Arte
Renovatio 21 recensisce «Il Normanno»
Il film The Northman è uscito da qualche settimana. Non abbiamo idea se sia stato distribuito in Italia, né se sia su qualche piattaforma digitale. Noi lo abbiamo visto e basta, e non chiedeteci altro.
Lo abbiamo visto in lingua originale, quindi non sappiamo quale macelleria il doppiaggio italiano farà dell’inglese para-elisabettiano parlato nella storia insieme a qualche gargarismo antico-norvegese e paleoslavo.
Si tratta di un filmazzo ambiziosissimo, e noi lo chiameremo Il Normanno. Perché, come sa il lettore accanito, avevamo chiamato The Batman –Il Batmanno, quindi Northman diviene giocoforza Il Normanno (Herman->Ermanno), che ci sta pure bene, anche se filologicamente e antropologicamente non sappiamo quanto corretto.
La pellicola vuole essere un adattamento kolossal del mito dell’Amleto prescespiriano, cioè puro-nordico, dove l’eroe non si chiama Hamlet ma Amleth (l’acca in fondo, tipo Deborah), e il senso di vendetta – Conte di Montecristo ante litteram – è espresso nel modo più sanguinolento possibile.
Apprendiamo dunque che Amleto non è un’invenzione del Bardo, ma un mito cantato da generazioni di bardi – quelli veri.
Amleto è il principe di un regno nordico. Il padre, re Aurvandill, è tradito da suo fratello Fjölnir, che lo uccide e ne prende il trono, nonché la moglie, Gudrun, madre di Amleth.
Il bambino fugge, e si rifugia in terra di Rus’ – i primordi della Russia, impestata da vichinghi, nel territorio che dal Baltico va fino al Mar Nero. Qui diviene vichingo razziatore, in particolare, fa il berserker: guerriero inarrestabile che arriva sulla scena con la pelle dell’orso per poi denudarsi e pugnare all’ultimo sangue piuttosto ignudo.
Tuttavia, egli brama la vendetta. I dettagli del suo destino sono lui snocciolati in un tempio di Svetovit, il dio paleoslavo dell’abbondanza, dove incontra una sibilla che ha le fattezza della cantante islandese Björka, che è anche antica collaboratrice dello sceneggiatore della pellicola Sjón, lungamente paroliere dell’ugola di Reikiavik.
Egli scopre che lo zio e la madre, dopo aver perso il trono sconfitti dal re Haraldo I di Norvegia, sono riparati in Islanda, dove comandano una piccola comunità servita da schiavi trattati crudelmente.
L’Amleto vi si infiltra per consumare la retribuzione finale, innamorandosi nel processo della strega slava Olga, fatta schiava dagli stessi vichinghi per cui lavorava come bersekerro e quindi venduta allo zio.
Quest’opera va rispettata assai: è il primo esempio di psichedelia norrena, con scene lisergiche a base di deità nordiche e cascami artici vari. Una menziona la merita la scena del rito di iniziazione del giovane Amleto, che si risolve in un trip drogastico allucinatorio condotto dal padre e da un buffone dove ricopre una certa importanza lo scorreggiare ed il ruttare.
Non si resta impassibili dinanzi ai sessanta e passa milioni di dollari spesi per riprodurre serate sciamaniche pre-razzia, vulcani incazzati, fantasmi mostruosi, e titoli in runico vero, come nemmeno nelle basi del Battaglione Azov.
Sottolineaimo inoltre la volontà del regista Robert Eggers e dello sceneggiatore islandese di raccontare l’era di fine del paganesimo (slavo, nordico) con il subentrante ruolo dei cristiani, qui rappresentati come schiavi degli islandesi che tanti segni della croce si fanno quando si trovano dinanzi ai massacri che combina l’Amleto furioso.
Parimenti, Renovatio 21 loda la volontà, senza tanti infingimenti, di rappresentare l’orrore gratuito e meschino del paganesimo come culto del sacrifizio umano, qui rappresentato con estrema dovizia di particolare rituale, e in tutta la sua ripugnanza fisica e morale.
Insomma, tantarobba.
E un cast mica male.
Ethan Hawke finalmente può fare la parte del vecchio; cionondimeno una certa faccia da topolone rimane.
