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Gender

La rivoluzione transessualista a scuola e oltre: ecco la «carriera alias»

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Il sovvertimento dell’ordine stabilito da madre natura, della biologia (letteralmente: il lògos della vita), e dello stesso principio di realtà, è il frutto del delirio di onnipotenza esercitato dai pochi in danno dei molti storditi dal fumo delle parole truccate.

 

Le parole sono il carro in cui si trasportano le idee; e la perturbazione dell’universo linguistico e concettuale, studiata a tavolino nelle centrali di potere sovranazionale, è stata funzionale al cambio di paradigma verso il transumano e il postumano. Vale a dire, verso l’antiumano.

 

In cantiere da molto tempo, la rivoluzione più intima, profonda e devastante della storia è giunta al suo apogeo grazie al progresso tecnologico e al regresso cerebrale, ambedue ormai fuori controllo.

 

Il termine «genere» fino alla metà degli anni Sessanta stava a significare un criterio distintivo meramente grammaticale.

 

L’origine della nuova accezione – quella che oggi pervade il lessico corrente, dai trastulli della Crusca ai moduli della burocrazia, e ogni aspetto del vivere comune – è storicamente legata ai protocolli sanitari di cosiddetta «riassegnazione di sesso» del dottor Money, il medico che, a metà degli anni Sessanta, fondò a Baltimora la «clinica per l’identità di genere».

 

L’invenzione lessicale di Money serviva alla promozione dei suoi esperimenti di cosiddetta «trasformazione sessuale» sui bambini: dopo aver inaugurato la pratica sulla pelle dei poveri gemellini Reimer (1969) e a dispetto della tragedia provocata (un duplice suicidio), egli la replicò in serie, giustificandola con l’idea che gli esseri umani sarebbero alla nascita psicosessualmente plastici e che la personalità maschile o femminile, lungi dal dipendere dal dato biologico (sesso), sarebbe un mero costrutto sociale (genere).

 

La cosiddetta comunità scientifica internazionale, eterodiretta mediante l’infallibile esca del denaro, anziché relegare l’esperienza di Money nel libro degli orrori, la premiò e ne trasse rovinoso esempio.

 

Intanto, della trovata semantica partorita dalla mente perversa dello psico-chirurgo di Baltimora si appropriò il movimento femminista radicale, che fece del «genere» il proprio cavallo di battaglia per sostenere come le differenze tra maschio e femmina non siano naturali, ma sedimentate artatamente in seno a una società che, in quanto dominata dal rigido modello familiare, si configura come patriarcale, gerarchica, sessista: dove il maschio è padrone e la femmina oppressa.

 

Declinando la lotta tra i sessi sulla falsariga della lotta di classe, le femministe identificano nella famiglia il primo nucleo della lotta di classe tra maschi padroni e femmine costrette in ruoli subalterni e schiave della riproduzione.

 

L’obiettivo del movimento, tanto lucidamente (e luciferinamente) preconizzato dalla sua corifea Shulamith Firestone, era quindi la distruzione della famiglia, la liberazione sessuale totale (pedofilia e incesto compresi), il pieno controllo sulla riproduzione. L’abolizione della distinzione tra i sessi.

 

In questa prospettiva, l’omosessualismo è stato visto, e cavalcato, come il grimaldello in grado di scardinare l’idea di famiglia pur senza rinunciare alla sua rassicurante iconografia, tanto radicata nell’immaginario collettivo da rendere imprudente e velleitario un attacco frontale: così la facciata della famiglia resta in piedi e l’insegna non viene rimossa, ma il contenuto è polverizzato e artificialmente ridefinito. Rifratta in un caleidoscopio di parodie, essa, di fatto, esce dissolta.

 

A garantire la fornitura di cuccioli d’uomo laddove per legge di natura vige la sterilità, interviene la tecnica: si può ordinare da catalogo un essere umano fabbricato in laboratorio, in modo da attribuirgli a ritroso la qualifica di «figlio», ottenere di rimbalzo la patente di «genitore» e infine suggellare il tutto con la ragione sociale di «famiglia». E il gioco di prestigio è fatto.

 

Ma la sfolgorante carriera del gender subisce una svolta davvero decisiva allorché, grazie all’accorto piano di un drappello di attivisti, approda all’ONU.

