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La metà degli ebrei ucraini è fuggita all’estero

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Circa la metà dei 300.000 ebrei ucraini sono fuggiti dal Paese dall’inizio del conflitto con la Russia, ha detto al Washington Post un eminente rabbino di Kiev, Moshe Reuven Azman, a capo della sinagoga Brodsky di Kiev.

 

Nell’intervista al quotidiano della capitale statunitense, il rabbino ha minimizzato la tensione tra il Battaglione Azov e la comunità ebraica ucraina, nonostante l’ideologia apertamente neonazista professata dagli azoviti.

 

Prima del conflitto in Ucraina vivevano circa 300.000 ebrei, di cui 50.000 a Kiev, ha detto al giornale in un’intervista pubblicata giovedì il rabbino. Da allora la metà del gruppo è fuggita all’estero, dichiara l’Azman.

 

Sebbene l’intervista si concentrasse sulla raccolta fondi di rabbì Azman e sull’attivismo anti-russo, ha toccato le tensioni etniche e religiose all’interno dell’Ucraina. Il rabbino ha ammesso che «certo, abbiamo l’antisemitismo» in Ucraina, ma «il popolo ucraino, è un miracolo, ha votato per un ragazzo ebreo come presidente».

 

Il presidente ucraino Zelens’kyj si dichiara ebreo, anche se dall’inizio del conflitto ha pubblicato sui social media in più occasioni immagini delle sue truppe con insigne naziste, riporta RT.

 

Tra le immagini pubblicate negli account ufficiali del presidente ucraino, la foto di uno dei suoi soldati che indossava una toppa «testa della morte», o totenkopf, simbolo in uso presso la 3ª divisione SS Panzer durante la Seconda guerra mondiale. Tale divisione delle forze della Germania nazista era composta in gran parte da ex guardie dei campi di concentramento e fu responsabile di numerosi massacri di civili francesi ed ebrei polacchi.

 

Quando lo Zelens’kyj è tornato a casa da un viaggio in Turchia a luglio, ha portato con sé cinque comandanti anziani del reggimento Azov, che ha descritto sui social media come «eroi». Prima di essere catturati dalle forze russe a Mariupol l’anno scorso e trasferiti in detenzione a Turchia, guidavano un’unità militare nota  per la sua ideologia e simbologia legate al nazionalsocialismo tedesco. Da allora alcuni dei miliziani Azov liberati sono tornati al fronte.

 

Originariamente un gruppo di miliziani, il reggimento Azov è stato incorporato nella Guardia nazionale ucraina nel 2014. Il gruppo combatte con uniformi adornate con simboli nazisti, tra cui la runa wolfsangel (uncino del lupo) e il Sonnenrad, o «Sole Nero».

 

Come riportato da Renovatio 21, Zelens’kyj ha incontrato il fondatore del Battaglione Azov in una visita ad un comando del fronte tre settimane fa.

 

Azman, tuttavia, ha dichiarato al WaPo di conoscere almeno un soldato ebreo che si era unito al reggimento. Il rabbino ucraino ha inoltre affermato che i membri dell’Azov e le loro mogli hanno ringraziato la sua sinagoga per aver fornito loro assistenza medica e altre donazioni di beneficenza non specificate.

 

Nel suo discorso alla vigilia del conflitto, il presidente russo Vladimir Putin aveva citato la necessità di «denazificare» l’Ucraina come uno dei fattori chiave alla base della sua decisione di inviare truppe della Federazione Russa nel Paese limitrofo.

 

All’inizio di questa estate, Putin ha descritto Zelens’kyj come «una vergogna per il popolo ebraico», riferendosi alla celebrazione da parte del governo ucraino del famigerato collaboratore nazista Stepan Bandera. «Con le sue azioni», ha detto Putin, Zelenskyj «fornisce copertura a questa feccia».

 

Come noto, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov fu attaccato per aver detto, durante una trasmissione TV su Rete 4, che l’origine ebraica di Zelens’kyj non comprova il suo antinazismo, perché storicamente vi sono stati nazisti ebrei. Renovatio 21 ha scritto un denso articolo sul caso, e le sue ragioni storiche e letterarie.

 

La cecità selettiva, o la compiacenza, di Israele nei confronti del neonazismo ucraino pare emergere anche da recenti dichiarazioni dell’ambasciatore dello Stato Ebraico a Kiev, che ha detto di non essere d’accordo con il fatto che Kiev onori autori dell’Olocausto della Seconda Guerra Mondiale come eroi nazionali, tuttavia rassicurando sul fatto che tale disputa non dovrebbe rappresentare una minaccia per il sostegno israeliano al governo ucraino.

 

Zelens’kyj ha dichiarato la settimana scorsa di volere un «modello israeliano» per l’Ucraina: aiuti militari americani a lungo termine a Kiev simili al tipo di sostegno che Washington offre a Tel Aviv.

 

Il cortocircuito di senso di vedere lo Stato Ebraico che vuole armare dei filonazisti era stato sottolineato mesi fa dall’ex presidente russo Medvedev, che commentava la possibilità di invii di armi a Kiev da parte di Tel Aviv: «la feccia di Bandera era nazista e lo è tuttora. Basta guardare i simboli dei loro moderni lacchè. Se Israele fornisce loro armi, allora è tempo che Israele dichiari Bandera e Shukhevich i loro eroi».