Nicole Kidman, dopo Dogville di Von Trier, trova un altro ambiente scandinavo in grado di rivelare che l’espressione che ha addosso, sì, è proprio un’espressione da stronza, tanto che lo spettatore tende a rivalutare lo scientologo ex marito, che è bravo e a differenza di lei non affitta uteri.
Il cittadino dell’Esquilino Willem Defoe non delude mai, e di fatto sembra non essere in grado di invecchiare.
Il figlio di Stellan Skarsgård si è preparato per il ruolo mettendo su addominali forse con l’aiuto di qualche sostanza hollywoodiana.
Tuttavia, ed è qui che volevamo arrivare, il lungo piano-sequenza (inquadratura unica e continua, tipica dei film che se la tirano) in cui Amleto fa il Vichingo assaltando il povero villaggio russo (cioè, ucraino, cioè, russo), ha un precedente incontrovertibile: il cosiddetto «Techno-Viking», antico meme videografico dagli sviluppi controversi (partirono querele da parte dello stesso vichingo) che a guardarsi ancora oggi è particolarmente irresistibile, e nordico, normannico, assai.
Insomma si tratta di un filmone d’autoreh di cui Renovatio 21 caldeggia la visione.
Abbiamo capito, è un momento di revival nordico importante, il battaglione Azov applaudito dai giornali di tutto l’Occidente ci racconta proprio questo.
Ecco la pellicola giusta per farci la mano, che però non deve scapparci, la mano.
Anche perché adesso in Rus’ c’è uno che i vichinghi che assaltano i villaggi li fa scappare, li stana, e poi li processa e forse li condanna a morte – beninteso, quei vichinghi che non sono stati sterminati prima, quando urlando e battendosi il petto pensavano di razziare come ai tempi di Amletoh, ma invece delle valchirie nel Walhalla hanno trovato la Babushka Z.
Maddeché essere o non essere. In Rus’, oggi, stravince l’essere. E poche storielle.
Immagine utilizzata su dottrina del Fair Use dal sito Universal
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Attrici giapponesi che si vestono da uomini bullizzano collega fino a spingerla al suicidio
Dal Giappone arriva l’eco di un episodio di bullismo e violenza sistematica sfociati in un suicidio all’interno di una struttura esclusivamente femminile. Una sorta di suicidio femminicida, ma ad opera di femmine.
Teatro della vicenda è per il corpo teatrale Takarazuka, un’istituzione più che secolare nel mondo dello spettacolo giapponese. Il concetto alla base del corpo teatrale è che sono soltanto attrici a salire in scena, interpretando anche i ruoli maschili. Tale idea, di per sé spiazzante, inverte completamente la tradizione del teatro tradizionale Kabuki, dove sono gli attori maschi a ricoprire tutti i ruoli.
Gli spettacoli del Takarazuka sono tuttavia distanti anni luce dal rigido formalismo del Kabuki: qui si tratta di musical che attingono dalle fonti più disparate, da West Side Story all’Evgenij Onegin, spesso spingendo a tavoletta su elementi che qualche anno fa si definivano camp o kitsch, in italiano lo si potrebbe semplicemente chiamare «pacchianeria», benché estremamente professionale e ben fatta.
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Il seguito che hanno questi spettacoli nel contesto nipponico è impressionante, ancora di più perché per la grandissima maggioranza femminile: lo scrivente ricorda di essersi imbattuto in una lunghissima coda in attesa di entrare nel teatro di Tokyo – in zona centralissima, vicino al palazzo imperiale – dove si esibisce la compagnia. Si poteva constatare che gli uomini tra la folla erano appena una manciata.
Un ambiente quindi quasi completamente femminile, al sicuro da patriarcato e maschilismo tossico.
E allora, come si spiegano allora vessazioni di gruppo, ustioni procurate con le piastre per i capelli, carichi di lavoro insostenibili assegnati al solo scopo di umiliare e di lasciare soltanto tre ore di sonno al giorno? È questa l’ordalia che ha portato la 25enne Aria Kii a gettarsi nel vuoto per porre fine alla sua vita nel settembre del 2023.
