile?
Difficilissimo. Ho cercato di trincerarmi dietro al mio ruolo istituzionale. Vedendo da quella prospettiva il mondo politico, la mia fiducia nei confronti della politica si era molto raffreddata. Ero proprio stufo di farmi strumentalizzare per qualsiasi cosa dicessi o facessi. Finisco i tre anni e non mi dimetto come certe forze politiche avrebbero voluto che io facessi. Mi hanno fatto delle pressioni inimmaginabili. Alla fine ho spiegato il tutto, molti hanno capito, mentre alcuni ancora mi scrivono rimproverandomi che io non sono stato in grado di cambiare la Rai, ma di fatto non ne avevo il potere. Quello che è accaduto adesso dimostra che c’era una coerenza nel mio discorso.
All’epoca del governo gialloverde i grillini si sono presentati come una forza antisistema, ma in un batter di ciglia sono diventati una forza funzionale al sistema.
C’è stata una metamorfosi, ma non mi riguarda. Dovrebbe chiederlo a Conte e a i suoi.
Nel suo libro Gli stregoni della notizia atto II spiega bene il ruolo della comunicazione politica e dello spin doctor. Mi sovviene il caso di Rocco Casalino con Conte durante il COVID, che dirigeva le domande dei giornalisti per il presidente. Se dovesse scrivere l’atto III, come la descriverebbe nel suo libro?
Casalino ha avuto un ruolo molto importante e molto deciso e ha dimostrato quello che ho spiegato nel libro, ovvero che gli spin doctor hanno un ruolo decisivo nel rapporto con la stampa e anche nell’orientarla. Lui, pur non essendo un giornalista, da quel punto di vista ha fatto il suo dovere [ride]. Poi possiamo discuterne se oggi sia giusto comunicare in quel modo o no. Io dico di no, nel senso che, sempre se sia possibile ristabilire un senso di fiducia tra la politica e l’opinione pubblica, questo rapporto va ricostruito su basi di autenticità e non di orientamento.
Mi permetta un’osservazione: finché Conte era l’espressione del governo gialloverde era il nemico della stampa. Facevano le pulci al suo curriculum, sulla sua vita privata, eccetera. Quando è diventato presidente del governo giallorosso, quindi di una forza di establishment, graditissima al Quirinale tra le altre cose, ecco che di Conte, almeno nella grande stampa, non si è letto più un articolo critico.
A riprova del fatto che la stampa non è oggettiva, cioè la stampa è diventata sempre di più, a parte qualche lodevole eccezione, uno strumento di lotta politica o comunque di accompagnamento di una narrazione ufficiale.
In era pandemica la comunicazione e l’informazione, hanno prese delle «strettoie» impensabili fino a poco tempo prima. È stato un momento molto particolare.
È stato un momento terribile. Peraltro come sta emergendo adesso, le decisioni che furono prese – lo vediamo dalla desecretazione delle riunioni del CTS [Comitato Tecnico Scientifico, ndr] – i medici e gli scienziati sono stati del tutto superati dalla politica. Si sono uniformati a decisioni politiche prese da Speranza [ex ministro della salute, ndr] che non ha alcuna competenza medica. Gravissimo. La stessa cosa è accaduta negli Stati Uniti o peggio, perché sappiamo che tra l’amministrazione Biden e Fauci c’è stata una vera e propria operazione di manipolazione dell’opinione pubblica.
Oltre a questo c’è stata una violazione sostanziale dei nostri diritti costituzionali. È stata una pagina molto, molto buia. Come già spiegavo nei miei saggi precedenti, oggi si tende a non aprire una vera riflessione, a parte qualche giornale. C’è un meccanismo psicologico ben noto anche agli spin doctor per cui quando tu commetti un grave errore e sei indotto a commetterlo dalla pressione delle istituzioni, è molto difficile che a livello collettivo ci sia una presa di coscienza e una rabbia che si instaura, perché uno tendenzialmente non vuole ammettere che sia stato ingannato in maniera così evidente.
Per cui la tendenza è quella di dire: «Si, ma va beh, ma c’era l’emergenza…». Con il passare degli anni la verità verrà fuori, ma quando verrà fuori tra dieci o quindici anni, non avrà più la stessa spinta emotiva. Poi scommetto che ci saranno i giornalisti ai convegni che diranno: «è vero che durante il covid noi siamo stati troppo asserviti… Ma questo non accadrà più!». Possiamo essere certi che al prossimo giro capiterà di nuovo.