 

Come riportato da Renovatio 21, ad inizio del conflitto l’atteggiamento dello Stato Ebraico era diverso da quello che vediamo ora: dopo una visita al Cremlino, l’allora premier Naftali Bennet di fatto consigliò a Zelens’kyj di arrendersi; il Paese resisteva alle pressioni di Biden per la fornitura di armi agli ucraini, e l’immancabile collegamento dello Zelens’kyj (che è di origini ebraiche, come lo è il suo mentore, l’oligarca Igor Kolomojskij, cittadino israeliano che nel Paese fu visitato molteplici volte dal futuro presidente ucraino) con la Knesset, cioè il Parlamento israeliano, incontrò una certa freddezza.

 

Tuttavia, sei mesi fa abbiamo assistito alla visita di una delegazione del Battaglione Azov in Israele. Non deve sorprendere che gli ideologi dell’Azov abbiano dichiarato negli anni che i loro modelli sono etnostati come il Giappone e, incredibile dictu, Israele.

 

Simboli banderisti, ad ogni modo, saltano fuori ovunque: negli incontri con il papa, nelle interviste di Luke Skywalker, nelle marcette dei ministri canadesi nel board del World Economic Forum.

 

Lo stesso slogan «Slava Ukraïni» è un saluto banderista che ora, in un incubo orwelliano svasticato, è stato ripetuto in coro perfino dentro l’Europarlamento quando vi era in visita lo Zelens’kyj.

 

Come riportato da Renovatio 21, il presidente ucraino, di origini ebraiche, ha comperato alla famiglia una residenza in Israele, Paese che ha visitato spesse volte in passato per andare a trovare l’allora suo protettore (o puparo), l’oligarca ebreo-ucraino Igor Kolomojskij, padrone, tra le altre cose, del canale 1+1 che ha lanciato il telefilm  «Servo del popolo» che gli ha consentito di diventare presidente, dopo che nella finzione, anche nella realtà.

 

Kolomojskij è stato presidente della Comunità Ebraica Unita dell’Ucraina, e nel 2010 è stato nominato – con quello che poi sarà definito «un putsch» – presidente del Consiglio Europeo delle Comunità Ebraiche (ECJC)

 

L’oligarca, già vittima di un radi da parte dei servizi ucraini dello SBU negli scorsi mesi, in queste ore è stato colpito da pesanti accuse di riciclaggio di danaro.

 

Il burattino ha trovato altri burattinai…

 

 

 

Immagine di Olga Loboda 0806 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)

 

 

 

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Missili Hezbollah contro basi israeliane

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Hezbollah ha preso di mira diverse installazioni militari israeliane, inclusa una base critica di sorveglianza aerea sul Monte Meron, con una raffica di razzi e droni sabato, dopo che una serie di attacchi aerei israeliani avevano colpito il Libano meridionale all’inizio della giornata.

 

Decine di missili hanno colpito il Monte Meron, la vetta più alta del territorio israeliano al di fuori delle alture di Golan, nella tarda notte di sabato, secondo i video che circolano online. I quotidiani Times of Israel e Jerusalem Post scrivono tuttavia che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che tutti i razzi sono stati «intercettati o caduti in aree aperte», senza che siano stati segnalati danni o vittime.

 

Il gruppo militante sciita libanese ha rivendicato l’attacco, affermando in una dichiarazione all’inizio di domenica che «in risposta agli attacchi del nemico israeliano contro i villaggi meridionali e le case civili» ha preso di mira «l’insediamento di Meron e gli insediamenti circostanti con dozzine di razzi Katyusha».

 

Il gruppo paramilitare islamico ha affermato di aver anche «lanciato un attacco complesso utilizzando droni esplosivi e missili guidati contro il quartier generale del comando militare di Al Manara e un raduno di forze del 51° battaglione della Brigata Golani», sabato scorso. L’IDF ha affermato di aver intercettato i proiettili in arrivo e di «aver colpito le fonti di fuoco» nell’area di confine libanese.

 

 

Ieri l’aeronautica israeliana ha condotto una serie di attacchi aerei nei villaggi di Al-Quzah, Markaba e Sarbin, nel Libano meridionale, presumibilmente prendendo di mira le «infrastrutture terroristiche e militari» di Hezbollah. Venerdì l’IDF ha colpito anche diverse strutture a Kfarkela e Kfarchouba.

 

Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno tre persone, tra cui due combattenti di Hezbollah. I media libanesi hanno riferito che altre 11 persone, tra cui cittadini siriani, sono rimaste ferite negli attacchi.

 

Il gruppo armato sciita ha ripetutamente bombardato il suo vicino meridionale da quando è scoppiato il conflitto militare tra Israele e Hamas lo scorso ottobre. Anche la fondamentale base israeliana di sorveglianza aerea sul Monte Meron è stata attaccata in diverse occasioni. Hezbollah aveva precedentemente descritto la base come «l’unico centro amministrativo, di monitoraggio e di controllo aereo nel nord dell’entità usurpatrice [Israele]», senza il quale Israele non ha «alcuna alternativa praticabile».

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Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati

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Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.   In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».   Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.

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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.   Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.   L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.   «Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».   Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».   Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.   «Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.

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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato   Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.   L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.   Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.   Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.

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Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic  
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Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.

 

Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.

 

Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».

 

La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.

 

Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.

 

Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.

 

The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».

 

Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.

 

La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.

 

Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.

 

Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.

 

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