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Gender

La rivoluzione transessualista a scuola e oltre: ecco la «carriera alias»

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Il sovvertimento dell’ordine stabilito da madre natura, della biologia (letteralmente: il lògos della vita), e dello stesso principio di realtà, è il frutto del delirio di onnipotenza esercitato dai pochi in danno dei molti storditi dal fumo delle parole truccate.

 

Le parole sono il carro in cui si trasportano le idee; e la perturbazione dell’universo linguistico e concettuale, studiata a tavolino nelle centrali di potere sovranazionale, è stata funzionale al cambio di paradigma verso il transumano e il postumano. Vale a dire, verso l’antiumano.

 

In cantiere da molto tempo, la rivoluzione più intima, profonda e devastante della storia è giunta al suo apogeo grazie al progresso tecnologico e al regresso cerebrale, ambedue ormai fuori controllo.

 

Il termine «genere» fino alla metà degli anni Sessanta stava a significare un criterio distintivo meramente grammaticale.

 

L’origine della nuova accezione – quella che oggi pervade il lessico corrente, dai trastulli della Crusca ai moduli della burocrazia, e ogni aspetto del vivere comune – è storicamente legata ai protocolli sanitari di cosiddetta «riassegnazione di sesso» del dottor Money, il medico che, a metà degli anni Sessanta, fondò a Baltimora la «clinica per l’identità di genere».

 

L’invenzione lessicale di Money serviva alla promozione dei suoi esperimenti di cosiddetta «trasformazione sessuale» sui bambini: dopo aver inaugurato la pratica sulla pelle dei poveri gemellini Reimer (1969) e a dispetto della tragedia provocata (un duplice suicidio), egli la replicò in serie, giustificandola con l’idea che gli esseri umani sarebbero alla nascita psicosessualmente plastici e che la personalità maschile o femminile, lungi dal dipendere dal dato biologico (sesso), sarebbe un mero costrutto sociale (genere).

 

La cosiddetta comunità scientifica internazionale, eterodiretta mediante l’infallibile esca del denaro, anziché relegare l’esperienza di Money nel libro degli orrori, la premiò e ne trasse rovinoso esempio.

 

Intanto, della trovata semantica partorita dalla mente perversa dello psico-chirurgo di Baltimora si appropriò il movimento femminista radicale, che fece del «genere» il proprio cavallo di battaglia per sostenere come le differenze tra maschio e femmina non siano naturali, ma sedimentate artatamente in seno a una società che, in quanto dominata dal rigido modello familiare, si configura come patriarcale, gerarchica, sessista: dove il maschio è padrone e la femmina oppressa.

 

Declinando la lotta tra i sessi sulla falsariga della lotta di classe, le femministe identificano nella famiglia il primo nucleo della lotta di classe tra maschi padroni e femmine costrette in ruoli subalterni e schiave della riproduzione.

 

L’obiettivo del movimento, tanto lucidamente (e luciferinamente) preconizzato dalla sua corifea Shulamith Firestone, era quindi la distruzione della famiglia, la liberazione sessuale totale (pedofilia e incesto compresi), il pieno controllo sulla riproduzione. L’abolizione della distinzione tra i sessi.

 

In questa prospettiva, l’omosessualismo è stato visto, e cavalcato, come il grimaldello in grado di scardinare l’idea di famiglia pur senza rinunciare alla sua rassicurante iconografia, tanto radicata nell’immaginario collettivo da rendere imprudente e velleitario un attacco frontale: così la facciata della famiglia resta in piedi e l’insegna non viene rimossa, ma il contenuto è polverizzato e artificialmente ridefinito. Rifratta in un caleidoscopio di parodie, essa, di fatto, esce dissolta.

 

A garantire la fornitura di cuccioli d’uomo laddove per legge di natura vige la sterilità, interviene la tecnica: si può ordinare da catalogo un essere umano fabbricato in laboratorio, in modo da attribuirgli a ritroso la qualifica di «figlio», ottenere di rimbalzo la patente di «genitore» e infine suggellare il tutto con la ragione sociale di «famiglia». E il gioco di prestigio è fatto.