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Troppo spesso osserviamo il «ring» dei talk show più seguiti che legittima di fatto gli ospiti a esperti del tal argomento di attualità, lasciando però fuori le centinaia di altri esperti che non la pensano come loro e che potrebbero alimentare un sano dibattito. Inoltre sono sempre gli stessi personaggi che passano da un salotto televisivo ad un altro a pontificare. È un problema per la pluralità di informazione.
È un classico. Il talk show equilibrato è un’altra cosa e l’ho dimostrato con Giù la maschera. Il talk show televisivo ha preso un’altra piega ed è quella che il moderatore è un finto equidistante, mentre in realtà ha la sua agenda, le sue convinzioni che lascia trapelare, perché il programma è impostato per avere un certo tipo di approccio ideologico e dunque attirare un certo tipo di pubblico, che lo segue in quanto sanno di trovare ciò che vogliono e desiderano.
Tendenzialmente la stampa è di sinistra e la maggior parte dei talk show sono di sinistra. Lo schema è quello classico: tu hai bisogno di qualcuno che faccia da contraltare per avere un dibattito, però non c’è equità nella ripartizione dei ruoli. Di solito hai quattro da una parte e uno dall’altra. Quattro contro uno di solito è difficile difendersi. Sono cose che le vediamo ogni giorno ed è anche una delle ragioni perché i talk show tendono un po’ a stufare il pubblico.
Sul lungo il pubblico, o una parte di esso, potrebbe anche intuire che vi è uno squilibrio nel dibattito e di conseguenza non seguire più quel programma.
Più che altro, secondo me, c’è una disaffezione molto forte tra il pubblico, i media e la politica, per cui questo approccio così strumentale, così prevedibile, interessa meno.
Lei ha anche scritto che i nuovi guardiani dell’informazione sono i social network. Abbiamo avuto la prova provata di ciò in epoca Covid quando hanno dettato una linea di pensiero unidirezionale. Le voci in dissonanza venivano bannate.
C’è stato un cambiamento di paradigma – e la cosa è passato un po’ sottotraccia, perché non ho letto grandi analisi su questo – ma abbiamo assistito a una operazione vergognosa. Oggi, per certi versi, tutti criticano Trump per i suoi modi, però Biden, o meglio chi e per conto di, magari usurpando Biden, ha applicato una censura molto invasiva e non dichiarata sui social media, quindi doppiamente insidiosa. Oggi lo sappiamo e abbiamo visto che Zuckerberg è uscito pubblicamente ammettendo ciò, come Elon Musk quando ha acquisito X.
È gravissimo che in democrazia FBI, CIA, Dipartimento del governo americano andassero a convocare i responsabili dei vari social media dicendogli di cancellare certe opinioni, addirittura indicando le personalità da bannare direttamente o facendo lo shadow banning. Tutto questo è stato un vero e proprio attentato ai valori democratici e quelli che dovevano essere i valori imprescindibili della costituzione americana. Il fatto che su questo tema ci sia stato silenzio, a parte poche eccezioni, è gravissimo. Noi viviamo in un mondo virtuale in cui tutti parlano di democrazia, di valori liberaldemocratici e quant’altro, ma poi noi stessi, come occidente, li abbiamo violati questi valori.
Oggi i nostri dati più sensibili siamo noi stessi, che tramite le piattaforme social, li affidiamo a coloro che poi ci sorvegliano e ci controllano. Di fatto è il contrario di quello che effettuavano le agenzie di intelligence, come la Stasi ad esempio, nei decenni passati, che cercavano in ogni modo di entrare nella quotidianità dei cittadini per spiarli. Il famoso film Le vite degli altri è esplicativo. La massa pare sia inconsapevole di ciò.
Esatto. Da una parte c’è l’ego, che solleticandolo metti la foto con quel tizio, nel posto tal dei tali, le foto della famiglia, dei viaggi e via dicendo. Ma l’altra cosa che pochi sanno che in realtà, nonostante Snowden abbia rivelato la vicenda della sorveglianza di massa elettronica una decina di anni fa, suscitò un gran clamore, ma non è che poi, forti di quell’esperienza, siamo stati più tutelati.
