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Sylvester Stallone rivela di essere sopravvissuto a un aborto
In un recente episodio del podcast «Unwaxed with Sophia & Sistine Stallone», l’attore e cineasta hollywoodiano Sylvester Stallone pare aver rivelato di essere un sopravvissuto all’aborto. Lo riporta LifeSite.
Le sue figlie lo stavano intervistando sul suo documentario autobiografico su Netflix, Sly, che racconta la storia della sua carriera partita da niente ed arrivata al vertice mondiale della cinematografia e della fama.
Le sue figlie gli hanno chiesto di sua madre, Jackie Stallone. «Hai detto che tua madre era nervosa di averti», ha detto Sistine. «Non ti voleva, giusto?»
«Per niente», rispose Stallone. «Mia madre diceva, “L’unica ragione per cui sei qui è perché l’appendino non funzionava” o “rimbalzare giù per quei gradini non ti ha fatto perdere”. E diceva, “Sai, sinceramente, Sylvester… sai, se ci fosse stato qualcosa di veramente sbagliato nel tuo cervello, avrei sicuramente aperto la finestra e ti avrei messo sul davanzale e ti avrei lasciato congelare perché ti avrei fatto un favore”».
Sylvester Stallone is an abortion survivor.
His mother told him: “The only reason you’re here is because the hanger didn’t work.” pic.twitter.com/YIDXAtaKEi
— Students for Life of America | Pro-Life Gen (@StudentsforLife) August 29, 2024
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Come ha osservato Nancy Flanders di Live Action News: «In base a queste osservazioni, sembra che la madre di Stallone abbia cercato di ucciderlo in almeno uno, forse più, tentativi di aborto fai da te».
Anche in Italia, come noto, gli aborti clandestini venivano compiuti con gli appendini, tanto che questi divennero un simbolo esibito nelle manifestazioni delle femministe che prima della 194/78 chiedevano una legge feticida.
La confessione appare particolarmente drammatica: oltre alle tecniche di aborto casalingo, come l’appendino o l’essere gettata giù per le scale, fa capolino perfino una minaccia di infanticidio, che ora possono chiamare aborto post-natale, da parte della madre. Si tratta, decisamente, di eugenetica domestica.
Va notato, inoltre, che Stallone ha una paralisi ad un lato della bocca (un tratto specifico dell’attore, visibile specie quando urla, che è divenuto pure una caratteristica per imitazioni e caricature che i comici fanno del divo) che sarebbe dovuto, ha riportato la stampa, a complicazioni alla nascita.
La rivelazione di Stallone sembra sbalordire le sue figlie: la figlia Sistine rimane a bocca aperta. «Che tipo di madre dice questo al proprio figlio?» gli chiese Sophia.
«Mia madre, era una persona problematica», ha risposto Stallone. «È stata messa in un orfanotrofio, sai, e un orfanotrofio molto crudele perché suo padre si era risposato e la nuova matrigna la odiava. E penso che mia madre fosse anche un po’ ribelle. Quindi è stata messa in un orfanotrofio che… è diverso da quelli che hanno oggi. Era, sai, ti legavano al letto, ti frustavano e… era terribilmente molestata. E penso che la sua capacità di mostrare amore fosse in cortocircuito. Letteralmente non sopportava di essere toccata o di essere toccata in nessun modo. Voglio dire, nemmeno un abbraccio».
Jackie Stallone, al secolo Jacqueline Labofish, era figlia di un ebreo ucraino di Odessa e di una cattolica francese originaria di Brest.
Va notato che mamma Stallone, nata nel 1920, potrebbe essere finita in orfanotrofio sulla scia della catastrofe causata dal dottore americano Luther Emmet Holt (1955-1924), divenuto grazie all’appoggio di potentati come la famiglia Rockefeller (che lo avevano cooptato e mandato ad operare le sue teorie in Cina, Paese che evidentemente interessa al casato miliardario), capo dei pediatri USA. Un uomo al quale si imputano una quantità massiva di morti infantili.
Lo Holt riteneva che il contatto con i bambini, anche neonati, andasse limitato. Soprattutto non andavano cullati e tenuti in braccio: questo, secondo la sua teoria che ebbe un grandissimo successo negli USA di inizio Novecento, li avrebbe resi viziati.