 

Dale O’Leary, che ha assistito da testimone diretta ai lavori preparatori della conferenza di Pechino sulla donna (1995), nel suo libro The gender agenda racconta nel dettaglio come in quella sede sia stato realizzato un vero e proprio colpo di mano: approfittando del fatto che la nuova accezione di «genere» non esisteva in alcun dizionario di alcuna lingua, e che la maggior parte dei delegati alla conferenza era convinta fosse solo un sostituto gentile, più raffinato ed elegante, della parola sesso, si è riusciti a introdurla di soppiatto nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite e così a promuovere in tutto il mondo – avvalendosi del prestigio e della carica intimidatoria dell’istituzione – la «agenda di genere», ovvero lo spartito di un modo totalmente nuovo, e artefatto, di concepire la società, la politica, la cultura, la formazione.

 

La penetrazione in organismi potentissimi e già consacrati al controllo della popolazione e al contenimento demografico – ONU e vari enti satelliti, tra cui OMS, UNICEF, UNESCO, etc. tutti mastodonti burocratici coperti da subdoli intenti umanitari – ha fornito i mezzi per organizzare un enorme esercito ben equipaggiato, capace di imporre il programma su scala planetaria.

 

È accaduto, insomma, che un sistema di idee creato dal nulla dalla lucida demenza di un manipolo di visionari ha lucrato il potere immenso, la potenza economica e l’estensione capillare delle strutture sovranazionali generando quell’imponente fenomeno di illusionismo collettivo che ha indotto le masse, già adeguatamente stordite, a vivere dentro vere e proprie allucinazioni.

 

Ma si sa che, in ogni rivoluzione che si rispetti, il bersaglio d’elezione sono i più piccoli. Non per nulla, il traguardo di ogni progetto egemonico è l’invasione di campo della educazione.

 

Lo aveva ben presente Bertrand Russel quando, nel suo L’impatto della scienza sulla società (1951), scriveva:

 

«Di tutti i metodi, il più influente si chiama istruzione […]. Possiamo sperare che nel tempo, chiunque potrà convincere chiunque di qualunque cosa, a patto che possa lavorare con pazienza sin della sua giovane età e che lo Stato gli dia il denaro e i mezzi per farlo. La questione evolverà a lunghi passi allorché sarà posta in opera da scienziati sotto una dittatura scientifica».

 

«I socio-psicologi del futuro avranno a loro disposizione un certo numero di classi di scolari, sui quali collauderanno differenti metodi per far insorgere nel loro animo la incrollabile convinzione che la neve sia nera. Si constaterà rapidamente qualche problema».

 

«In primo luogo, che l’influenza della famiglia è un ostacolo. In seguito, che non si andrà molto lontano se l’indottrinamento non sarà iniziato prima dell’età dei dieci anni. In terzo luogo, che dei versi messi in musica ed eseguiti a intervalli regolari sono assai efficaci. In quarto luogo, che credere che la neve sia bianca dovrà essere visto come il segno di un gusto malato per l’eccentricità».

 

La cosiddetta «carriera alias» è l’ultima tappa di questa surreale guerra alla realtà, e sta oggi invadendo le scuole italiane con una accelerazione che induce a pensare come, forse, il disagio dirompente e diffuso che il biennio emergenziale ha provocato nei più giovani rappresenti una occasione d’oro di cui approfittare per un reclutamento straordinario.

 

A ben vedere, il fenomeno «alias» riassume in sé tutti gli elementi costitutivi di una ideologia, come quella del gender, nata e cresciuta sotto il segno della manipolazione e della prevaricazione. E d’altra parte, una volta abbandonata ogni presa sul dato oggettivo, il trionfo dell’arbitrio individuale non può che scivolare verso l’abuso: per definizione, quello del più forte sul più debole e indifeso.

 

Anticipata, alla stregua di ogni altro fenomeno di costume, dalle avanguardie anglosassoni, la «carriera alias» non ci ha impiegato molto ad approdare nelle colonie, accompagnata dalla suggestione dei soliti slogan filantropici: doveroso tributo al diritto a essere se stessi, essa risponderebbe a una scelta di civiltà, a ineludibili esigenze di inclusione, a un’urgenza di verità. E chi osi avanzare qualche riserva, passa automaticamente nel novero dei retrogradi oscurantisti, dei cinici e degli inumani. Il copione rivoluzionario, per affermare il mondo all’incontrario, è sempre lo stesso.