Oggi ci sono le cosiddette back door – ne parlo nel mio libro La società del ricatto – che sono delle porticine di servizio che vengono usate dai servizi di intelligence o chi per loro, per leggere i nostri dati. Le cito una frase dell’ex capo dei servizi segreti svizzeri contenuta in un libro: «Fate attenzione quando voi mandate una mail, quella mail passa – simbolicamente – per Londra e Washington dove viene copiata e archiviata prima che arrivi a destinazione». Di fatto noi siamo scrutinati, archiviati, profilati. Tornando al film Le vite degli altri, praticamente con questo ecosistema digitale, così tanto esaltato ed elogiato, in realtà si sta realizzando il sogno dei servizi di sicurezza di tutti i regimi, ovvero la schedatura di massa.
I social network sono anche divulgatori di notizie estremamente sintetiche, si parla per slogan cosicché la gente legge un titolo per conoscere quel tal avvenimento senza un minimo di lettura dei fatti, tantomeno di approfondimento. Recentemente negli Stati Uniti stiamo osservando che molti podcaster stanno raccogliendo numeri di pubblico molto consistenti. È come se una fetta di popolazione nutrisse una sana curiosità di conoscenza dei fatti più strutturata e approfondita. Questo cambiamento lo si intravede anche in Italia secondo lei?
In Italia ci sono le potenzialità perché questo accada. In Italia c’è stata una frammentazione molto più marcata e ci sono siti che hanno avuto e stanno avendo buoni risultati, nonostante manchi il Tucker Carlson o il Joe Rogan della situazione. Io percepisco nettamente, e la mia esperienza me lo ha dimostrato, che c’è una parte importante del pubblico che non va più a votare, non compra più i giornali, guarda sempre meno la televisione e si interroga su ciò che sta accadendo in giro per il mondo e non ottiene più risposte concrete da parte dei media ufficiali. Per cui il fatto che emergano realtà autorevoli e credibili, che poi alcune scadono nel complottismo, che non significa che i complotti non esistano. Esistono e come, la storia è fatta di complotti, però non puoi vedere sempre tutto solo attraverso questo filtro sennò diventi maniacale. La necessità di un approccio davvero credibile, di gente che si interroga, è sempre più necessaria e secondo me sempre più ricercato.
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Ciò mi fa ben sperare per il futuro.
Ma sì.
La società del ricatto è il titolo del suo ultimo libro, che mi pare sia un unicum su questo tema. Come le è venuta l’idea di scrivere di questa argomentazione?
Credo sia il primo saggio in assoluto che parla di questo problema. Mi sono reso conto, osservando la politica, osservando le relazioni internazionali, ma anche frequentemente parlando con amici, editori, manager, professionisti, osservando certe dinamiche della nostra società, che il ricorrere al ricatto è così diffuso che è diventato quasi un malcostume. Ho cominciato a riflettere su queste tematiche: «perché questo accade, c’è un filo comune?». La risposta è sì, c’è un filo comune. In questo libro si arriva fino alle relazioni personali e di come il ricatto emotivo è uno delle ragioni principali per cui le persone vanno in crisi e per cui così in tanti vanno dallo psicologo. Provo a lanciare un sasso nello stagno per dire: «attenzione, sotto questo fenomeno c’è una crisi valoriale molto forte e se vogliono, stiamo dando ragione a Machiavelli quando diceva il “fine giustifica i mezzi”».
Io invece trovo che alla fine non dobbiamo mai trascendere dai nostri fini che devono essere quelli valoriali più nobili, sapendo che ci sarà sempre un’imperfezione. Questo deve essere un anelito molto forte. La diffusione del ricatto come mezzo per raggiungere i propri scopi, in politica è devastante. In politica internazionale è stato obliquo e silenzioso per trent’anni e poi è diventato esplicito con Trump. Non può essere accettato passivamente.
Un ricatto politico importante fu quello all’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel 2011.
Terrificante.
In quel periodo oltretutto Berlusconi si portava appresso una costruzione di odio contro la sua figura che nell’opinione pubblica ha giocato a favore di quel ricatto politico che subì. Silvio Berlusconi è stato il primo grande politico a subire ricatti sul piano personale. Prima di lui si cercava di screditare l’avversario più sui fatti e meno su ciò che era la vita privata.