Migliaia, decine se non centinaia di migliaia di bimbi, perirono di quel male che chiamano «marasma». Una piaga che investì tutte le classi sociali, anche i più ricchi, che come oggi, vogliono tenersi al passo delle nuove teorie educative. Nel 1915, secondo uno studio, morivano nei primi 2 anni di vita dal 30% al 60% degli orfani istituzionalizzati negli USA. A Baltimora, moriva il 90%. Epperò, era un ospedale di Nuova York ad avere il primato, con il 100% della mortalità infantile sotto i due anni.
Solo alla fine degli anni venti alcune strutture «ribelli» trovarono il coraggio di rompere le regole e cullare e accarezzare i piccoli, così come guida la più basica natura umana. Il tasso di mortalità calò in modo impressionate. Le idee di Holt caddero dimenticate, ma, attenzione, non vennero condannate. Il motivo lo diciamo poco sotto.
È interessante notare come Sylvester dichiari che sua madre avesse un problema proprio con il contatto fisico.
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La donna durante la sua carriera, ha svolto le attività di ballerina, promotrice di wrestling e, dettaglio interessante, astrologa. È morta a 99 anni nel 2020.
Sylvester Stallone, invece di divenire un feto squartato da un appendino o un bambino lasciato morire al freddo, è divenuto una delle più grandi star del mondo.
Di lui va ammirata la forza che dal niente lo ho portato ai vertici dell’industria più crudele e competitiva. Stallone viene ricordato, con ghigni di disapprovazione, per un film porno softcore che avrebbe girato agli esordi; la massa ignorante ignora invece il suo fine lavoro di scrittore e sceneggiatore, con storie di realismo minuzioso e struggente ambientate nei bassifondi delle città americane, come Taverna Paradiso, uno struggente romanzo che aveva scritto già nel 1970 a 24 anni.
Il capolavoro Rocky, uno dei più grandi film di tutti i tempi, nonché uno dei più edificanti, e secondo alcuni pure un film sommamente «cattolico», è uscito proprio dalla penna di Silvestro, ispirando catarticamente milioni, forse miliardi, di esseri umani.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se fosse stato abortito da sua madre.
Questo semplice pensiero basterebbe a cambiare la mente di tanti. Se solo l’aprissero alla bellezza, e alla potenza della Vita.
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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
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«Il Signore degli Anelli»: il capolavoro di Tolkien settant’anni dopo
Il 29 luglio del 1954 nelle librerie inglesi arrivò un nuovo, curioso libro: The Lord of The Rings. Più esattamente, si trattava della prima parte del libro, La Compagnia dell’Anello, che l’editore – contro il parere dell’autore – aveva deciso di fare uscire in tre parti, una scelta prudenziale che voleva mettersi al riparo da eventuali flop. Ma il libro fu tutt’altro che un fallimento: rappresentò lo straordinario ritorno dell’Epica nella Letteratura.
Era destinato a consacrare il suo autore come l’Omero cristiano del XX Secolo.
Eppure, ci vollero quasi vent’anni perché questo capolavoro della narrativa venisse tradotto e pubblicato in Italia, e quando finalmente uscì, iniziò un fuoco di sbarramento ideologico come non si era mai visto nei confronti di un romanzo.
L’ostracismo nei confronti di questa grande opera fu peraltro un fenomeno tutto italiano, che rifletteva il clima culturale che si era instaurato dopo il fatidico ’68. Vale la pena raccontarne in sintesi la storia.
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L’editore inglese fin dagli inizi degli anni ’60 lo aveva proposto alla Mondadori, che lo sottopose all’attenzione di Elio Vittorini, che lo stroncò seccamente. Erano quelli gli anni dell’impegno sociale della narrativa, e la fantasia sembrava un elemento di colpevole disimpegno, propedeutica al qualunquismo.
Alla fine, la casa editrice Rusconi lanciò sul mercato Il Signore degli Anelli, e anche nella terra dell’Ariosto e del Tasso il successo fu vasto e immediato, ma a quel punto la critica letteraria ufficiale aprì il fuoco coi mortai, un fuoco di sbarramento che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto fare terra bruciata a questo testo sgradito all’establishment intellettuale della Penisola.