 

Ma la sfolgorante carriera del gender subisce una svolta davvero decisiva allorché, grazie all’accorto piano di un drappello di attivisti, approda all’ONU.

 

Dale O’Leary, che ha assistito da testimone diretta ai lavori preparatori della conferenza di Pechino sulla donna (1995), nel suo libro The gender agenda racconta nel dettaglio come in quella sede sia stato realizzato un vero e proprio colpo di mano: approfittando del fatto che la nuova accezione di «genere» non esisteva in alcun dizionario di alcuna lingua, e che la maggior parte dei delegati alla conferenza era convinta fosse solo un sostituto gentile, più raffinato ed elegante, della parola sesso, si è riusciti a introdurla di soppiatto nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite e così a promuovere in tutto il mondo – avvalendosi del prestigio e della carica intimidatoria dell’istituzione – la «agenda di genere», ovvero lo spartito di un modo totalmente nuovo, e artefatto, di concepire la società, la politica, la cultura, la formazione.

 

La penetrazione in organismi potentissimi e già consacrati al controllo della popolazione e al contenimento demografico – ONU e vari enti satelliti, tra cui OMS, UNICEF, UNESCO, etc. tutti mastodonti burocratici coperti da subdoli intenti umanitari – ha fornito i mezzi per organizzare un enorme esercito ben equipaggiato, capace di imporre il programma su scala planetaria.

 

È accaduto, insomma, che un sistema di idee creato dal nulla dalla lucida demenza di un manipolo di visionari ha lucrato il potere immenso, la potenza economica e l’estensione capillare delle strutture sovranazionali generando quell’imponente fenomeno di illusionismo collettivo che ha indotto le masse, già adeguatamente stordite, a vivere dentro vere e proprie allucinazioni.

 

Ma si sa che, in ogni rivoluzione che si rispetti, il bersaglio d’elezione sono i più piccoli. Non per nulla, il traguardo di ogni progetto egemonico è l’invasione di campo della educazione.

 

Lo aveva ben presente Bertrand Russel quando, nel suo L’impatto della scienza sulla società (1951), scriveva:

 

«Di tutti i metodi, il più influente si chiama istruzione […]. Possiamo sperare che nel tempo, chiunque potrà convincere chiunque di qualunque cosa, a patto che possa lavorare con pazienza sin della sua giovane età e che lo Stato gli dia il denaro e i mezzi per farlo. La questione evolverà a lunghi passi allorché sarà posta in opera da scienziati sotto una dittatura scientifica».

 

«I socio-psicologi del futuro avranno a loro disposizione un certo numero di classi di scolari, sui quali collauderanno differenti metodi per far insorgere nel loro animo la incrollabile convinzione che la neve sia nera. Si constaterà rapidamente qualche problema».

 

«In primo luogo, che l’influenza della famiglia è un ostacolo. In seguito, che non si andrà molto lontano se l’indottrinamento non sarà iniziato prima dell’età dei dieci anni. In terzo luogo, che dei versi messi in musica ed eseguiti a intervalli regolari sono assai efficaci. In quarto luogo, che credere che la neve sia bianca dovrà essere visto come il segno di un gusto malato per l’eccentricità».

 

La cosiddetta «carriera alias» è l’ultima tappa di questa surreale guerra alla realtà, e sta oggi invadendo le scuole italiane con una accelerazione che induce a pensare come, forse, il disagio dirompente e diffuso che il biennio emergenziale ha provocato nei più giovani rappresenti una occasione d’oro di cui approfittare per un reclutamento straordinario.

 

A ben vedere, il fenomeno «alias» riassume in sé tutti gli elementi costitutivi di una ideologia, come quella del gender, nata e cresciuta sotto il segno della manipolazione e della prevaricazione. E d’altra parte, una volta abbandonata ogni presa sul dato oggettivo, il trionfo dell’arbitrio individuale non può che scivolare verso l’abuso: per definizione, quello del più forte sul più debole e indifeso.