Abbiamo due situazioni diverse. Una è l’uso della privacy per fare lotta politica e questo è molto diffuso e sistematico. Molti personaggi della vecchia classe politica avevano delle amanti e si sapeva, ma nessuno le usava come elemento per screditare la propria moralità. Secondo me era meglio così. Berlusconi, dal punto di vista dell’immagine, è caduto sul «bunga bunga». Però quello che è successo nel 2011 è molto più grave, perché lì c’è stata una manovra di establishment condotta dall’Unione europea con una lettera, oramai famosa, firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, il presidente della BCE uscente e quello entrante. Questo tanto per sottolineare quanto sia patriota il signor Mario Draghi.
Fu un fatto abbastanza grave.
Molto grave, con la complicità di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Lì vennero esercitate delle pressioni molto forti, palesemente ricattatorie, il cui fine era quello di estromettere Berlusconi dalla politica. Cosa che poi è avvenuta. Fu costretto a cedere.
Lo spread fu il grimaldello che fece cadere il governo Berlusconi.
Fu un’operazione vergognosa. Purtroppo oggi la politica si esercita molto attraverso questa forma di ricatto.
Sbaglio o una volta lei disse, sempre in quel frangente, che Berlusconi fu ricattato perché in una riunione di capi di Stato europei disse di volere far uscire l’Italia dall’Euro?
Questa fu una testimonianza di due giornalisti francesi che scrissero un libro bellissimo anni fa, descrivendo che cosa accadeva davvero durante i consigli europei. E Berlusconi era l’unico che, col fatto che le decisioni erano già tutte prese, ogni delegazione poteva dire qualcosa per pochi minuti, e Berlusconi non ci stava a questa situazione. Vediamo che poi fu fatto fuori.
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Lei parla anche di una perdita di valori che di fatto poi va poi a incrementare questa società del ricatto. Viviamo in una società che esalta la liberà scelta di ognuno di noi, ma osservandoci macro dimensionalmente risultiamo tutti omologati in molti aspetti della vita e financo nell’informazione. Mi consenta, ma vedo anche una scristianizzazione sempre maggiore, mentre la cristianità, al contrario, dovrebbe essere una tradizione quantomeno da tenerla più in considerazione.
Assolutamente sì! Noi siamo in una società sempre più edonistica in cui l’interesse personale è quello che prevale. Si perde il senso dell’interesse collettivo in cui si proietta l’immagine in cui si è felici se uno possiede solo beni materiali e se hai successo. Questo ha fatto sì che la coltivazione di valori religiosi, culturali e di tradizione venissero sempre più messi sotto il tacco e il risultato è quello di una società dove si percepisce una disperazione esistenziale molto marcata. E fondamentalmente tutto questo avviene e si materializza anche sotto la spinta di ricatti sociali. C’è sempre questo concetto che ritorna, anche solo nella gestione delle nostre vicende personali, economiche e nel mondo del lavoro. Qualsiasi cosa tu faccia, hai sempre paura di perdere qualcosa e di finire ai margini. Per cui quando questo diventa diffuso, il risultato è l’omologazione e la pavidità, pensare al tuo particolare e fregandotene della collettività.
Il ricatto lo abbiamo visto e vissuto in era pandemica, dove molta gente è stata costretta a delle scelte obbligate.
Se volevi conservare il posto di lavoro dovevi vaccinarti. Ciò è stato di una violenza morale incredibile.
Oggi sembra che questa cosa passi quasi in cavalleria, a parte qualche voce che tiene vivo questo dibattitto.
La stampa non ne parla, la politica, a parte qualche medico meritevole, va avanti, sul resto cala il silenzio. Fortunatamente negli Stati Uniti ora c’è Kennedy che sta facendo un lavoro enorme facendo uscire informazioni importanti. Come vede però, qui da noi arriva un eco molto affievolito.
C’è una frase nel suo libro La società del ricatto, che le cito: «Solo una visione dall’alto permette di cogliere connessioni che da vicino, quando si è troppo immersi in un contesto, risulta impossibile notare». Credo sia un concetto che si riverbera anche nella cultura; più riusciamo a spaziare nelle nostre conoscenze, più avremo un quadro più ampio e uno spirito critico maggiore. Oggi nella società in cui viviamo c’è una scolarizzazione che determina se una persona è brava o meno, e dove si tende molto di più a specializzarsi. Forse, così facendo, mi pare manchi quella visione che possa portarci a un sano spirito critico. Molta gente rimane troppo spesso impassibile al ragionamento di fronte a importanti fatti di cronaca.
