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Persecuzioni

Pakistan, condanne sommarie e omicidi extragiudiziali: è (ancora) emergenza blasfemia

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Tre casi scuotono le coscienze del Paese e ripropongono il tema dell’abuso legato alle leggi: un medico del Sindh indagato per post blasfemi e ucciso in una sparatoria dalla polizia; un sospettato ammazzato da un agente a Quetta, i familiari perdonano l’omicida; una cristiana condannata a morte per aver inoltrato messaggi su WhatsApp.

 

Tre nuovi casi di abusi e omicidi-extragiudiziali legati alle leggi sulla blasfemia, occorsi di recente in Pakistan, riportano all’attenzione del Paese e della comunità internazionale gli abusi e le violenze legate a una norma controversa e già oggetto di polemiche e condanne.

 

Il primo riguarda un medico, Shahnawaz Kumbhar, originario di Umerkot (nel Sindh), accusato di aver condiviso post blasfemi sui social media che, secondo alcuni, sarebbero stati pubblicati da un falso account Facebook dell’uomo. Ciononostante, il dottore è stato ucciso durante uno scontro a fuoco con la polizia a Mirpurkhas.

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Prima del tentativo di arresto alcuni partiti religiosi del Sindh avevano promosso una violenta protesta e chiesto provvedimenti duri ed esemplari contro Shahnawaz, chiedendone il fermo immediato. Dopo che il capo della polizia di Umerkot ha assicurato l’avvio di una inchiesta penale, i promotori della manifestazione hanno deciso di interromperla. Dopo la morte del medico Shahnawaz avvenuta in circostanze poco chiare e – sembra – legate a una finta operazione di polizia, i leader religiosi hanno resto omaggio al capitano Asad Chaudhary, con slogan e inni come avvenuto in passato con Mumtaz Qadri, dopo l’uccisione di Salman Taseer.

 

Nel frattempo, i parenti di Abdul Ali, sospettato di blasfemia e ucciso la scorsa settimana da un agente a Kharotabad, Quetta, hanno perdonato il poliziotto.

 

Nonostante il legame di sangue, la famiglia ha condannato con forza il sospetto, ucciso per una presunta vicenda di blasfemia: «Non esitiamo mai – hanno affermato – a rendere la nostra vita in onore del Santo Profeta». I congiunti della vittima, uccisa senza processo né verifiche sulle accuse, confermano di aver perdonato l’ufficiale di polizia «in nome di Allah e senza condizioni» e «non combatteremo il caso contro di lui in tribunale».

 

Commentando le vicende di cronaca Halar Nawaz, editore e analista politico di Indo, ha dichiarato: «Ora il fuoco dei falsi casi di blasfemia si è diffuso in tutte le province del Pakistan. Questo è il primo caso di uccisione in nome della blasfemia nella provincia di Sindh [in riferimento all’uccisione del medico], ed è condannabile ed esecrabile». Non permettere all’imputato di presentarsi in tribunale davanti ai giudici, avverte, e «inscenare uno scontro a fuoco con la polizia e poi consegnare il corpo alla folla per dargli fuoco è una chiara violazione del processo legale, incostituzionale e inaccettabile».

 

L’uccisione extragiudiziale di Shahnawaz Kunbhar a Mirpurkhas, nonostante fosse già stato aperto un fascicolo contro di lui ai sensi della Sezione 295-C (che punisce il vilipendio del profeta Maometto), solleva serie preoccupazioni. La vittima aveva dichiarato in precedenza che il suo account Facebook era stato violato, evidenziando il crescente problema delle frodi digitali e delle false accuse attraverso i social media.

 

Halar Nawaz prosegue la sua riflessione chiedendosi come sia possibile determinare la colpevolezza senza una adeguata indagine legale; a questo si aggiunge il tema delle esecuzioni, spesso legata alla violenza della folla; sono anche oggetto di condanna pure le uccisioni perpetrate dalle forze dell’ordine, condannati anche da studiosi di legge musulmana e dagli insegnamenti dell’islam.

 

«La punizione – conclude l’esperto – dovrebbe essere determinata dai tribunali, non dalla polizia, dagli individui o dalle folle».