 

La più parte dei docenti e dei genitori ignora di cosa veramente si tratti. Sì che, presa alla sprovvista, finisce travolta dalla sicumera di piazzisti ben addestrati a vendere la mercanzia all’ultimo grido. Il modello di regolamento della «carriera alias» che viene presentato nelle scuole è redatto dalla Rete Lenford, associazione di legali per i diritti LGBTQ, e viene sottoposto alla approvazione degli organi collegiali come fosse un novello evangelo.

 

Vi si prevede che lo studente «disforico», attraverso una semplice domanda rivolta al dirigente scolastico – una sorta di autocertificazione – possa acquisire, «senza esibire alcun tipo di documentazione né medica, né psicologica», il diritto a essere chiamato da tutti, all’interno della struttura scolastica, con un nome diverso da quello attribuito alla nascita e non corrispondente al sesso di appartenenza, nonché di vedersi riconosciuta da tutti, sempre all’interno della struttura scolastica, l’identità parallela prescelta.

 

Se ha compiuto i quattordici anni, il tutto potrà avvenire all’insaputa dei genitori; solo per gli infraquattordicenni è prevista comunicazione (a cose fatte) alla famiglia.  In sostanza, Ugo potrà pretendere che tutti a scuola lo considerino Marinella, semplicemente avvisando il dirigente di percepirsi femmina; così come Lia, sentendosi maschio, potrà diventare per tutti Arturo.

 

L’identità elettiva conferirà il diritto di utilizzare i servizi igienici e gli spogliatoi riservati al genere prescelto. Ma – attenzione – la messinscena varrà soltanto entro il perimetro della scuola, perché all’esterno Ugo tornerà Ugo e Lia tornerà Lia, come vuole l’anagrafe.

 

E poiché alla elargizione di diritti non può non corrispondere una correlativa imposizione di doveri, nel regolamento si legge anche che «in caso di inosservanze, chiunque ne faccia esperienza o ne abbia (direttamente o indirettamente) notizia, anche in ragione di eventuali rapporti fiduciari, informerà tempestivamente la dirigenza scolastica, affinché siano adottati gli opportuni provvedimenti…».

 

Insomma, il pacchetto include un sistema delatorio/inquisitorio/sanzionatorio affidato alla piena discrezionalità del dirigente. L’apprendista legislatore si ritiene superiore, oltre che al principio di legalità, anche a quello della certezza del diritto.

 

Ebbene, siamo di fronte alla pretesa, da parte di un soggetto evidentemente privo di alcun corrispondente potere, di imporre una pseudo-normativa speciale – riferita cioè a una categoria di studenti privilegiata (in barba al tanto sbandierato principio di uguaglianza) – capace di generare una bizzarra forma di extraterritorialità: dentro l’isolotto scolastico, che batte quindi una propria bandiera, tutti sono chiamati a tenere in piedi una finzione per assecondare la fantasia estemporanea di studenti che si dichiarano in crisi identitaria prima ancora di aver completato la fase dello sviluppo: quando cioè, di fatto, non hanno ancora vissuto nel corpo che vorrebbero rifiutare.

 

Anziché adoperarsi per aiutarli a rimuovere le cause della mancata accettazione della propria identità sessuata e favorire la riconciliazione con se stessi e col proprio corpo, la scuola si presta a sponsorizzare a sua volta la «transizione sociale», anticamera di quella ormonale e chirurgica, così concorrendo a istigare soggetti sani ad intraprendere un iter di medicalizzazione perenne.

 

Infatti, perlustrando il loro sito, si scopre che, tra gli scopi perseguiti dagli avvocati della Rete Lenford, vi è quello di promuovere «azioni giudiziarie che possono provocare un cambiamento delle norme giuridiche in senso più avanzato e quindi una trasformazione sociale verso l’inclusione e la non discriminazione».

 

Essi quindi, per loro esplicita dichiarazione, non operano secondo diritto nel quadro dell’ordinamento positivo vigente, ma esercitano attività di pressione per forzarne l’assetto.

 

Prova ne sia che sul sito stesso è presente anche un questionario, offerto anche alla fascia di popolazione 0-12 anni che, dopo aver fornito un articolato elenco di generi alternativi, suggerisce soluzioni per far fronte a ipotetiche eventuali discriminazioni. Tra le proposte figurano: «Identità alias obbligatoria in tutte le scuole di ordine e grado senza certificazione medico-psicologica (con autorizzazione della famiglia fino ai 14 anni)» o «Autorizzazione interventi chirurgici senza obbligo percorso psicologico».

