Gender

Transessualismo a scuola, l’ascesa della carriera alias non si ferma

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Molte scuole italiane hanno approvato la carriera alias. Molte altre si apprestano a farlo, altre ancora saranno bersaglio di pressioni crescenti e di questo passo cederanno per emulazione. L’ordine è: alias per tutti, reclutamento a tappeto. Ne avevamo parlato in un nostro precedente articolo.

 

Il colpo da maestro di una propaganda ben organizzata consiste nell’enfatizzare fenomeni marginali, del tutto minoritari nel mondo reale, fino a farli diventare artificiosamente questioni di interesse pubblico. Anzi, questioni di vita o di morte in seno a una società frastornata, resa orfana degli strumenti della logica e del pensiero.

 

È così che, a dispetto del senso delle proporzioni – e, prima ancora, del senso primitivo del bene e del male – questi fenomeni prendono corpo proprio grazie alle chiacchiere che vi si sprecano attorno e che risuonano dappertutto, dalle accademie alle sagrestie. Cavalcati con sussiego dal benpensante trasversale, assumono una consistenza che non hanno, poi si propagano per contagio indotto, poi si affermano sulla pubblica piazza come esigenza impellente di un’intera collettività. Pronti al debutto con l’abito formale del «diritto», oggi acquistabile per pochi spiccioli al mercatino delle pulci.

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La transizione di genere è una moda che, a causa dei danni procurati, ha imboccato la via del tramonto nella parte del mondo in cui era stata lanciata, ma è in trionfante ascesa nell’altra parte di mondo, quella che si ostina ad alimentarsi dei rifiuti altrui nonostante la loro manifesta tossicità.

 

La cosiddetta carriera alias è un pezzo importante di quella moda: serve a reclutare adepti, a fidelizzarli all’ambiente alternativo che lavora nel settore da decenni, a incanalarli precocemente lungo la strada senza ritorno delle terapie ormonali e della chirurgia affermativa. Per questo si sta espandendo nelle scuole come una macchia d’olio. Conta sulla fragilità dei più giovani, psico-fisicamente disintegrati e lasciati a fluttuare nel nulla cosmico apparecchiato per loro; conta sulla cedevolezza degli adulti in totale disarmo cognitivo; conta sulla ignavia delle istituzioni incapaci di comprendere il senso del diritto perché, forse, ormai il diritto ha perduto il suo senso per tramutarsi definitivamente in un’arma contundente a servizio del potere di turno.

 

Gli ideatori della carriera sono i legali della Rete Lenford, impegnati nella promozione dei diritti LGBTQ+. Tra i loro obiettivi dichiarati, quello di «…provocare un cambiamento delle norme giuridiche in senso più avanzato e quindi una trasformazione sociale verso l’inclusione e la non discriminazione». Cioè, più che operare secondo diritto dentro la cornice dell’ordinamento positivo, vogliono esercitare attività di pressione per forzarne l’assetto. Ce lo dicono, non ne fanno mistero, è la missione a cui si sono votati.

 

Il modello di regolamento di carriera alias proposto dalla Rete per le scuole prevede che qualsiasi alunno sostenga, in un dato momento, di non sentirsi a proprio agio nel «sesso assegnato alla nascita» possa comunicare al dirigente di voler assumere entro il contesto scolastico una identità elettiva, ovvero pretendere di essere chiamato da tutti, e indicato nei documenti interni, con un nome diverso dal proprio. Giovanni potrà diventare Serena, Lucia potrà diventare Ernesto, e preside, docenti, compagni, bidelli, segretari, saranno tenuti ad assecondare la sua volontà sovrana.

 

Sopra i quattordici anni – sempre secondo il modello proposto dalla Rete – non sarà neppure necessario che i genitori siano messi al corrente della scelta del figlio, che indosserà a scuola una identità parallela come una volta si indossava il grembiule, e si appresterà in autonomia a inaugurare una nuova vita. Non sarà lasciato solo nel suo viaggio, ovviamente: persone premurose si prenderanno cura di lui e lo sosterranno nella carriera intrapresa, destinata a proseguire verso la modificazione dei connotati fisici in via farmacologica e chirurgica.

 

Vale la pena di mettere in fila alcuni fatti e alcune osservazioni per cercare di fare luce su un fenomeno di costume che in Italia si fa strada incontrastato sulle ali della mistificazione. Le sue implicazioni sono tante, e sono enormi.

 

Come si diceva, i paesi anglosassoni che a quel costume avevano dato i natali hanno ingranato una risoluta marcia indietro.

 

Dopo la recente chiusura della clinica Tavistock di Londra, il più grande centro al mondo nel trattamento della disforia di genere sui minori attivo dal 1989, il National Health Service ha comunicato che in Gran Bretagna non potranno più essere somministrati bloccanti della pubertà (puberty blocker) ai minorenni.