 

Anticipata, alla stregua di ogni altro fenomeno di costume, dalle avanguardie anglosassoni, la «carriera alias» non ci ha impiegato molto ad approdare nelle colonie, accompagnata dalla suggestione dei soliti slogan filantropici: doveroso tributo al diritto a essere se stessi, essa risponderebbe a una scelta di civiltà, a ineludibili esigenze di inclusione, a un’urgenza di verità. E chi osi avanzare qualche riserva, passa automaticamente nel novero dei retrogradi oscurantisti, dei cinici e degli inumani. Il copione rivoluzionario, per affermare il mondo all’incontrario, è sempre lo stesso.

 

La più parte dei docenti e dei genitori ignora di cosa veramente si tratti. Sì che, presa alla sprovvista, finisce travolta dalla sicumera di piazzisti ben addestrati a vendere la mercanzia all’ultimo grido. Il modello di regolamento della «carriera alias» che viene presentato nelle scuole è redatto dalla Rete Lenford, associazione di legali per i diritti LGBTQ, e viene sottoposto alla approvazione degli organi collegiali come fosse un novello evangelo.

 

Vi si prevede che lo studente «disforico», attraverso una semplice domanda rivolta al dirigente scolastico – una sorta di autocertificazione – possa acquisire, «senza esibire alcun tipo di documentazione né medica, né psicologica», il diritto a essere chiamato da tutti, all’interno della struttura scolastica, con un nome diverso da quello attribuito alla nascita e non corrispondente al sesso di appartenenza, nonché di vedersi riconosciuta da tutti, sempre all’interno della struttura scolastica, l’identità parallela prescelta.

 

Se ha compiuto i quattordici anni, il tutto potrà avvenire all’insaputa dei genitori; solo per gli infraquattordicenni è prevista comunicazione (a cose fatte) alla famiglia.  In sostanza, Ugo potrà pretendere che tutti a scuola lo considerino Marinella, semplicemente avvisando il dirigente di percepirsi femmina; così come Lia, sentendosi maschio, potrà diventare per tutti Arturo.

 

L’identità elettiva conferirà il diritto di utilizzare i servizi igienici e gli spogliatoi riservati al genere prescelto. Ma – attenzione – la messinscena varrà soltanto entro il perimetro della scuola, perché all’esterno Ugo tornerà Ugo e Lia tornerà Lia, come vuole l’anagrafe.

 

E poiché alla elargizione di diritti non può non corrispondere una correlativa imposizione di doveri, nel regolamento si legge anche che «in caso di inosservanze, chiunque ne faccia esperienza o ne abbia (direttamente o indirettamente) notizia, anche in ragione di eventuali rapporti fiduciari, informerà tempestivamente la dirigenza scolastica, affinché siano adottati gli opportuni provvedimenti…».

 

Insomma, il pacchetto include un sistema delatorio/inquisitorio/sanzionatorio affidato alla piena discrezionalità del dirigente. L’apprendista legislatore si ritiene superiore, oltre che al principio di legalità, anche a quello della certezza del diritto.

 

Ebbene, siamo di fronte alla pretesa, da parte di un soggetto evidentemente privo di alcun corrispondente potere, di imporre una pseudo-normativa speciale – riferita cioè a una categoria di studenti privilegiata (in barba al tanto sbandierato principio di uguaglianza) – capace di generare una bizzarra forma di extraterritorialità: dentro l’isolotto scolastico, che batte quindi una propria bandiera, tutti sono chiamati a tenere in piedi una finzione per assecondare la fantasia estemporanea di studenti che si dichiarano in crisi identitaria prima ancora di aver completato la fase dello sviluppo: quando cioè, di fatto, non hanno ancora vissuto nel corpo che vorrebbero rifiutare.

 

Anziché adoperarsi per aiutarli a rimuovere le cause della mancata accettazione della propria identità sessuata e favorire la riconciliazione con se stessi e col proprio corpo, la scuola si presta a sponsorizzare a sua volta la «transizione sociale», anticamera di quella ormonale e chirurgica, così concorrendo a istigare soggetti sani ad intraprendere un iter di medicalizzazione perenne.