 

In pratica, si ammette che un bambino sia libero di intraprendere scelte irreversibili (quali il blocco dello sviluppo per via farmacologica e la asportazione chirurgica di parti del corpo) senza nemmeno dover approfondire le motivazioni psicologiche sottese a una tale decisione. C’era una volta il principio di precauzione…

 

Si ricordi, per incidens, che nel 2018 è stato approvato in Italia, e inserito nei LEA, l’uso dei bloccanti (triptorelina) per «estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé senza sperimentare il disagio di cambiamenti fisici incongruenti con la propria identità di genere». E che nel 99% dei casi l’assunzione del farmaco prelude alla via chirurgica, poiché quasi nessuno dopo quel passo torna indietro (mentre invece quasi tutti, crescendo, avrebbero semplicemente cambiato idea riallineandosi alla propria identità sessuata).

 

Non è difficile comprendere a chi giovi questa moda sciagurata che, al riparo del paravento filantropico, avanza a passo totalitario in groppa a una martellante propaganda allestita per incoraggiare in ogni modo la dissociazione, e sempre più precocemente: è il profitto delle multinazionali biotecnologiche e farmaceutiche a fare, ancora una volta, da sfondo e da benzina alla spinta verso la medicalizzazione a vita di corpi sani.

 

Come effetto collaterale, per sovramercato, si spalancano le porte all’industria della fecondazione in vitro e delle biotecnologie legate alla riprogenetica, a cui la sterilizzazione di bambini e adolescenti assicura un esercito di nuovi consumatori.

 

Si capisce allora come le scuole siano praterie sterminate da espugnare, dove la miccia del contagio sociale trova il miglior conduttore: un ricco e variegato materiale umano, insieme alla forza persuasiva degli «esperti», insieme al crisma dell’ufficialità dell’istituzione. L’amplificazione dei rischi depressivi e suicidari e della vittimizzazione da bullismo, che serve a terrorizzare e colpevolizzare le famiglie e tutto l’ambiente di riferimento, è ingrediente fondamentale della campagna promozionale. Intere categorie di professionisti (medici, psicologi, assistenti sociali) sono arruolate per sostenere l’operazione. Anche tra loro, guai dissentire, sennò diventi un mostro.

 

In questo momento, nell’Italia gregaria, la «carriera alias» procede col vento in poppa e nella più sconcertante acquiescenza generale.

 

Intanto, in Gran Bretagna, genitori di minorenni transgender hanno citato in giudizio il Dipartimento dell’Istruzione per avere consentito (o non avere fatto nulla per impedire) l’indottrinamento dei figli a opera di organizzazioni LGBTQ; per non essere stati informati per tempo sui loro supposti disagi; per non aver evitato danni prevedibili. Dove il concetto chiave è appunto la «prevedibilità» del danno. Che è danno immane, e irreversibile.

 

Non solo. La clinica Tavistock di Londra, il più grande centro al mondo nel trattamento della disforia di genere sui minori, è stata messa sotto accusa dai medici che vi hanno lavorato ed è stata infine costretta a chiudere i battenti.

 

Conviene dunque che gli istituti scolastici nostrani e chi li rappresenta, nel momento in cui prendono in esame la proposta di «regolamento» della «carriera alias», abbiano adeguata contezza delle sue implicazioni poiché, avallandola, si espongono a precise, pesanti responsabilità.

 

In conclusione, dunque, si ritorna all’inizio di tutto: si ritorna a Money e all’abuso di minori perpetrato tramite la manipolazione e la prevaricazione. Il cuore del gender abita a Baltimora.

 

Il suo intento è rapinare l’innocenza dei più piccoli, violentare la loro libertà morale e la loro sensibilità, ingannare la loro buona fede; è strappare dalle giovani menti l’evidenza delle cose, scardinando il normale e naturale processo di formazione identitaria, che dura una vita intera e dalla vita si lascia modellare fino alla fine, ma che poggia su presupposti oggettivi insuperabili.

 

Perché c’è una realtà – c’è una verità – che ci precede e ci resiste e che a sfregiarla ci si fa del male.

 

Del resto, «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più» (Hannah Arendt).

 

Elisabetta Frezza

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Articolo apparso previamente su Visione, Volume VI, p. 246 e su Ricognizioni.

