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«76 giorni»: il film sull’orrore e l’eroismo di Wuhan

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews.

 

 

La pellicola di 93 minuti è stata girata durante il lockdown di Wuhan, l’epicentro della pandemia. Il 14 settembre è stato presentato alla prima serata del Festival di Toronto. Sullo stile del cinema-verità, mostra con crudezza la malattia, la morte e talvolta la guarigione dei pazienti di COVID-19, insieme alla dedizione del personale medico. Non si sa se sarà distribuito in Cina.

Un film sull’orrore della pandemia da coronavirus che ha avuto Wuhan come epicentro, ma anche immagini e storie del dramma e dell’eroismo di malati, medici ed infermieri che hanno dovuto affrontare un’esperienza mai vista prima.

Un film sull’orrore della pandemia da coronavirus che ha avuto Wuhan come epicentro, ma anche immagini e storie del dramma e dell’eroismo di malati, medici ed infermieri che hanno dovuto affrontare un’esperienza mai vista prima.

 

È stato presentato il 14 settembre alla prima serata del Festival di Toronto. Si tratta del film «76 giorni», del regista Hao Wu e di due suoi collaboratori, Weixi Chen e uno che ha voluto rimanere anonimo. Hao Wu vive a New York, ma ha potuto sperimentare la violenza del COVID-19: suo nonno, in Cina, è morto subito dopo il lockdown. I collaboratori vivono in Cina e hanno lavorato dietro sue direttive; l’aiuto-regista anonimo teme conseguenze per la sua vita, visto il silenzio e la censura che il governo cinese impone sulla pandemia e su quanto si è sperimentato.

 

Il titolo del film richiama i giorni di isolamento totale sofferti dalla città di Wuhan. I due aiuto registi hanno potuto entrare in ospedale e – bardati con tute protettive, maschere, occhialini e visiere – hanno filmato tutto il possibile: morti che venivano trascinati in sacchi di plastica; familiari in pianto a cui non è permesso dare l’ultimo saluto; medici ed infermieri esausti che si aggirano fra le folle dei pazienti; malati che bussano alla porta dell’ospedale senza poter essere ricevuti perché il numero di internati è ormai completo.

Hanno filmato tutto il possibile: morti che venivano trascinati in sacchi di plastica; familiari in pianto a cui non è permesso dare l’ultimo saluto; medici ed infermieri esausti che si aggirano fra le folle dei pazienti; malati che bussano alla porta dell’ospedale senza poter essere ricevuti perché il numero di internati è ormai completo

 

Il film di 93 minuti scorre come un cinema-verità, senza voce fuori campo, senza interviste: solo la cruda realtà, appena addolcita dai gesti di affetto del personale sanitario verso i pazienti e i morti.

 

A detta dello stesso Hao Wu, il film non vuole avere una valenza politica, ma solo mostrare volti umani che riescono a reagire ed attraversare esperienze di vita che porterebbero alla disperazione.

 

Per ora il film è in distribuzione negli Stati Uniti. Wu vorrebbe fosse distribuito anche in Cina, ma a causa della censura sul COVID-19, non è sicuro.

 

 

 

 

 

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Microsoft vuole bandire le donne formose dai videogiuochi

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Il colosso tecnologico statunitense Microsoft scoraggia l’utilizzo di personaggi femminili eccessivamente formosi nei videogiochi, secondo le linee guida aggiornate pubblicate martedì dalla società.

 

Nell’ambito della sua iniziativa di inclusività, Microsoft ha offerto agli sviluppatori un elenco di domande da considerare mentre lavorano sui loro prodotti per verificare se stanno rafforzando eventuali stereotipi di genere negativi.

 

La guida, denominata «Azione per l’inclusione del prodotto: aiutare i clienti a sentirsi visti», include vari stereotipi che il gigante dei giochi ritiene sia meglio tralasciare.

 

Secondo la guida, i progettisti di giochi dovrebbero verificare se non stanno introducendo inutilmente barriere di genere e dovrebbero assicurarsi di creare personaggi femminili giocabili che siano uguali in abilità e capacità ai loro coetanei maschi, e dotarli di abiti e armature adatti ai compiti.

 

«Hanno proporzioni corporee esagerate?» chiede la linea guida.

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I personaggi femminili svolgono un ruolo significativo nell’industria dei giochi e sono diventati i preferiti dai fan nel corso degli anni. Il capostipite della genìa è sicuramente Lara Croft, protagonista della fortunata serie Tomb Raider, che iniziò a spopolare negli anni Novanta sulla piattaforma della Playstation 1.

 

Il personaggio aveva come caratteristica fisica incontrovertibile seni straripanti, che la grafica dell’epoca rendeva grottescamente attraverso poligoni piramidali. Secondo un meme che circola su internet, tale grafica potrebbe essere alla base dell’enigmatico, estremista design della nuova automobile di Tesla, il Cybertruckko.

 

 

 

Di recente è emerso che esistono società di consulenza che portano le case produttrici di videogiochi a inserire elementi politicamente corretti nelle loro storie: più personaggi non-bianchi, gay, trans, più lotta agli stereotipi maschili – un vasto programma nel mondo dell’intrattenimento giovanile.

 

In un recente videogioco sono arrivati a dipingere una criminale parafemminista uccidere Batman.