A Tolkien e alla sua opera furono rivolte accuse tanto maligne quanto infondate: era un libro «di destra», era un autore razzista e fascista, era narrativa-spazzatura per nostalgici reazionari. Il paradosso clamoroso fu che, mentre a livello mondiale la lettura politica di Tolkien era quella che lo vedeva arruolato nelle fila dell’ecologismo, in Italia la cultura dominante di sinistra lo rifiutò e inventò la leggenda nera del Tolkien «fascista».
Si potrebbe pensare a un colossale abbaglio, a gente che forse il libro non lo aveva nemmeno letto, ma vista l’acrimonia e la persistenza di queste accuse – arrivate fino all’uscita della trilogia cinematografica agli inizi degli anni 2000 – non si può lasciare il beneficio del dubbio su una eventuale dabbenaggine in buona fede. Si trattava di una autentica menzogna diventata l’interpretazione «ufficiale» del grande scrittore inglese, morto nel 1973.
Tolkien, in realtà, era quanto di più lontano si potrebbe immaginare dai totalitarismi, compresi quelli fascisti e nazisti. Aveva avuto fin dagli anni Trenta un giudizio assolutamente severo su Hitler, che aveva accusato di pervertire l’antico nobile spirito nordico cristiano, ridotta a caricatura grottesca, e nel nazismo Tolkien individuò quella matrice di odio anticristiano che avrebbe condotto all’abisso della shoah, carattere questo che in quegli anni era stato colto da pensatori cristiani come Jacques Maritain, che aveva scritto che «odiare gli Ebrei e odiare i Cristiani viene dallo stesso fondo», o come lo scrittore ebreo Maurice Samuel che nel 1940 scriveva: «non comprenderemo mai l’immensa e folle portata dell’antisemitismo se non a condizione di trasporne i termini. È del Cristo che i nazifascismi hanno paura; è nella sua onnipotenza che essi credono; è Lui che essi sono follemente decisi ad annientare».
Tolkien aveva anche respinto con sottile ironia la richiesta di un editore tedesco intenzionato a tradurre un suo libro, Lo Hobbit, di dichiarare se fosse o meno «ariano». Nemmeno aveva mai manifestato alcuna simpatia nei confronti del fascismo, che poteva vantarsi di avere costretto suo figlio John, che studiava per il sacerdozio a Roma nel 1940 presso il Pontificio Collegio Inglese, a una rocambolesca fuga dalla Città Eterna per sfuggire all’arresto, in quanto cittadino britannico e potenziale spia di Sua Maestà.
Cosa spinse dunque la cultura di sinistra italiana a scagliarsi contro Tolkien e a cucirgli addosso l’etichetta infamante del fascista? Lo stesso odio per il cristianesimo, che era il cuore autentico del messaggio del Signore degli Anelli, per chi si fosse preso la briga di leggerlo. L’odio per il Medioevo, inteso come tempo e civiltà del cristianesimo, l’odio per i valori cavallereschi, per la fantasia come risorsa umana che guida la ricerca dello spirito oltre le catene della materia: tutto questo animava gli intellettuali marxisti che inneggiavano in contrapposizione alla letteratura realista, ovvero dell’aridità artistica, del vuoto morale, del turpiloquio.
A ciò si aggiunse il disappunto nel constatare il grande successo presso i giovani di questo autore, che si tradusse in aperta ostilità giornalistica. La stampa gridò ipocritamente allo scandalo e si stracciò le vesti quando Tolkien, esecrato pubblicamente come fascista, divenne ovviamente oggetto dell’attenzione di parte della cultura di destra, quella più innovativa e anticonformista, che vedeva tra le sue fila giovani studiosi – molti dei quali avrebbero poi preso le distanze da questo ambiente politico – che vedevano in Tolkien una guida e la possibilità di uno stile di vita alternativo a quello della cultura dominante.