Da un lato viviamo l’era della specializzazione, il che si perde una visione dall’alto. Vedi la medicina per esempio: un bravo medico è quello che se tu hai un problema a un ginocchio, tanto per fare un esempio, può essere lo specchio di qualcosa di più profondo. I buoni medici son quelli che vedono queste connessioni. La nostra società è questa.
D’altro canto, riguardo appunto il COVID, quando usi, attraverso la propaganda, l’arma della paura, che è letteralmente un’arma, puoi ottenere qualsiasi cosa anche dalle persone più intelligenti. Li spaventi dicendogli che c’è un virus e che se non ti vaccini può portarti alla morte, alimentando il tutto con le immagini di persone che muoiono.
Lì non è questione di intelligenza o meno: se tu agiti la paura attivi dei meccanismi istintivi e primordiali nell’uomo, per cui anche persone che nella normalità sono brillanti e intelligenti, possono diventare le più appiattite e terrorizzate nel recepire la propaganda, senza rendersi conto, senza nemmeno chiedersi se quella propaganda, se quel che loro credono è frutto di una analisi corretta o se è frutto di una manipolazione. Da qui il ruolo d’importanza della stampa. La stampa dovrebbe essere quella che tira la campanella e dice «Attenzione!» mentre invece nel novanta percento dei casi accompagna la narrativa.
Come vede il giornalismo oggi e quali sono stati, secondo lei, i cambiamenti più significativi negli ultimi decenni?
Il giornalismo si è appiattito sul potere, perché economicamente i giornali e i media hanno difficoltà a mantenersi, per cui se hai un grosso sponsor o un grosso editore, è lui che «suona la musica». Oppure, altra verità di cui non si parla abbastanza, se tu ricevi i fondi pubblici da un governo, dal USAID, tanto per citarne un cosiddetto ente di aiuto per lo sviluppo, o da mecenati che agiscono per conto terzi o ultramiliardari che usano fondazioni, tu suonerai quella musica.
Per cui oggi il giornalismo ufficiale ha questo dilemma: una redazione costa un sacco di soldi e se non hai uno che paga, è finita. È veramente un periodo difficile per la stampa. D’altro canto c’è sempre più bisogno di qualcuno che dica o cerchi la verità. Su questo sentimento si dimostra che nella nostra società c’è una parte importante che non si arrende e che si interroga, che cerca una rappresentanza non politica, ma proprio culturale ed editoriale. È un periodo in rapidissima evoluzione.
Lei insegna da anni all’università. C’è vera libertà d’insegnamento negli atenei italiani?
In teoria sì, ma di fatto si verificano i meccanismi che descrivo ne La società del ricatto, cioè ti adegui alle logiche, agli interessi dominanti del tuo settore. Un professore che vuol far carriera, se il mondo accademico spinge verso certi valori più progressisti, il woke, la relativizzazione e la demonizzazione di certe idee, sarà spinto ad adeguarsi. In più, quel che trova conferma in quello che scrissi ne Il sistema (in)visibile, l’università negli Stati Uniti è finanziata in buona parte – in Europa è statale ed è meno marcato questo fatto – da finanziatori che mettono i soldi, per cui son persone che possono indicarti una cattedra, sponsorizzano programmi di ricerca e se uno dona cinquanta milioni di dollari, il rettore dell’università gli stende il tappeto rosso e naturalmente sarà molto sensibile ai suoi desiderata. Ecco perché le università sono diventate degli strumenti molto importanti di formazione di giovani élite e di lavaggio del cervello costante.
Negli Stati Uniti c’è stata una recente polemica che ha visto il presidente Trump scontrarsi con i principali atenei dello stato.
Ha avuto ragione Trump. Sappiamo che il governo americano ha finanziato lautamente molte università. A me fa sorridere quando la gente elogia l’America come la terra delle opportunità, della libera imprenditoria e quant’altro. C’è uno stato che dietro le quinte sponsorizza e sostiene anche le università. E Trump a un certo punto ha detto: «Se voi fate dei programmi a cui io non credo, questo governo non vi sostiene più».
