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Renovatio 21 recensisce il film «Tenet»

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Renovatio 21 è lieta di inaugurare questa rubrica di critica cinematografica, e per questo battesimo sceglie di dedicarsi alla pellicola del momento, Tenet, dell’acclamato regista angloamericano Cristoforo Nolan.

 

Renovatio 21 ha da poco appreso del fatto che i cinema sono davvero riaperti, e che servono ancora i popcorni. Tuttavia, nonostante il distanziamento dei sedili, che vanno previamente prenotati  è severamente impartito l’obbligo di rimanere mascherati anche fra le tenebre della sala cinematografica. A meno che, appunto, non si debba mangiare i popcorni: in quel caso è lecito tenere la mascherina abbassata.

 

Nel caso al cinema si debba mangiare i popcorni, è lecito tenere la mascherina abbassata

Renovatio 21 ha quindi eseguito il rapido calcolo: sui 150 minuti di Tenet, distribuendo l’ingestione di un popcorn al minuto, per respirare umanamente durante la proiezione può bastare perfino un cestello formato piccolo da €3,60: non una cosa da poco, una gabola da DCPM e CTS di cui siamo grati, un superecobonus per i nostri polmoni che ci rende ancora più convinti della bontà della situazione.

 

(FULL DISCLOSURE: Renovatio 21 ammette di aver dovuto acquistare, causa pacchetto inscindibile, anche una Pepsi, marchio che si cerca di evitare visto che una sua fornitrice per gli aromi usava linee cellulari da feto abortito).

 

La parola «invertito» è ripetuta diecine di volte, indi per cui quando la legge Scalfarotto-Zan sull’omotransfobia sarà implementata dal Paese, il povero kolossal sarà spazzato via senza pietà alcuna

Veniamo al film, che dobbiamo raccontarvi subito prima che sparisca: sì, perché, visto il tema (i viaggi a ritroso nel tempo), la parola «invertito» è ripetuta diecine di volte, indi per cui quando la legge Scalfarotto-Zan sull’omotransfobia sarà implementata dal Paese, il povero kolossal sarà spazzato via senza pietà alcuna, e nemmeno vogliamo sapere quanto esso sarà picchiato dagli algoritmi censorii di Facebook e Youtubo, che solitamente, lo sapete, picchiano come fabbri (spesso picchiano anche Renovatio 21).

 

La prima «inversione», in realtà, è un notevole pezzo di razzismo neohollywoodiano: il protagonista diventa il nero e la spalla e il belloccio bianco. Da che mondo e mondo è sempre stato il contrario, e invece adesso va così: per cui beccatevi la scena dell’agente segreto afroamericano che si infiltra pubblicamente tra i pompieri estoni, e giuriamo che non è una barzelletta, e neanche una scena stile Woody Allen di Tutto quello che avete voluto sapere sul sesso e mai avete osato chiedere – avete presente la scena degli spermatozoi paracadutisti, fra cui ce ne è uno nero che non sa come sia finito lì.

 

Del resto, telespalla Pattinson può esser pure il principe dei vampiri, ma l’attore protagonista è principe a modo suo, è figlio di papà sul serio: il genitore è Denzel Washington. La buona bond girl è una stangona ectomorfa che pare pure bellissima, se non fosse che vuole trascinare col motoscafo il cadavere del marito reo di aver scoperto che lo cornificava alla grandissima.

Beccatevi la scena dell’agente segreto afroamericano che si infiltra pubblicamente tra i pompieri estoni, e giuriamo che non è una barzelletta

 

Poi c’è il Kenneth Branagh, che riprende a fare il russo cattivissimo (lo aveva fatto in un filmetto da Tom Clancy anni fa) e ci sta pure dentro, gli si tappa la vena del collo che è uno spettacolo.

 

C’è perfino l’attore di Kickass, che adesso è talmente pieno di muscoli da sembrar quasi più vecchio di sua moglie – una videoartista da Biennale di Venezia che ha appena 23 anni più di lui.

 

Ma è il regista, lo sappiamo, la vera star.

 

Il Nolan, diciamolo, ci ricorda una linea di caschi per noi non irresistibili (quelli che avevano gli scooterini pubescenti), ed è facile che abbia orecchiato la storia dei russi che comunicano con il futuro da un romanzo di William Gibson di un lustro fa, che deve essere così brutto che Mondadori l’ha tradotto solo da poco.  Ciò detto, è possibile percepire il cineasta godere molto perché c’è la consueta dose di accozzaglie armate che sparano a casa mentre la mente dello spettatore è perennemente fottuta da qualche incongruenza di sceneggiatura presentata come grande trovata.