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Ieri, intanto, un tribunale dell’Agenzia federale di investigazione (AIF) di Rawalpindi ha condannato a morte una donna cristiana, Shagufta Kiran, dopo averla riconosciuta colpevole di blasfemia. Il verdetto fa seguito al suo arresto, avvenuto il 29 luglio 2021, per aver partecipato a una discussione su temi religiosi all’interno di un gruppo WhatsApp denominato «Pure Discussion». Il denunciante sosteneva che le sue osservazioni rilanciate sul gruppo erano «irrispettose» nei confronti del profeta Maometto. La sentenza ha lasciato la sua famiglia, in particolare i suoi quattro figli, sconvolta per una decisione dei giudici ritenuta ingiustificata.

 

Rana Abdul Hameed, avvocato di Shagufta legato all’organizzazione pro diritti umani Voice for Justice, afferma che le accuse sono infondate e motivate solo da rancori personali, come spesso avviene in casi in cui la legge viene sfruttata per dirimete questioni personali o controversie. Jubilee Campaign, un’organizzazione attivista con sede in Olanda, ha fornito assistenza legale alla donna e si sta preparando a presentare ricorso presso l’Alta corte.

 

Sconvolti i quattro figli di Shagufta Kiran: «Stiamo piangendo da ieri e questa notizia ha portato ancora più dolore e trauma a tutta la nostra famiglia» ha detto Nihaal, una delle figlie.

 

«Negli ultimi quattro anni – aggiunge in un’intervista a EU Today – abbiamo sofferto per il caso di mia madre. È stata tenuta in una cella di isolamento dal 2021. Dio ci ha messo in una grande prova». Gli attivisti esortano inoltre la comunità internazionale a denunciare il continuo abuso delle leggi sulla blasfemia in Pakistan, a sostenere la protezione delle minoranze religiose e la salvaguardia dei diritti umani fondamentali.

 

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Cina

Cina, il nuovo vescovo Cai Bingrui e la frontiera del Fujian

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   L’attuale vescovo di Xiamen ai sensi dell’intesa tra Pechino e la Santa Sede si è insediato oggi in una delle sedi storicamente più importanti della Chiesa in Cina. Nella provincia che si affaccia su Taiwan in un contesto politicamente molto sensibile. La sfida (ancora da completare davvero) di una ricomposizione con le comunità «sotterranee» e gli slogan ingombranti sul «patriottismo».   Come anticipavamo già qualche giorno fa, dopo l’ordinazione del nuovo vescovo di Luliang nella provincia dello Shanxi avvenuta lunedì, oggi è arrivata anche una seconda notizia di rilievo che riguarda la Chiesa in Cina: questa mattina è avvenuta la presa di possesso del nuovo vescovo della diocesi di Fuhzou, il capoluogo della provincia del Fujian.   Si tratta di mons. Giuseppe Cai Bingrui, 58 anni, che dal 2007 era già il vescovo di Xiamen, altra sede episcopale della stessa provincia. Non si tratta, dunque, di una nuova nomina episcopale, ma di un trasferimento che – ha reso noto la Santa Sede – è stato approvato da papa Francesco ai sensi dell’Accordo provvisorio tra Roma e Pechino sulla nomina dei vescovi.