 

Infatti, perlustrando il loro sito, si scopre che, tra gli scopi perseguiti dagli avvocati della Rete Lenford, vi è quello di promuovere «azioni giudiziarie che possono provocare un cambiamento delle norme giuridiche in senso più avanzato e quindi una trasformazione sociale verso l’inclusione e la non discriminazione».

 

Essi quindi, per loro esplicita dichiarazione, non operano secondo diritto nel quadro dell’ordinamento positivo vigente, ma esercitano attività di pressione per forzarne l’assetto.

 

Prova ne sia che sul sito stesso è presente anche un questionario, offerto anche alla fascia di popolazione 0-12 anni che, dopo aver fornito un articolato elenco di generi alternativi, suggerisce soluzioni per far fronte a ipotetiche eventuali discriminazioni. Tra le proposte figurano: «Identità alias obbligatoria in tutte le scuole di ordine e grado senza certificazione medico-psicologica (con autorizzazione della famiglia fino ai 14 anni)» o «Autorizzazione interventi chirurgici senza obbligo percorso psicologico».

 

In pratica, si ammette che un bambino sia libero di intraprendere scelte irreversibili (quali il blocco dello sviluppo per via farmacologica e la asportazione chirurgica di parti del corpo) senza nemmeno dover approfondire le motivazioni psicologiche sottese a una tale decisione. C’era una volta il principio di precauzione…

 

Si ricordi, per incidens, che nel 2018 è stato approvato in Italia, e inserito nei LEA, l’uso dei bloccanti (triptorelina) per «estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé senza sperimentare il disagio di cambiamenti fisici incongruenti con la propria identità di genere». E che nel 99% dei casi l’assunzione del farmaco prelude alla via chirurgica, poiché quasi nessuno dopo quel passo torna indietro (mentre invece quasi tutti, crescendo, avrebbero semplicemente cambiato idea riallineandosi alla propria identità sessuata).

 

Non è difficile comprendere a chi giovi questa moda sciagurata che, al riparo del paravento filantropico, avanza a passo totalitario in groppa a una martellante propaganda allestita per incoraggiare in ogni modo la dissociazione, e sempre più precocemente: è il profitto delle multinazionali biotecnologiche e farmaceutiche a fare, ancora una volta, da sfondo e da benzina alla spinta verso la medicalizzazione a vita di corpi sani.

 

Come effetto collaterale, per sovramercato, si spalancano le porte all’industria della fecondazione in vitro e delle biotecnologie legate alla riprogenetica, a cui la sterilizzazione di bambini e adolescenti assicura un esercito di nuovi consumatori.

 

Si capisce allora come le scuole siano praterie sterminate da espugnare, dove la miccia del contagio sociale trova il miglior conduttore: un ricco e variegato materiale umano, insieme alla forza persuasiva degli «esperti», insieme al crisma dell’ufficialità dell’istituzione. L’amplificazione dei rischi depressivi e suicidari e della vittimizzazione da bullismo, che serve a terrorizzare e colpevolizzare le famiglie e tutto l’ambiente di riferimento, è ingrediente fondamentale della campagna promozionale. Intere categorie di professionisti (medici, psicologi, assistenti sociali) sono arruolate per sostenere l’operazione. Anche tra loro, guai dissentire, sennò diventi un mostro.

 

In questo momento, nell’Italia gregaria, la «carriera alias» procede col vento in poppa e nella più sconcertante acquiescenza generale.

 

Intanto, in Gran Bretagna, genitori di minorenni transgender hanno citato in giudizio il Dipartimento dell’Istruzione per avere consentito (o non avere fatto nulla per impedire) l’indottrinamento dei figli a opera di organizzazioni LGBTQ; per non essere stati informati per tempo sui loro supposti disagi; per non aver evitato danni prevedibili. Dove il concetto chiave è appunto la «prevedibilità» del danno. Che è danno immane, e irreversibile.

 

Non solo. La clinica Tavistock di Londra, il più grande centro al mondo nel trattamento della disforia di genere sui minori, è stata messa sotto accusa dai medici che vi hanno lavorato ed è stata infine costretta a chiudere i battenti.