 

 

Se credete poi che vi sia un qualche spazio narrativo per il mistero del quadrato magico – SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS – vi sbagliate, perché hanno solo buttato queste parole qua e la senza che di questa magia latina gli fregasse qualcosa. (Meglio stare a casa a rileggersi il libro di Camilleri, Rino, sull’argomento)

 

Se credete pure che almeno sia servito qualche palindromo – tipo ORA PER POI IO PREPARO oppure AMO RIDERE DI ROMA oppure ANNODA L’ALLUCE E CULLA LA DONNA oppure È CAPACE RE SE RECA PACE oppure OMINO NANO NON ANONIMO oppure I TANGA BAGNATI oppure I BAR ARABI oppure E LA MAFIA SAI FA MALE oppure ERI UN NANO. NON ANNUIRE oppure ACCAVALLA DENARI, TIRANE DALLA VACCA oppure ADIRATI SE NON ERI LA, SI CREDEVA AMASSI L’ORPELLO FINE. IVI DIVIENI FOLLE, PROLISSA. MA A VEDERCI SALIRE NON ESITAR, IDA – resterete delusi.

 

Aggiungiamo che Renovatio 21 è stata al cinema con suo cuggino, che voleva rivedere l’opera sperando di capirci qualcosa dopo una prima visione incompresa. Non è andata così, e anche il cuggino del cuggino, cioè lo scrivente, è finito in una nebbia di incomprensione cinematografica che ora abbraccia ben due gradi di parentela.

Renovatio 21 è stata al cinema con suo cuggino, che voleva rivedere l’opera sperando di capirci qualcosa. Non è andata così

 

La verità è che non abbiamo voglia di dire niente, ci stiamo solo godendo la stupenda vertigine di scrivere qualcosa senza la possibilità che ci denunzino: se tratti di cose non importanti, ti lasciano dire quello che vuoi, incredibile. Più rubriche di arte e cinema, meno avvocati.

 

La verità è anche che tutta questa sbobba l’abbiamo fatta solo per trasmettere l’idea che l’intero filmo è perfettamente contenuto nella scena di questo antico capolavoro che vedete qui sotto.

La verità è che non abbiamo voglia di dire niente, ci stiamo solo godendo la stupenda vertigine di scrivere qualcosa senza la possibilità che ci denunzino: se tratti di cose non importanti, ti lasciano dire quello che vuoi, incredibile

 

Chi non la conosce non ha mai passato un Natale negli anni Ottanta, non sa che una volta esisteva una cosa chiamata Italia 1 che dipingeva nelle menti dei giovani cose pazzesche.

 

Tipo questa. Che vale, da sola, tutto il kolossal milionario. Le spie CIA invertite del Nolano tenetevele pure. Noi ci abbiamo la libreria svedese di Top Secret!

 

 

 

 

 

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La nona di Beethoven trasformata nel canto banderista «Slava Ukraini»

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La direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» eseguirà la famosa nona sinfonia di Beethoven, quella ispirata all’ode Inno alla gioia (An die Freude) del drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Lo riporta EIRN.

 

Tuttavia, secondo quanto si apprende, la Wilson starebbe sostituendo la parola «Freude» nel testo con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.

 

A causa di quanto accaduto nella prima metà del secolo, in Germania non si può cantare «Heil!» in tedesco senza invocare «Heil Hitler!», né si può dichiarare ad alta voce «Slava!» in Ucraina senza invocare lo «Slava Ukraini» canto dei sanguinari collaboratori locali del Terzo Reich, in particolare il Bandera.

 

La Wilson, che si vanta delle sue origini ucraine via nonna materna e della sua comunità ucraina di Winnipeg, Canada (Paese, come è emerso scandalosamente con il caso Trudeau-Zelens’kyj, pieno di rifugiati ucronazisti), ha rilasciato ieri il suo comunicato stampa.

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«La decisione di cantare il grande testo di Schiller per la Nona Sinfonia di Beethoven in ucraino è stata per noi un’importante dichiarazione artistica e culturale più ampia» ha dichiarato il direttore. «Putin sta letteralmente cercando di mettere a tacere una nazione. Non saremo messi a tacere. Il nostro unico emendamento a Schiller è che invece di cantare “Freude” (Gioia) canteremo “Slava” (Gloria), dal grido della resistenza ucraina di fronte alla spietata aggressione russa, Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina!)».