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Gender

Accontentato il canadese che aveva chiesto al governo di pagare l’operazione per avere sia un pene che la vagina

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Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.   Un uomo dell’Ontario ha ottenuto il diritto a un intervento chirurgico di affermazione di genere negli Stati Uniti finanziato dal governo che gli darà sia una vagina che un pene.   Un collegio di tre giudici della Divisional Court dell’Ontario ha stabilito all’unanimità che rifiutarsi di coprire la procedura violerebbe i suoi diritti costituzionalmente riconosciuti dalla Carta.   Al centro del caso c’è K.S., un 33enne nato maschio, ma che ora si identifica come un «dominante femminile» non binario. Usa un nome femminile. Secondo lui, l’intervento più appropriato per sostenere la sua identità di genere è una «vaginoplastica con conservazione del pene», una procedura offerta presso il Crane Center for Transgender Surgery di Austin, in Texas. Non è disponibile in Canada.   Secondo un articolo del National Post, K.S. ha sostenuto che «costringerlo a farsi rimuovere il pene invaliderebbe la sua identità e sarebbe simile a un atto illegale di terapia di conversione».   Secondo il National Post:   «Solo perché la vaginoplastica è elencata come un servizio assicurato non significa che nessun tipo di vaginoplastica sia qualificabile, ha sostenuto l’OHIP in tribunale».   «La corte non è stata d’accordo. La vaginoplastica e la penectomia sono elencati come servizi distinti e separati nell’elenco degli interventi chirurgici dell’Ontario ammissibili al finanziamento, ha affermato la corte. “Il fatto che la maggior parte delle persone che si sottopongono ad un intervento di vaginoplastica lo facciano con modalità che comportano anche una penectomia” non cambia la disposizione. Se la provincia avesse voluto assicurare un solo tipo di vaginoplastica (vaginoplastica con asportazione del pene), avrebbe dovuto redigere l’elenco in modo diverso, ha affermato la Corte».   È interessante notare che la corte si è basata sugli standard WPATH, che recentemente sono stati attaccati per mancanza di rigore scientifico. Gli standard WPATH «si riferiscono espressamente alla vaginoplastica senza penectomia come opzione chirurgica per alcune persone non binarie», ha scritto il giudice Breese Davies nella sentenza della corte.   La Corte ha affermato chiaramente che la «vaginoplastica con conservazione del pene» è una questione di diritti umani. «Il diritto alla sicurezza della persona tutelato dalla Carta tutela la dignità e l’autonomia dell’individuo», si legge nella sentenza. Richiedere a un transgender maschio nato o a una persona non binaria «di rimuovere il proprio pene per ricevere finanziamenti statali per una vaginoplastica sarebbe incoerente con i valori di uguaglianza e sicurezza della persona».   Michael Cook   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Gender

Atlete delle scuole medie si rifiutano di competere contro transessuali

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Un filmato che sta circolando in rete sembra mostrare un gruppo di cinque ragazze delle scuole medie che protestano per essere state costrette a competere contro un avversario maschio biologico transessuale fatto competere con loro.

 

Secondo quanto riportato dai media americani, in una sentenza all’inizio di questa settimana una corte d’appello federale si era pronunciata a favore della competizione dei maschi transgender nelle gare femminili dopo che era stato citato in giudizio lo Stato del West Virginia per la sua legge che vieta agli atleti trans di competere negli sport femminili nelle scuole pubbliche e nelle università.

 

Dopo la sentenza, l’adolescente è apparsa a una gara di lancio del peso per competere contro femmine biologiche.

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Per protesta, molte ragazze sono entrate nel settore del lancio del peso, si sono alzate brevemente e se ne sono andate senza lanciare un colpo.

 

Il video è stato condiviso dalla campionessa di nuoto, ora attivista per gli sport femminili, Riley Gaines.

 

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«Cinque atlete delle scuole medie del West Virginia si rifiutano di lanciare il lancio del peso contro un uomo» scrive la Gaines. «Ciò avviene appena 2 giorni dopo che la Corte d’Appello del Quarto Circuito ha bloccato la legge WV che dice che devi competere nella categoria che corrisponde al tuo sesso».

 

«È un giorno triste in cui le ragazze di 13-14 anni devono essere le adulte nella stanza, ma non potrei essere più ispirata e orgogliosa di queste ragazze. Quando è troppo è troppo. La marea sta cambiando!» chiosa la bionda nuotatrice.

 

Il sito OutKick riferisce che una delle ragazze che hanno preso parte alla manifestazione ha rivelato che l’atleta transgender ha vinto l’evento di lancio del peso.