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Formatosi nel seminario di Sheshan a Shanghai, divenuto sacerdote nel 1992, mons. Cai era diventato molto presto l’amministratore diocesano della comunità di Xianmen, diocesi dove il vescovo ordinato illegittimamente da Pechino (Joseph Huang Ziyu) era morto e restavano in tutto due giovani sacerdoti. L’ordinazione episcopale era poi avvenuta nel 2010, già con il consenso di Roma espresso secondo le modalità precedenti all’Accordo del 2018.   Ora, dunque, il pontefice «avendone approvata la candidatura» – recita il comunicato vaticano – lo ha nominato il 15 gennaio vescovo di Fuzhou «trasferendolo dalla sede di Xiamen». Nel capoluogo del Fujian prende il posto di mons. Pietro Lin Jashan, l’anziano arcivescovo proveniente dalla Chiesa «sotterranea» che nel 2020 ai sensi dell’Accordo era stata Pechino a riconoscere ufficialmente, ma che era poi morto nel 2023 all’età di 88 anni.   Va segnalato che la nota vaticana definisce il nuovo pastore come «vescovo» e Fuzhou come «diocesi», confermando anche in questo caso la geografia ecclesiastica imposta dalle autorità di Pechino, che non annovera metropoli.   Quella di mons. Cai è una nomina di peso per la Chiesa in Cina, in una grande diocesi in cui secondo le stime più recenti vivrebbero più di 300mila cattolici. Un contesto complesso, dal momento che le stesse comunità «sotterranee» – storicamente significative nel Fujian – già prima del riconoscimento ufficiale di mons. Lin Jashan erano a loro volta divise in due tronconi diversi, con un gruppo che continuava a far riferimento a un altro amministratore diocesano clandestino, mons. Giuseppe Lin Yuantuan.   Fuzhou è un luogo fondamentale nella storia dell’evangelizzazione in Cina: nel 1624 proprio qui il gesuita e matematico Giulio Aleni (1582-1649) – discepolo di Matteo Ricci – fu pioniere dell’incontro con la cultura cinese nella tarda dinastia dei Ming. I suoi dieci anni di dialoghi a Fuzhou con un gruppo di letterati confuciani convertiti al cristianesimo e poi raccolti nel Kuoduo richao (il «Diario delle ammonizioni orali») sono una testimonianza unica del primo cristianesimo cinese, come anche delle domande che l’annuncio del Vangelo suscitava da parte di quanti vi si accostavano.   Ma Fuzhou fu anche la prima frontiera del martirio dei cristiani sotto la dinastia dei Qing: nel 1747 fu in questa città che venne incarcerato e decapitato il vescovo domenicano mons. Pedro Sans i Jordà, già allora vicario apostolico del Fujian. E dei 120 martiri cinesi proclamati santi da papa Giovanni Paolo II il 1 ottobre 2000 nella cerimonia duramente contestata come una «provocazione» dal Partito comunista cinese, i primi sei – quelli che furono uccisi prima del XIX secolo – sono tutti missionari domenicani che hanno versato il loro sangue per l’annuncio del Vangelo in questa provincia cinese.   Il Fujian è un’area particolarmente importante anche nello sguardo sulla Cina di oggi: è una delle zone economicamente più dinamiche del Paese (e in realtà del mondo intero) e insieme è una frontiera particolarmente sensibile dal punto di vista politico (è stato iniziando da qui che Xi Jinping ha costruito la sua ascesa al vertice del Partito comunista cinese). Ma soprattutto è la prima linea del confronto con Taiwan, che nel tratto più vicino si trova ad appena 120 chilometri di mare.   Su questo ultimo punto c’è un episodio interessante che riguarda proprio mons. Cai: quando venne ordinato vescovo nel 2010 a Xiamen in una cerimonia presieduta da mons. Zhan Silu, tuttora vescovo di Mindong (ai tempi non ancora in comunione con Roma), fu presente anche il vescovo emerito di Taipei mons. Giuseppe Cheng Tsai-fa. E interpellato su questo da AsiaNews mons. Cai allora raccontò che la sua diocesi riceveva da molto tempo visite da parte dei cattolici della vicina isola di Taiwan e che sperava di continuare il dialogo e lo scambio con la Chiesa dall’altro lato dello Stretto.

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Oggi a lui spetterà il compito di continuare a Fuzhou il cammino di ricomposizione della sua comunità ecclesiale. Nelle ore in cui veniva resa nota la nomina, anche l’anziano presule «sotterraneo» Giuseppe Lin Yuantuan ha diffuso un biglietto in cui dice che la Santa Sede «auspica la sua collaborazione attiva nel guidare il clero, le suore e i fedeli di Fuzhou affinché siano obbedienti e sostengano il vescovo Cai Bingrui». Il che – però – è anche un modo per ricordare che, al di là delle nomine, l’unità è un cammino ancora da compiere fino in fondo nel Fujian, come mostrato negli anni scorsi a Mindong dalla sofferta vicenda del vescovo mons. Guo Xijin.   In un contesto del genere vanno lette anche le parole che il comunicato «ufficiale» di China Catholic mette in bocca al neo-vescovo di Fuzhou. Presentandosi oggi alla diocesi mons. Cai si sarebbe impegnato a tenere «sempre alta la bandiera del patriottismo e dell’amore per la Chiesa, aderendo al principio dell’indipendenza e dell’autogestione, alla direzione della sinicizzazione del cattolicesimo nel Paese, unendo e guidando i sacerdoti e i fedeli della diocesi di Fuzhou ad aderire a un percorso compatibile con la società socialista».   Le immancabili parole d’ordine di Xi Jinping, sulla frontiera del Fujian.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Persecuzioni

Nicaragua, il governo sequestra il seminario maggiore di Matagalpa

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Una trentina di seminaristi sono stati espulsi dal seminario maggiore filosofico San Luis Gonzaga, a sud-est della città di Matagalpa, in Nicaragua, per ordine della polizia e dei funzionari della Procura Generale (PGR) che, nel pomeriggio di lunedì 20 gennaio, hanno sequestrato il proprietà della diocesi di Matagalpa.