 

La spallata finale al gigantesco business sanitario legato alle transizioni precoci, già scricchiolante, l’hanno data i messaggi trapelati da una chat interna del WPATH (World Professional Association for Transgender Health), considerato la principale autorità scientifica globale sulla «medicina di genere», i cui standard di cura «hanno plasmato le linee guida, le politiche e le pratiche di governi, associazioni mediche, sistemi sanitari pubblici e cliniche private in tutto il mondo, OMS compresa». OMS compresa. Ne scrive Marina Ferragni qui e qui e si invita caldamente il lettore a non trascurare la lettura di questi due articoli fondamentali e sconvolgenti: trattasi di un dovere morale.

 

Dalle conversazioni degli spregiudicati membri della chat del WPATH (chirurghi, medici, terapisti vari) risulta chiaramente come i trattamenti farmacologici e chirurgici inflitti ai minori consistessero in pratiche improvvisate, dalle conseguenze imprevedibili e di sicuro incomprese nella loro vera entità dai giovani pazienti, alcuni dei quali affetti da conclamati ritardi mentali o patologie psichiatriche.

 

Vi si trovano descrizioni raccapriccianti delle cruente tecniche di mutilazione (cosiddetta chirurgia correttiva: falloplastiche e vaginoplastiche) sperimentate per manomettere irreversibilmente i loro organi sessuali; condite con cinici commenti degli esecutori di quegli esperimenti, concordi nell’auspicare un approccio il più possibile precoce ai protocolli perché, si sa, prima si interviene meglio è.

 

Tanto orrore non poteva evidentemente perpetuarsi indisturbato, ed è venuto a galla travolgendo un apparato tentacolare che si credeva intoccabile, blindato dentro un gomitolo di interessi multimiliardari.

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Da noi però, nel frattempo, la sfolgorante carriera della carriera alias va avanti tra gli applausi automatici di spettatori inebetiti e l’ignavia di una massa irretita dalla prepotenza di una minoranza urlante, e molto ben addestrata. Si registrano qua e là sparuti sussurri di perplessità; nelle alte sedi istituzionali, sì e no un paio di gridolini di sdegno emessi ad pompam a favor di telecamera, giusto per compiacere un elettorato dolosamente cornuto e dolosamente mazziato.

 

Ora, non si dica che, investendo un profilo meramente onomastico, la carriera alias nulla ha a che fare con operazioni psicologicamente e fisicamente più invasive. Non è vero. La carriera si pone in un continuum programmatico con la transizione ormonale e chirurgica. La sua funzione è proprio quella di fare da anticamera alle tappe successive, e risolutive, del «cambio di sesso», di cui il cambio di nome costituisce tecnicamente una anticipazione, favorendo la cosiddetta transizione sociale.

 

Che questa sia la funzione specifica della carriera lo dicono in modalità ancor più esplicita i documenti amministrativi che si sforzano di disciplinarla, supplendo al silenzio della legge. Per esempio, c’è un contratto collettivo di lavoro del comparto Istruzione e Ricerca e ci sono delle linee guida del Ministero della Difesa che ancorano la carriera alias al procedimento di transizione di genere definendola apertis verbis una «anticipazione» del provvedimento che la stabilirà in via definitiva: «l’identità alias costituisce un’anticipazione dei provvedimenti che si renderanno necessari al termine del procedimento di transizione di genere, quando il soggetto sarà in possesso di nuovi documenti di identità personale a seguito di sentenza del Tribunale, passata in giudicato, che ne rettifichi l’attribuzione di sesso e il nome attribuito alla nascita».

 

Il collegamento tra carriera e rettificazione di sesso è dunque qualcosa di espressamente riconosciuto e non solo intuitivamente ipotizzabile.

 

Ma la disciplina elaborata da parte di alcune amministrazioni non può che rendere ancora più eclatante l’azzardo che risiede nel consentire alla popolazione scolastica, e in particolare a scolari minori di età, l’accesso incondizionato alla carriera alias tramite una mera, estemporanea dichiarazione di volontà e a prescindere da ogni ulteriore presupposto di fatto e di diritto.

 

Molti istituti, infatti, hanno approvato de plano il regolamento della carriera nella sua versione più ampia, proposta dalla Rete Lenford. Ciò dà luogo a un duplice abuso: viene calpestato il primato educativo della famiglia, nel caso questa non sia coinvolta in via prioritaria; assecondando acriticamente un momentaneo desiderio in assenza di alcun appiglio oggettivo, viene omesso a priori il perseguimento del miglior interesse del minore e vengono gettate arbitrariamente le premesse di un suo radicamento identitario non armonizzato al sesso di appartenenza.

 

Vale a dire: uno si dichiara in crisi di identità prima ancora di aver completato la fase dello sviluppo, quando cioè, di fatto, non ha ancora vissuto nel corpo che si appresta a rifiutare, e la scuola, anziché fare la sua parte per favorire la rimozione delle cause della crisi e un’intima riconciliazione con se stesso, si presta a incoraggiare un soggetto sano a intraprendere un iter di medicalizzazione perenne.