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Prima di volgere alla conclusione dell’intervista, vorrei rivolgere un’altra domanda. C’è un tremendo conflitto in corso in Medioriente. Lei che idea si è fatto?
Io sono molto critico nei confronti di Israele.
Le chiedo scusa, non vorrei sbagliarmi, una parte della sua famiglia ha origini ebraiche, giusto?
Foa è un cognome di tradizione ebraica, ma io sono cattolico. Tornando al conflitto e premesso che io non ho alcuna simpatia per Hamas, il cui cinismo in questi giorni è allucinante. Trattenendo gli ostaggi stanno esponendo scientemente il popolo palestinese a un massacro. Però chi sta facendo questo massacro sono gli israeliani. Di fatto Netanyahu sta applicando i piani della Grande Israele. Netanyahu è figlio di un estremista e fanatico sionista, il cui obiettivo era quello di creare una grande Israele che ha sempre negato il riconoscimento dei palestinesi come popolo. Per lui era una popolazione, è diverso.
Tutto questo sta avvenendo sotto i nostri occhi e il prezzo non lo paga tanto Hamas, ma le decine di migliaia di persone uccise, tra cui molti bambini e molte donne, persone che sono in coda per il cibo e vengono bombardate. Alcuni medici americani che sono andati laggiù all’inizio della crisi, hanno fatto le autopsie e visto i cadaveri dei bambini; molti di questi c’avevano dei proiettili in testa. Vuol dire che dei cecchini gli hanno sparato. Ad uno può anche capitare, magari colpito disgraziatamente da una granata e muore, ma se molti hanno dei proiettili in testa, vuol dire che c’è qualcuno gli ha sparato scientemente a questi bambini. Medici che vengono uccisi, ospedali bombardati, giornalisti uccisi.
Il fatto che Israele decide, da sempre, quanto cibo e quanta acqua deve entrare a Gaza, e lo decide in maniera atroce adesso. Tutto questo non è moralmente accettabile da parte di uno stato che alle sue fondamenta voleva anche essere una ragione di riscatto per gli orrori subiti durante l’olocausto. Ciò a cui noi stiamo assistendo è un orrore inaccettabile e non ho dubbi da questo punto di vista, ma è anche un tradimento di quelli che dovevano essere i valori dello stato ebraico. Come dicevo prima, Hamas è l’integralismo islamico peggiore e Israele è governata dalle forze più estreme del suo schieramento politico e quel che sta facendo, a mio giudizio, è inaccettabile.
A un certo punto ho notato che c’è stata, a distanza di molti mesi dall’inizio delle ostilità israelo-palestinesi, nei media mainstream un’attenzione maggiore per Gaza. Vediamo tanti sedicenti movimenti politici di sinistra o di ONG schierarsi, anche giustamente se vogliamo, per la Palestina. Come la spiega questa questione d’interesse improvviso?
Glielo dico in maniera molto semplice. La sinistra era filopalestinese fino agli anni Novanta, poi è diventata filoisraeliana. Guardi anche come hanno fatto con la Segre erigendola a icona. Quando il 7 ottobre di due anni fa è iniziato tutto, la sinistra era pro-Israele e un po’ tutti lo eravamo, visto l’attacco che ha subito. Quando sono iniziati a uscire i report su quello che stava succedendo nella striscia di Gaza, la sinistra è rimasta silente. Fino a quando con una reazione della società civile, il popolo della sinistra ha visto cosa stava accadendo e ha iniziato a indignarsi.
Il cambiamento c’è stato quando i partiti di opposizione hanno capito che su questo terreno il governo Meloni poteva essere messo in difficoltà ed ecco che improvvisamente i vari Conte e Schlein hanno iniziato a schierarsi dalla parte dei palestinesi. È stato un atteggiamento strumentale perché dovevano capitalizzare le difficoltà del governo Meloni e non potevano staccarsi troppo da quello che è il sentimento della loro base. Han detto: «Tanto stiamo all’opposizione, chi se ne frega».
Io sono convinto che se loro fossero al governo si comporterebbero esattamente come il governo Meloni. Ci vedo una grande dose di ipocrisia
Dottor Foa, la ringrazio.
Grazie a voi!
Francesco Rondolini
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Immagine di Medija centar Beograd via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
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