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Ma quali erano le reali idee politiche di Tolkien? Alcune lettere sono in merito significativamente rivelatrici, come quella al figlio Christopher del 29 novembre 1943:
«Le mie opinioni politiche inclinano sempre più verso l’anarchia intesa filosoficamente come abolizione di ogni controllo, non come uomini barbuti che lanciano bombe, oppure verso una monarchia non costituzionale. Arresterei chiunque usi la parola Stato (intendendo qualsiasi cosa che non sia la terra inglese e i suoi abitanti, cioè qualcosa che non ha poteri né diritti né intelligenza); (…) Governo è un sostantivo astratto che indica l’arte e il modo di governare e sarebbe offensivo scriverlo con una G maiuscola come per riferirsi al popolo. (…) Comunque, lo studio adatto all’uomo è solo l’uomo, e l’occupazione più inadatta per qualsiasi uomo, anche per i santi (che almeno non se l’assumevano volentieri) è governare altri uomini. Non c’è una persona su un milione che sia adatta e men che meno quelli che cercano di afferrare l’opportunità. E almeno viene fatto solo ad un gruppetto di persone che sanno chi è il loro padrone».
«Nel medioevo avevano pienamente ragione nel considerare il nolo episcopari come il motivo migliore che un uomo potesse opporre a chi lo sceglieva come vescovo. Datemi un re il cui interesse principale siano i francobolli, i trenini o le corse dei cavalli, e che sia in grado di cacciare il suo visir (o come lo vuoi chiamare) se non gli piace la foggia dei suoi pantaloni. E così via. Ma, naturalmente, la fatale debolezza di tutto questo – che dopo tutto è la fatale debolezza di tutte le buone cose naturali in un mondo cattivo, corrotto e innaturale – è che funziona e ha funzionato solo quando tutto il mondo si mette a pasticciare nella stessa buona vecchia inefficiente consuetudine umana».
«I Greci, litigiosi e presuntuosi, riuscirono a farcela contro Serse, ma gli abominevoli chimici e ingegneri hanno dotato di tale potere Serse e tutti quelli che sono contro le comunità che la gente comune non può farcela. Noi tutti stiamo cercando di fare come Alessandro – e, come insegna la storia, Alessandro e tutti i suoi generali finirono con l’orientalizzarsi. Il povero sciocco immaginava (o voleva che la gente immaginasse) che era figlio di Dioniso e morì per il troppo bere. La Grecia che valeva la pena di salvare dalla Persia scomparve; (…) parlando di onore e cultura greci e prosperando con la vendita dell’antico equivalente delle cartoline. Ma la cosa terribile dei nostri tempi è che è così dappertutto. Non c’è nessun posto dove poter fuggire. Persino i piccoli infelici Samoiedi, temo, hanno cibo in scatola e l’altoparlante del villaggio che racconta le favole di Stalin sulla democrazia e sui fascisti crudeli che mangiano i bambini e rubano i cani da slitta».
«C’è una sola cosa positiva ed è l’abitudine, sempre più diffusa, di chi è scontento, di far saltare con la dinamite fabbriche e centrali elettriche; spero che, essendo ora incoraggiata come “patriottica”, questa consuetudine rimanga! Ma non servirà a niente, se non diventa universale».
«Ebbene, auguri, mio carissimo figlio. Siamo nati in un periodo buio. Ma c’è una consolazione: se fosse altrimenti non conosceremmo, e non ameremmo tanto, quello che amiamo. Immagino che il pesce tirato fuori dall’acqua sia l’unico pesce ad avere un vago sentore di che cosa sia l’acqua. Inoltre, abbiamo ancora qualche arma. “Non mi inchinerò di fronte alla corona di ferro, né getterò via il mio piccolo scettro d’oro».
Tolkien in questa lettera sembra avere anticipato profeticamente i problemi oggi sempre più drammatici della globalizzazione, del pensiero unico planetario, al quale – sosteneva lo scrittore – occorre opporsi in nome delle diversità, delle specificità, delle comunità.
Era dunque reazionario o rivoluzionario? Era semplicemente un cristiano che cercava di parlare al cuore delle persone per invitarle a non cedere alla tentazione dello scoraggiamento, del cinismo, della bruttezza e del male.