 

Conviene dunque che gli istituti scolastici nostrani e chi li rappresenta, nel momento in cui prendono in esame la proposta di «regolamento» della «carriera alias», abbiano adeguata contezza delle sue implicazioni poiché, avallandola, si espongono a precise, pesanti responsabilità.

 

In conclusione, dunque, si ritorna all’inizio di tutto: si ritorna a Money e all’abuso di minori perpetrato tramite la manipolazione e la prevaricazione. Il cuore del gender abita a Baltimora.

 

Il suo intento è rapinare l’innocenza dei più piccoli, violentare la loro libertà morale e la loro sensibilità, ingannare la loro buona fede; è strappare dalle giovani menti l’evidenza delle cose, scardinando il normale e naturale processo di formazione identitaria, che dura una vita intera e dalla vita si lascia modellare fino alla fine, ma che poggia su presupposti oggettivi insuperabili.

 

Perché c’è una realtà – c’è una verità – che ci precede e ci resiste e che a sfregiarla ci si fa del male.

 

Del resto, «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più» (Hannah Arendt).

 

Elisabetta Frezza

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Articolo apparso previamente su Visione, Volume VI, p. 246 e su Ricognizioni.

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Gender

Ministro contro sacerdote spagnuolo che ha negato la comunione a un politico omosessuale: rischia il processo. Sotto tiro anche le terapie di conversione

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Un prete cattolico in Spagna potrebbe dover affrontare accuse penali per aver negato l’Eucaristia ad un politico apertamente omosessuale. Lo riporta il sito cattolico The Pillar.   Negare la Comunione «è contrario alla Costituzione spagnola», ha affermato la ministra socialista per l’Uguaglianza Ana Redondo in un’intervista a gennaio, sostenendo che la Chiesa cattolica «non può, anche in assenza di una legge specifica, essere sottratta alle regole costituzionali, al principio di uguaglianza e di non discriminazione dell’articolo 14».   «Non puoi discriminare un cittadino LGTBI e chiedergli di scegliere la sua fede o la sua condizione sessuale», ha aggiunto. «Questo è chiaramente discriminatorio e spero che ci sarà una sfida», nel senso di un’azione legale..   La Redondo ha risposto a una dichiarazione del sindaco socialista della cittadina di Torrecaballeros nella provincia di Segovia. L’11 gennaio, Ruben Garcia de Andres ha scritto su X che il suo parroco gli aveva negato la Santa Comunione a causa della sua relazione omosessuale pubblica.   Garcia ha affermato che gli è stata negata l’Eucaristia «a causa della mia condizione sessuale e della convivenza con il mio partner».  

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L’uomo omosessuale ha quindi accusato parti della Chiesa cattolica segoviana di «omofobia» e ha lamentato che «per la Chiesa di Segovia, la primavera di Francesco non è arrivata».   Il Garcia ha lasciato intendere che Papa Francesco avrebbe disapprovato la negazione della Santa Eucaristia in questo caso, dato il suo passato sostegno all’agenda omotransessualista, incluso il permesso di «benedizione» per le coppie dello stesso sesso .   The Pillar riporta che un’altra coppia omosessuale ha denunciato che lo stesso sacerdote, padre Felicien Malanza Munganga, originario del Congo, le ha negato la Santa Comunione.   In una dichiarazione pubblicata il 12 gennaio, il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) ha chiesto al nuovo vescovo di Segovia di «porre fine alla discriminazione basata sull’orientamento sessuale nella Chiesa di Segovia». Il PSOE ha accennato a possibili azioni legali, affermando che «la legislazione del nostro Paese ha caratterizzato i crimini d’odio basati sull’orientamento sessuale e siamo convinti che questa situazione finirà alla radice, poiché nessuno vuole percorrere quella strada».   La diocesi di Segovia ha pubblicato una dichiarazione in risposta al PSOE, affermando che il sacerdote non ha agito in modo «omofobo e discriminatorio».   «In ottemperanza al suo ministero e seguendo le regole della Chiesa universale sulla ricezione della Santa Comunione», dice la nota, il sacerdote è stato costretto a negare la Comunione alle persone dello stesso sesso che vivono in forma matrimoniale, cosa che può accadere anche tra persone eterosessuali senza vincolo matrimoniale».   «Non si tratta di omofobia o discriminazione, poiché la Comunione non viene negata a causa della condizione omosessuale, ma per difendere il carattere sacro dell’Eucaristia», prosegue la dichiarazione.   La diocesi ha affermato che la richiesta del PSOE di Segovia è un «giudizio diffamatorio» e una «ingerenza inammissibile negli affari interni della Chiesa, nonché un attacco alla libertà religiosa garantita dalla Costituzione».   «I cattolici sanno che per ricevere l’Eucaristia, siano essi omosessuali o eterosessuali, sono richieste alcune condizioni oggettive di moralità, e la Chiesa ha l’autorità di negare la Comunione quando queste non vengono rispettate, soprattutto se ciò provoca scandalo tra i fedeli, come è accaduto nei casi di Segovia».