 

 

L’incredibile sviluppo, lesivo non solo delle passioni dei fan ma propriamente del valore dell’IP (la proprietà intellettuale; i personaggi di film, fumetti e videogiochi questo sono, in termini legali ed economici) è stato letto come una dichiarazione di guerra del sentire comune, con l’esecuzione del Batmanno come chiaro emblema del patriarcato e della concezione del crimine come qualcosa da punire.

 

Sorveglia e punire: non l’agenda portata avanti negli USA dai procuratori distrettuali eletti con finanziamenti di George Soros, nelle cui città, oramai zombificate, ora governa il caos sanguinario e il disordine più tossico.

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No al Jazz. Sì al Dark Jazz

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In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.   Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.   A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.   I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.

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A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.   Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.   Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.   A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.     Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».   Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.

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È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.   Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.     Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.   O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?   Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.   Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…

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Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.   Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.     Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.  

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Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.       Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.   Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.   C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.   No?   Roberto Dal Bosco

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Nella nuova Notre Dame vi saranno molte vetrate «contemporanee»

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È stato appena insediato dal Ministro della Cultura il comitato incaricato di selezionare i progetti delle sei vetrate d’arte contemporanea che orneranno le cappelle laterali della Cattedrale di Parigi. Un «gesto contemporaneo» imposto dal capo dello Stato e sostenuto dall’arcidiocesi.

 

George Braque amava dire che «il progresso nell’arte non consiste nell’estendere i propri limiti ma nel conoscerli meglio». La saggezza del pittore non è propriamente quella di un capo di Stato, e l’identico restauro di Notre-Dame de Paris non dovrebbe prescindere dal «gesto contemporaneo» promesso da Emmanuel Macron nel dicembre 2023.

 

È questo da parte dell’inquilino dell’Eliseo il segno di un desiderio di vendetta, un po’ ferito dalla sua incapacità di imporre l’idea di costruire una guglia contemporanea per sostituire quella costruita da Viollet-le-Duc? O l’ansia di passare di lì a pochi anni nell’oblio della Storia senza aver potuto lasciare un segno del suo tempo alla guida del Paese?

 

In ogni caso, è stato con grande clamore che l’8 marzo 2024 è stato lanciato il progetto volto a progettare le sei vetrate contemporanee che saranno inflitte a Notre-Dame. Il ministro della Cultura, Rachida Dati, ha insediato dal Salon des Maréchaux, un comitato «artistico» composto da venti membri e presieduto dall’ex direttore del Centre Pompidou, Bernard Blistène.

 

Questo paladino del lavoro applicato all’arte avrà il compito di lanciare un bando, per poi designare la coppia vincitrice (un artista e un laboratorio di vetro), nel novembre 2024. Per dare una panoramica dell’uomo, ha firmato una rubrica su Le Soir de Bruxelles nel 2018, dal titolo «Non c’è niente di peggio del nazionalismo, niente di peggio del ritiro nell’identità».

 

Infine, il successivo 7 dicembre, il prototipo delle future vetrate verrà presentato ai visitatori che entreranno per la prima volta nella navata della cattedrale restaurata e restituita al culto. Questo giorno vedrà la riapertura della cattedrale al pubblico (il giorno successivo sarà un momento dedicato) e il prototipo delle vetrate colorate dovrebbe essere presentato nella cattedrale.

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Dal 2020, alcuni pensavano che il «gesto contemporaneo» sarebbe stato risparmiato a Notre-Dame: un primo progetto di installazione di vetrate ha suscitato la vigorosa reazione dell’ex ministro della Cultura: «La Francia è firmataria della Carta di Venezia, che ha stabilito dal 1962 l’etica dei restauri e delle creazioni nei monumenti storici e vieta la sostituzione di un elemento esistente con un altro», ha indicato a Le Figaro.

 

«In ogni caso, le vetrate delle cappelle sono classificate come monumenti storici e parte integrante del monumento. Sembra impossibile sostituirli», ha avvertito Roselyne Bachelot.

 

Ma l’attuale capo dello Stato, non estraneo alle retromarce ed esperto nell’arte di far convivere gli opposti, non intendeva fermarsi qui. Avrà tuttavia contro di sé l’intera schiera di curatori e storici dell’arte, con forti venti contrari a un progetto che, secondo loro, ignora l’eredità di Viollet-le-Duc.

 

«Perché sostituire le sue vetrate, se non per disprezzo verso l’artista? Non solo non stiamo sostituendo un’opera esistente, ma il restauro dell’architetto, durato decenni davanti agli occhi dell’Europa, è stato un’opera totale», spiega Maryvonne de Saint Pulgent, saggista ed ex alta funzionaria.

 

Stessa storia con Alain Finkielkraut che critica su France Culture le creazioni «artistiche» imposte alla cattedrale per «cattivo gusto». Ma il progetto sembra davvero sulla buona strada: «C’è un tempo per il restauro, che dopo i dibattiti, è stato portato avanti in modo identico, e un tempo per la creazione, l’incarnazione della traccia del 21° secolo», avverte al Ministero della Cultura.

 

Inoltre, l’esecutivo può contare su un forte alleato nella persona dell’arcivescovo di Parigi, che sostiene un «gesto contemporaneo» che, possiamo scommetterci, sarà all’altezza della liturgia contemporanea…

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Lorenzo3003 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 

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