Questo è il grande segreto dell’opera di Tolkien, come ebbe a spiegare il figlio Michael: «almeno per me, non c’è nulla di misterioso nell’entità del successo toccato a mio padre, il cui genio non ha fatto che rispondere all’invocazione di persone di ogni età e carattere, stanche e nauseate dalla bruttezza, dall’instabilità, dai valori d’accatto, dalle filosofie spicciole che sono stati spacciati loro come tristi sostituti della bellezza, del senso del mistero, dell’esaltazione, dell’avventura, dell’eroismo e della gioia, cose senza le quali l’anima stessa dell’uomo inaridisce e muore dentro di lui».
Ecco dunque che un’opera «concepita nel 1936», che risentiva dei miti e delle leggende antiche più che della storia contemporanea, scritta da un uomo che aveva sperimentato gli orrori della Prima Guerra Mondiale, diventava improvvisamente affascinante e attuale per i lettori del secondo dopo guerra, in un mondo che aveva conosciuto il genocidio dei lager, l’olocausto atomico, e che ora – agli –inizi degli anni Sessanta – viveva nuove paure e rinnovate speranze.
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Tolkien, senza averlo minimamente previsto né tanto meno cercato, si ritrovò a essere il maestro di una nuova generazione. Il discreto successo che il suo libro aveva trovato in Inghilterra, il paese per il quale aveva voluto scrivere una nuova mitologia, si trasformò in un successo clamoroso. Ciò avvenne improvvisamente nel 1965, a dieci anni dal completamento dell’uscita della trilogia. In quell’anno uscì l’edizione economica americana dell’opera, che divenne in brevissimo tempo un best-seller assoluto, bruciando continuamente nuove edizioni.
Ha scritto un biografo americano di Tolkien: «il Signore Degli Anelli piombò sui campus dei college e delle università statunitensi come un acquazzone su un deserto assetato. A partire dagli inizi degli anni Sessanta, quando il Sogno Americano aveva cominciato a trasformarsi in un incubo senza fine punteggiato di assassinii di presidenti e uomini politici, sporche guerre nel Sudest asiatico, attacchi del Black Power e contrattacchi dei bianchi, disordini nelle città e violenze nei campus, molti giovani cominciarono a trovare insopportabili molti aspetti dell’esistenza quotidiana e a isolarsene».
«L’ideale di perfezione che aveva affascinato la generazione postbellica, un ideale fatto di supermercati, villette nei sobborghi, garages per due automobili e televisori a colori, non soddisfaceva più i loro figli; anzi, quasi tutto ciò che era proprio della classe media americana divenne anatema per la gioventù ribelle; e se dapprima essa fu attratta dalle grandi problematiche sociali del decennio, con una quasi fanatica idolatria per un presidente giovanile, dinamico (la Nuova Frontiera significava Corpi della Pace, diritti civili, guerra alla povertà, accordo sulla sospensione degli esperimenti nucleari, il regno di Bengodi alla fine del decennio), sulla scia dell’uccisione di John F. Kennedy a Dallas, vennero la delusione per la guerra esterna e l’esasperazione della dialettica interna, la ribellione, cui si aggiunsero gli abusi di potere e la crescente distruzione ambientale».
«La delusione si trasformò in alienazione e conseguente polarizzazione tra due estremi, uno dei quali assunse le connotazioni del movimento hippy, della cultura della droga e della protesta studentesca».
Un’intera generazione si sentiva smarrita, in America come in Francia, come in Inghilterra, come in Italia, e nessuna parola d’ordine di quelle che in passato avevano arruolato sotto le loro bandiere sembrava più funzionare.
Non la patria, percepita ormai diffusamente solo come Stato nazionalista, spesso corrotto e corruttore, per il quale non valeva la pena sacrificare la propria vita.
Non la famiglia, quella tradizionale, con le sue norme etiche che sembravano contrastare con un incontenibile bisogno di espressione affettiva, di libertà di amare e cercare la propria felicità.
Non Dio, visto come lontano, sostituito o forse surrogato dalle istituzioni religiose, a cui si preferivano le nuove filosofie religiose, e il vecchio clero veniva scalzato dai nuovi guru.
Questa generazione irrequieta, senza più né padre né madre, ma in cerca disperata di qualcosa o qualcuno a cui affidare le proprie speranze e la propria vita, paradossalmente riconobbe nell’anziano professore di Oxford, che indossava panciotti e conservava le sue inappuntabili abitudini inglesi, un maestro da seguire.