 

Va però chiarito come non si debba nemmeno pensare che qualche ritocco cosmetico al regolamento standard sia capace di sanare l’illegittimità insita nella sua adozione. Inventarsi una formulazione meno spinta di quella suggerita dalla Rete – per esempio richiedendo il consenso dei genitori, o una documentazione da cui risulti il pregresso avvio di un parallelo percorso medico o psicologico – non significa muoversi nel rispetto della legge.

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La possibilità stessa di assumere un’identità alias rappresenta infatti un indebito superamento delle norme anagrafiche e, prima ancora, delle norme che disciplinano il diritto personalissimo al nome: è una deroga circoscritta entro un perimetro stabilito, ma pur sempre una deroga, che genera una sorta di bizzarro regime di extraterritorialità. Lo esprimono bene le già citate linee guida del Ministero della Difesa, laddove contemplano «la possibilità di assumere in via interinale «un’identità alias», utilizzando un prenome (articolo 6, comma 2, del codice civile) differente da quello risultante dall’anagrafica del Ministero della Difesa, per le attività interne all’Amministrazione, in attesa che il percorso della rettificazione di attribuzione anagrafica di sesso, di cui alla legge n. 164 del 1982, porti al rilascio di una documentazione definitiva».

 

Citando l’articolo 6 del codice civile, che disciplina il «diritto al nome» – e stabilisce che: 1. «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito»; 2. «nel nome si comprendono il prenome e il cognome»; 3. «non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati», ovvero attraverso sentenza del giudice competente) – insieme alla legge 164/82 che disciplina la rettificazione di sesso, l’amministrazione ammette di derogare, in parte qua, alle stesse – oltre che all’articolo 35 dell’Ordinamento dello stato civile (dpr 396/2000), che esordisce: «il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso…».

 

Dal combinato disposto di queste norme discende infatti che il nome di una persona possa subire modifiche soltanto a seguito di una sentenza ad hoc. E invece con la carriera alias non si fa altro che stabilire arbitrariamente una anticipazione di quella sentenza, sostituendosi di fatto al legislatore, che nulla ha previsto al riguardo: nessuna fonte di rango legislativo ammette infatti una simile anticipazione.

 

Né vale invocare che la ratio della anticipazione insita nella carriera alias è quella, nobile e inoffensiva, «di promuovere il riconoscimento dei diritti della persona in transizione di genere…al fine di eliminare situazioni di disagio e forme di discriminazioni legate al sesso, all’orientamento sessuale e all’identità di genere».

 

Perché dalla carriera alias, a fronte dei «diritti» in capo al soggetto in transito, scaturiscono correlativi «doveri» per una serie di altri incolpevoli soggetti, ai quali è imposto di subire le ricadute di una decisione unilaterale; in altre parole, la manifestazione di volontà di un soggetto, sganciata da alcun dato oggettivo (e anzi, in contrasto con il dato biologico dei propri caratteri sessuali) genererebbe effetti vincolanti per l’intera comunità di riferimento, chiamata a subirli passivamente.

 

In ambito scolastico, ciò significa per esempio, per gli altri studenti, dover condividere una stanza in gita scolastica, o bagni, o spogliatoi, con un compagno che si afferma di sesso diverso da quello effettivo. E comunque significa, per tutti quanti, assorbire dalla stessa istituzione, che incarna l’autorità, una alterata percezione della realtà, dei suoi equilibri e dei suoi paradigmi essenziali.

 

La carriera alias costituisce quindi una conclamata violazione del principio di legalità della azione amministrativa: adottandola, la pubblica amministrazione si intesta abusivamente un potere legislativo che per definizione non le appartiene.

 

Una violazione, questa, tanto più grave in quanto investe la sfera di diritti personalissimi e, nel caso delle scuole, interferisce con la tutela potenziata che spetta a soggetti incapaci di agire in ragione della loro minore età, e coinvolge soggetti, quali preside e docenti, che nell’esercizio delle rispettive funzioni rivestono il ruolo di pubblici ufficiali.

 

Infine, vale la pena aggiungere che una condotta antigiuridica non perde la propria antigiuridicità in ragione della sua diffusione: la circostanza che tante scuole abbiano già allegramente deliberato la loro carriera senza farsi troppi problemi non elimina la responsabilità di chi si mette in coda e le copia, perché pare brutto rimanere indietro. Semmai, l’emulazione acritica aggrava l’ignominia.

 

Il fatto è che, nella giostra dei diritti di tutti e della discriminazione di nessuno, si è pericolosamente diffusa la convinzione che un qualsiasi desiderio, più o meno transitorio, sia idoneo a far sorgere situazioni giuridicamente rilevanti, attive e passive, con ricadute sulla altrui sfera di libertà. Con tanti saluti al senso del diritto, alla gerarchia delle fonti, al principio di legalità, che non abitano più in questo disgraziato Paese.

 

In attesa che, se Tonina afferma di sentirsi preparata in geografia acquisti il diritto al nove sul registro; o se Gigetto sostiene di essere un ballerino provetto, abbia il diritto di essere scritturato alla Scala.

 

Con la benedizione della scuola, del ministero dell’istruzione e del merito, della società tutta.

 

Elisabetta Frezza

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Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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