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La Chiesa cattolica ha sempre proibito agli individui impenitenti di ricevere la Comunione, secondo le parole di San Paolo, che scrive nella prima lettera ai Corinzi: «Cosicchè chi mangi il pane o beva il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore» (1Cor 11, 27).   Il paragrafo 915 del Codice di Diritto Canonico stabilisce che «devono essere allontanati dal ricevere la Divina Eucaristia coloro che sono pubblicamente indegni».   La Chiesa in Spagna potrebbe essere perseguitata legalmente anche per altri motivi a causa del suo insegnamento e della sua pratica apostolica sul matrimonio e sulla famiglia, scrive LifeSite.   Il ministro spagnolo per l’uguaglianza Redondo ha anche detto nell’intervista che avrebbe incontrato il vescovo spagnolo per discutere la questione di sette diocesi spagnole accusate di sostenere la «terapia di conversione» per gli omosessuali, che è illegale e punibile con una multa in Spagna. Molte diocesi hanno negato tale accusa e hanno affermato di aver semplicemente tenuto colloqui con persone precedentemente coinvolte in attività omosessuali.   Il ministro Redondo ha affermato che si aspetta che la Corte costituzionale spagnola «chiarisca in una sentenza in che misura ciò incide sul principio di uguaglianza e non discriminazione». «Non esiste alcuna legge che proibisca le regole ecclesiastiche, ma queste regole ecclesiastiche devono essere interpretate secondo la Costituzione e secondo il principio di uguaglianza», ha affermato.

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Immagine di Wamba Wambez via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
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Trump firmerà un ordine esecutivo che vieta ai trans di entrare nell’esercito

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Il presidente Donald Trump dovrebbe firmare oggi degli ordini esecutivi che licenzieranno sia le persone che si identificano come «transgender», sia i programmi «Diversità, equità e inclusione» (DEI) delle forze armate statunitensi.

 

L’attivista Charlie Kirk di Turning Point USA ha riferito su X che il Presidente metterà al bando «i membri transgender in servizio e i programmi DEI militari».

 

«Le persone che combattono gravi malattie mentali non hanno posto nell’esercito», ha aggiunto Kirk. «Fate in modo che aiutino e che escano dalle forze armate».

 

Il New York Post ha riferito oggi che il Dipartimento della Difesa dovrà elaborare e attuare la nuova politica dopo che il Presidente avrà firmato l’ordine. Il Post ha citato un documento della Casa Bianca che «annuncia l’ordine sui soldati transgender» e che recita «La coesione unita richiede alti livelli di integrità e stabilità tra i membri del servizio» e che non dovrebbe esserci «nessuna sistemazione per niente di meno che resilienza, forza e capacità di resistere a richieste fisiche straordinarie».

 

«Gli individui che non sono in grado di soddisfare questi requisiti non possono prestare servizio nell’esercito. Questo è il caso da decenni».

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Sottolinea inoltre l’ovvio riguardo alla cosiddetta operazione di «cambio di sesso»: «possono volerci almeno 12 mesi prima che un individuo completi i trattamenti dopo l’operazione di transizione, che spesso comporta l’uso di narcotici pesanti. Durante questo periodo, non sono fisicamente in grado di soddisfare i requisiti di prontezza militare e necessitano di cure mediche continue. Ciò non favorisce la distribuzione o altri requisiti di prontezza».