La vicenda era stata prontamente insabbiata dall’azienda che gestisce la compagnia teatrale ma è stata riportata a galla dall’ineffabile Shuukan Bunshun, testata con una lunga e gloriosa tradizione di caccia agli scheletri negli armadi. Nella primavera di quest’anno i dirigenti dell’azienda in questione hanno pubblicamente ammesso la loro responsabilità nel non essere stati in grado di vigilare adeguatamente l’ambiente lavorativo delle attrici.
Duole dire che per la società giapponese uno scenario così è tutto fuorché inconsueto: il proverbio «il chiodo che sporge verrà martellato» illustra ancora con una certa fedeltà le dinamiche sociali che si formano all’interno delle istituzioni giapponesi – siano esse scuole, aziende, partiti.
Negli ultimi tempi c’è un evidente cambiamento in atto soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro, ma il bullismo allo scopo di creare coesione all’interno di un gruppo è una pratica a cui i giapponesi ricorrono abitualmente e che non sembra soffrire di particolare disapprovazione sociale.
Dal Giappone ci chiediamo con sincerità come un giornalista italiano – di area woke, ma anche solo attento a seguire i dettami del politicamente corretto elargiti ai corsi di deontologia dell’Ordine – potrebbe riportare la notizia della triste morte di Aria, con lo stuolo di angherie subite in un contesto esclusivamente femminile.
Taro Negishi
Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo
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Lucerna annulla il concerto della Netrebko, Berlino la invita a cantare
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La nona di Beethoven trasformata nel canto banderista «Slava Ukraini»
La direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» eseguirà la famosa nona sinfonia di Beethoven, quella ispirata all’ode Inno alla gioia (An die Freude) del drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Lo riporta EIRN.
Tuttavia, secondo quanto si apprende, la Wilson starebbe sostituendo la parola «Freude» nel testo con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.
A causa di quanto accaduto nella prima metà del secolo, in Germania non si può cantare «Heil!» in tedesco senza invocare «Heil Hitler!», né si può dichiarare ad alta voce «Slava!» in Ucraina senza invocare lo «Slava Ukraini» canto dei sanguinari collaboratori locali del Terzo Reich, in particolare il Bandera.
La Wilson, che si vanta delle sue origini ucraine via nonna materna e della sua comunità ucraina di Winnipeg, Canada (Paese, come è emerso scandalosamente con il caso Trudeau-Zelens’kyj, pieno di rifugiati ucronazisti), ha rilasciato ieri il suo comunicato stampa.
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«La decisione di cantare il grande testo di Schiller per la Nona Sinfonia di Beethoven in ucraino è stata per noi un’importante dichiarazione artistica e culturale più ampia» ha dichiarato il direttore. «Putin sta letteralmente cercando di mettere a tacere una nazione. Non saremo messi a tacere. Il nostro unico emendamento a Schiller è che invece di cantare “Freude” (Gioia) canteremo “Slava” (Gloria), dal grido della resistenza ucraina di fronte alla spietata aggressione russa, Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina!)».
Notiamo l’interessante inversione in corso presso la sinistra e l’establishment: la «resistenza», oggi, la fanno i nazisti…
«Mentre l’Ucraina continua la sua lotta a nome del mondo libero, ha bisogno più che mai del nostro sostegno e porteremo con orgoglio il nostro messaggio in tutta Europa e negli Stati Uniti» ha continuato la Wilsona, che ha eseguito per la prima volta la sua versione banderizzata di Beethoven il 9 nel dicembre 2022 a Leopoli con la sua Ukraine Freedom Orchestra.
Nel 2023, l’importante casa discografica della classica Deutsche Grammophon ha registrato l’esecuzione del suo primo tour europeo a Varsavia, e quest’anno vi sarà la pubblicazione, proprio nel bicentenario dell’opera di Beethoven. Vi sarà quindi una tournée quest’estate che toccherà Parigi, Varsavia, Londra, Nuova York e Washington.
Secondo quanto riporta EIRN, «si dice inoltre che il prossimo progetto della Wilson coinvolga la sostituzione della parola “agape”» (cioè, in greco, amore disinteressato, infinito, universale), termine contenuto nella lettera di San Paolo ai Corinzi (capitolo 13), «con «agon» o «eris» (cioè, contesa, lotta, conflitto)».
Se fosse vero, sarebbe un altro tassello del quadro che si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi. Dalla gioia alla guerra. Da Cristo a Nietzsche.
Va così, perfino nella musica classica.
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