 

Come riportato da Renovatio 21, l’anno scorso una squadra di basket femminile si ritira dal torneo per protesta contro un giocatore transgender che domina abitualmente le partite. Due mesi fa è emerso che una squadra di basket femminile di una scuola superiore del Massachusetts è stata costretta a rinunciare alla partita dopo che un giocatore transgender della squadra avversaria ha ferito tre giocatrici.

 

Secondo il sito web SheWon.org, gli uomini con confusione di genere hanno vinto centinaia titoli negli sport femminili.

 

La pagine web mostra centinaia di nomi di atlete superate in gara da transessuali in ben 29 discipline sportive: ci sono ciclismoatleticasollevamento pesinuoto, canottaggio, corsa campestre, golf, sci alpino, sci nordico, skateboard, surf, biliardo, perfino il poker.

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Come riportato da Renovatio 21, il transessualismo sta divenendo un problema in quantità impressionanti di discipline praticate dalle donne: abbiamo visto casi per il nuoto, la maratona, il ciclismo, la BMX, l’hockey, il sollevamento pesi, il basket

 

Problemi si sono avuti anche in sport di combattimento come la boxe, dopo un caso avvenuto ad un torneo nello Stato della Georgia, la Federazione statunitense di jiu-jitsu ha emanato una proibizione di competizione per i transessuali maschi negli eventi femminili.

 

In una lettera di protesta contro la follia transgender, l’ex campionessa di ciclocross Hannah Arensman aveva annunciato l’anno scorso che si è ritirata causa della presenza di transessuali nelle competizioni.

 

«Negli ultimi anni, ho dovuto gareggiare direttamente con ciclisti uomini negli eventi femminili», si legge in una lettera resa pubblica dalla Arensman. «Poiché questo è diventato sempre più una realtà, è diventato sempre più scoraggiante allenarsi duramente come me solo per dover perdere contro un uomo con l’ingiusto vantaggio di un corpo androgenizzato che intrinsecamente gli dà un evidente vantaggio su di me, non importa quanto mi alleno duramente».

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Società medica promette di «eradicare» la transfobia

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L’associazione medica britannica Chartered Society of Physiotherapy (CSP) ha rilasciato questo mese due dichiarazioni in merito al suo sostegno al transgenderismo e al suo obiettivo di sradicare la transfobia dalla professione medica.   «Il CSP si oppone alla transfobia. Ci impegniamo a eradicarlo dalla nostra professione», si legge nella dichiarazione del 10 aprile. La dichiarazione è stata quindi definita come una pietra miliare per i diritti «LGBTQIA+» in un’altra dichiarazione dell’11 aprile.   La dichiarazione del 10 aprile prosegue definendo la transfobia, una paura che la società considera malvagia.

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«Transfobia: la paura o l’antipatia di qualcuno basata sul fatto che è transgender, compreso il negare la propria identità di genere o il rifiuto di accettarla”» si legge nella dichiarazione.   Fornisce anche un esempio di fobia proibita: mettere in discussione l’«identità di genere» di una persona transgender, tentare di rimuovere i diritti delle persone transessuali, «rappresentare in modo errato» i trans, escludere sistematicamente le persone transgender dalle discussioni su questioni che le riguardano direttamente, e «altre forme di discriminazione».   La dichiarazione ammette anche che la paura, che ora non è più consentita, può manifestarsi in modi vaghi a seconda dell’interpretazione: «la transfobia non ha una manifestazione unica e semplice. È complesso e può includere una serie di comportamenti e argomenti».  

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«C’è molto di più che dobbiamo fare tutti per garantire che la nostra comunità di fisioterapia sia inclusiva e libera da discriminazioni», ha affermato Ishmael Beckford, presidente del Consiglio CSP. La presidente del comitato Equità, diversità e appartenenza del CSP, Sarine Baz, ha affermato che la paura del transgenderismo non è mai accettabile.   «L’espressione di atteggiamenti o sentimenti negativi nei confronti delle persone transgender, o altre azioni transfobiche, non possono essere tollerate», ha detto la Baz.   Come riportato da Renovatio 21, la cosiddetta medicina transgender, nonostante i recenti scandali e le battute d’arresto istituzionali in vari Paesi, sembrerebbe procedere nel suo percorso anche in Italia, dove vi è stata polemica quando si è scoperto che persino il Policlinico Gemelli – l’ospedale del papa – avrebbe istituito un ambulatorio di assistenza per la disforia di genere.

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