 

Il Post ha anche citato una statistica del 2014 che suggeriva che anche allora c’erano circa 15.500 militari statunitensi che si identificavano come «transgender».

 

Nel suo primo giorno in carica quest’anno, il presidente Trump ha revocato un ordine esecutivo del regime di Biden che consentiva alle persone con identità di genere incerte di arruolarsi nell’esercito.

 

L’ordinanza di Biden ha reso «politica degli Stati Uniti garantire che tutti i [cosiddetti] individui transgender che desiderano prestare servizio nell’esercito degli Stati Uniti e possono soddisfare gli standard appropriati possano farlo apertamente» e senza presunte «discriminazioni», revocando la decisione del primo mandato del presidente Trump di vietare alle persone con confusione di genere di arruolarsi nell’esercito.

 

Il presidente in carica ha anche revocato altri ordini di Biden su transgenderismo e omosessualità, tra cui diversi relativi a «identità di genere» e «orientamento sessuale».

 

Il presidente Trump ha anche reso una politica del governo degli Stati Uniti quella di far sì che esistano solo due sessi, maschile e femminile.

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Immagine di pubblico dominio CCo via Flickr

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«Vescova» episcopaliana predica contro Trump ad una funzione in sua presenza

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Una «vescova» della diocesi episcopaliana di Washington ha attaccato duramente Donald Trump durante un sermone tenuto in sua presenza.   Gli episcopaliani sono una sorta di versione americana degli anglicani, dove pure le vescove (o vescovesse) sono state grottescamente introdotte da anni.   La vescova Mariann Edgar Budde, durante una funzione alla Cattedrale di Canterbury della capitale americana, ha criticato severamente dal pulpito Donald Trump, che era presente con la famiglia e con il vicepresidente JD Vance, per le sue posizioni su LGBT, sui bambini trans, e sugli immigrati. Si tratta delle grandi priorità della sinistra globale, divenuta letteralmente per gli anglicanoidi, e più o meno anche per i cattolici fedeli a Bergoglio.   «Ci sono bambini gay, lesbiche e transgender in famiglie democratiche, repubblicane e indipendenti, alcuni dei quali temono per la propria vita» ha predicato la Budde, sostenendo che «la grande maggioranza degli immigrati non sono criminali», ma «buoni vicini» e «fedeli membri» di comunità religiose.  

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Mercoledì il presidente Donald Trump ha criticato duramente la reverenda vescova, dopo che ha pronunciato un sermone politicizzato di sinistra durante la funzione di preghiera inaugurale di martedì mattina presso la cattedrale nazionale di Washington.   «Il cosiddetto vescovo che ha parlato al National Prayer Service martedì mattina era un radicale di sinistra che odiava Trump in modo duro. Ha portato la sua chiesa nel mondo della politica in modo molto scortese. Era cattivo nei toni, e non convincente o intelligente», ha scritto Trump su Truth Social.   «Non ha menzionato il gran numero di migranti illegali che sono entrati nel nostro Paese e hanno ucciso persone. Molti sono stati trasferiti da prigioni e istituti psichiatrici. È un’ondata di criminalità gigantesca quella che sta avvenendo negli USA. A parte le sue dichiarazioni inappropriate, il servizio è stato molto noioso e poco stimolante. Non è molto brava nel suo lavoro! Lei e la sua chiesa devono delle scuse al pubblico!»   Mercoledì la Budde è apparsa anche al programma The View, – seguitissimo programma per casalinghe noto per l’odio assoluto contro Donald Trump (da quando è in politica: prima era accolto con gioia come ospite che faceva salire gli ascolti – dove ha affermato che è stato Trump a politicizzare il suo discorso.   Perché Trump (che sulla carta è segnato come un protestante nondenominational, cioè senza affiliazione precisa) e Vance (che è convertito cattolico, e accanto aveva la moglie Usha, induista) debbano sottoporsi al ridicolo rito di una vescovessa, prima ancora che sentire le sue omelie, rimane un mistero.

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