Un altro studioso americano, che si recò nel 1966 a incontrare personalmente Tolkien e ad apprendere direttamente come discepolo, Clyde Kilby, scrisse: «perché Il Signore degli Anelli oggi conta tanti lettori? In un’epoca in cui il mondo forse non sentiva più il bisogno di esperienze autentiche, questo romanzo è parso fornirne un modello. Un uomo d’affari di Oxford mi ha detto che, quando era stanco o sfasato, cercava ristoro nel Signore degli Anelli».
«Lewis, e con lui parecchi altri critici, ritengono che nessun libro abbia maggiore attinenza con la realtà umana. W.H. Auden afferma che “offre uno specchio all’unica natura a noi nota, la nostra”. (…) Per almeno un secolo il mondo è andato sempre più demitizzandosi, condizione che però a quanto sembra è aliena alla vera natura degli esseri umani. Ed ecco che compare uno scrittore come John Ronald Reuel Tolkien, un mitologo che conferisce straordinario calore alle nostre anime».
Per milioni di giovani americani la storia della Guerra dell’Anello divenne in breve tempo il libro per eccellenza, una sorta di Bibbia, che surclassò tutti i successi letterari del momento, Aragorn sostituì James Dean nel cuore di tanti adolescenti, e gli hobbit presero il posto degli ambigui Beatles.
Alla fine del fatidico 1968 gli editori di Tolkien calcolavano in oltre cinquanta milioni il numero dei lettori del Signore degli Anelli negli Stati Uniti, in Inghilterra e in tutto il mondo. Cinque milioni erano le copie ufficialmente vendute, ma tra le biblioteche letteralmente prese d’assalto e il passa mano tra i ragazzi, si stimava che ogni copia del libro avesse avuto almeno dieci lettori. Ma Tolkien, risultava essere ben più che l’autore del momento, l’iniziatore di una nuova moda (che infatti non si verificò), ma un maestro di vita.
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In un’epoca, quella degli anni Sessanta, di viaggi in oriente, di esperienze para-spirituali, di droghe «per liberare la mente», di santoni di ogni tipo, il mite professore di Oxford che andava a Messa quotidianamente e che scriveva dalla giovinezza nel linguaggio delle fate aveva conquistato milioni di cuori che gli tributavano un appassionato omaggio e che cercavano nel suo libro delle ragioni per vivere in un mondo che non era il migliore di quelli possibili, infinitamente meno bello della Terra di Mezzo.
In America si potevano leggere sui muri scritte quali Gandalf for President (Gandalf presidente), e studenti che portavano distintivi con slogan come Frodo lives (Frodo vive). Nacque così la lettura in chiave ecologista delle vicende della Terra di Mezzo. Lo stesso fondatore di Greenpeace, il canadese David Taggart, raccontava di essersi ispirato nel suo impegno ambientalista alla lotta degli hobbit della Contea contro la terra desolata di Mordor, fonte di inquinamento e di orrori industriali.
Il conflitto cosmico che è sotteso alla Guerra dell’Anello viene visto come uno scontro tra natura e cultura, tra pretese della tecnologia e ragioni dell’ambiente, e di fronte all’avanzata dell’industrialismo si fece avanti la richiesta di tornare ad una sacralizzazione della natura. Molti attivisti ecologisti si ispirarono nel loro impegno, dagli anni sessanta in avanti, alla difesa ostinata degli alberi e della natura che gli hobbit, con le loro piccole forze, avevano condotto fin nella loro Contea assediata dal progresso tecnologico distruttivo. Un impegno che Tolkien non avrebbe certo disapprovato, ma che non coglieva tutti i significati simbolici trasmessi dai suoi libri.
Tolkien paventava, di fronte all’avanzata distruttrice della modernità tecnologica e irreligiosa, la scomparsa della memoria, della Tradizione, e l’avvento di tempi di aridità, di materialismo, di menzogna.
Quella menzogna del potere che in Italia cercò di occultare tutta la Bellezza della sua opera con l’accusa demenziale di fascismo.
Paolo Gulisano
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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