 

Notiamo l’interessante inversione in corso presso la sinistra e l’establishment: la «resistenza», oggi, la fanno i nazisti…

 

 

 

«Mentre l’Ucraina continua la sua lotta a nome del mondo libero, ha bisogno più che mai del nostro sostegno e porteremo con orgoglio il nostro messaggio in tutta Europa e negli Stati Uniti» ha continuato la Wilsona, che ha eseguito per la prima volta la sua versione banderizzata di Beethoven il 9 nel dicembre 2022 a Leopoli con la sua Ukraine Freedom Orchestra.

 

Nel 2023, l’importante casa discografica della classica Deutsche Grammophon ha registrato l’esecuzione del suo primo tour europeo a Varsavia, e quest’anno vi sarà la pubblicazione, proprio nel bicentenario dell’opera di Beethoven. Vi sarà quindi una tournée quest’estate che toccherà Parigi, Varsavia, Londra, Nuova York e Washington.

 

Secondo quanto riporta EIRN, «si dice inoltre che il prossimo progetto della Wilson coinvolga la sostituzione della parola “agape” »(cioè, in greco, amore disinteressato, infinito, universale), termine contenuto nella lettera di San Paolo ai Corinzi (capitolo 13), «con «agon» o «eris» (cioè, contesa, lotta, conflitto)».

 

Se fosse vero, sarebbe un altro tassello del quadro che si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi. Dalla gioia alla guerra. Da Cristo a Nietzsche.

 

Va così, perfino nella musica classica.

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La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.   Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.   Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.   Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

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Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa? In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».   La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.   Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.   Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.   L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.   Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.   Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

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Chi era veramente Alessandro I? La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.   Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.   Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.   Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…   Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.   Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

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Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi… Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.   Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.   «Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.   A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…   A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij? L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.   Paolo Gulisano   Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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  Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851) Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia
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Microsoft vuole bandire le donne formose dai videogiuochi?

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Il colosso tecnologico statunitense Microsoft scoraggia l’utilizzo di figure  femminili eccessivamente formose nei videogiochi, secondo le linee guida aggiornate pubblicate martedì dalla società.

 

Nell’ambito della sua iniziativa di inclusività, Microsoft ha offerto agli sviluppatori un elenco di domande da considerare mentre lavorano sui loro prodotti per verificare se stanno rafforzando eventuali stereotipi di genere negativi.

 

La guida, denominata «Azione per l’inclusione del prodotto: aiutare i clienti a sentirsi visti», include vari stereotipi che il gigante dei giochi ritiene sia meglio tralasciare.

 

Secondo la guida, i progettisti di giochi dovrebbero verificare se non stanno introducendo inutilmente barriere di genere e dovrebbero assicurarsi di creare personaggi femminili giocabili che siano uguali in abilità e capacità ai loro coetanei maschi, e dotarli di abiti e armature adatti ai compiti.

 

«Hanno proporzioni corporee esagerate?» chiede la linea guida.

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I personaggi femminili svolgono un ruolo significativo nell’industria dei giochi e sono diventati i preferiti dai fan nel corso degli anni. Il capostipite della genìa è sicuramente Lara Croft, protagonista della fortunata serie Tomb Raider, che iniziò a spopolare negli anni Novanta sulla piattaforma della Playstation 1.

 

Il personaggio aveva come caratteristica fisica incontrovertibile seni straripanti, che la grafica dell’epoca rendeva grottescamente attraverso poligoni piramidali. Secondo un meme che circola su internet, tale grafica potrebbe essere alla base dell’enigmatico, estremista design della nuova automobile di Tesla, il Cybertruckko.

 

 

 

Di recente è emerso che esistono società di consulenza che portano le case produttrici di videogiochi a inserire elementi politicamente corretti nelle loro storie: più personaggi non-bianchi, gay, trans, più lotta agli stereotipi maschili – un vasto programma nel mondo dell’intrattenimento giovanile.

 

In un recente videogioco sono arrivati a dipingere una criminale parafemminista uccidere Batman.

 

 

L’incredibile sviluppo, lesivo non solo delle passioni dei fan ma propriamente del valore dell’IP (la proprietà intellettuale; i personaggi di film, fumetti e videogiochi questo sono, in termini legali ed economici) è stato letto come una dichiarazione di guerra del sentire comune, con l’esecuzione del Batmanno come chiaro emblema del patriarcato e della concezione del crimine come qualcosa da punire.

 

Sorveglia e punire: non l’agenda portata avanti negli USA dai procuratori distrettuali eletti con finanziamenti di George Soros, nelle cui città, oramai zombificate, ora governa il caos sanguinario e il disordine più tossico.

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