 

«Notizia molto triste: è stato confiscato il seminario San Luis Gonzaga a Matagalpa-Nicaragua. Il seminario è il cuore di una Chiesa e di una diocesi, è il luogo di formazione dei futuri sacerdoti. Questo pomeriggio è stato confiscato dalla polizia, lasciando tutti i seminaristi nell’incertezza», ha spiegato il sacerdote nicaraguense in esilio Erick Díaz, sul suo account Facebook.

 

Il sequestro del Seminario Filosofico si aggiunge a quello del Centro pastorale diocesano La Cartuja, situato a cinque chilometri a nord della cittadina di Matagalpa, sequestrato dalla polizia e dalla PGR nel pomeriggio di giovedì 16 gennaio. Dal 19 agosto 2022, inoltre, la polizia occupa la residenza vescovile nel centro della città.

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I seminaristi, delle diocesi di Matagalpa e Siuna, sono stati rimandati a casa e, per il momento, non si sa se qualcuno sia stato arrestato. Padre Díaz ha sottolineato che la diocesi di Matagalpa, guidata dall’esilio da mons. Rolando Álvarez, sta subendo il peggiore «assalto della sua storia» sotto il governo presieduto da Daniel Ortega e sua moglie Rosario Murillo.

 

«È la diocesi più colpita del Paese. Proprio questa settimana sono stati sequestrati e confiscati due dei suoi beni più preziosi: il centro di ritiri spirituali La Cartuja e, ora, il seminario dove si formano i nostri futuri sacerdoti. Possa Dio aiutare sempre la nostra diocesi di Matagalpa», ha aggiunto il sacerdote.

 

L’avvocato Martha Patricia Molina, autrice del rapporto «Nicaragua, una Chiesa perseguitata», in cui denuncia gli attacchi sistematici del regime di Ortega-Murillo contro la Chiesa, come quello contro il seminario, ha denunciato anche sui suoi social network che, poiché Domenica 19 gennaio è aumentata la sorveglianza sui sacerdoti nella diocesi.

 

Articolo previamente pubblicato su FSSPX.News.

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Persecuzioni

Quali sono i Paesi più pericolosi per i cristiani?

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Il sito Open Doors ha pubblicato un rapporto intitolato «Scoprire i luoghi più pericolosi per i cristiani?». Negli ultimi dieci anni la persecuzione dei cristiani nel mondo è aumentata del 25%; 380 milioni di cristiani si troverebbero così ad affrontare «forte persecuzione o discriminazione a causa della loro fede», ovvero «1 cristiano su 7 nel mondo».   Il rapporto elenca i 50 Paesi che attuano le maggiori persecuzioni contro i cristiani.  

1. Corea del Nord

Quella in cima a questa triste lista è, ovviamente, la Corea del Nord. Essere cristiani può significare una condanna a morte. I cristiani possono essere deportati in un campo di lavoro, dove pochi sopravvivono, o uccisi sul posto. Le autorità nordcoreane possono anche punire i membri della loro famiglia allargata, anche i non credenti.   All’inizio del 2024, il governo ha annunciato un inasprimento della legge e misure repressive, dopo l’esecuzione di 47 adolescenti (di cui 30 sotto i 17 anni).

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2. Somalia

Quasi tutti i cristiani in Somalia sono di origine musulmana e la conversione è pericolosa per la vita. Al-Shabaab, un gruppo islamico, cerca di sradicare il cristianesimo, in particolare attraverso l’eliminazione dei leader cristiani. I credenti sono perseguitati anche dalla comunità e dalla famiglia, e il rifiuto dell’identità musulmana è visto come un tradimento che colpisce l’intera famiglia.   Il semplice fatto di essere sospettati di essersi convertito dall’Islam al Cristianesimo può mettere in pericolo la vita di un credente. Potrebbe essere messo agli arresti domiciliari, sposato con la forza, sottoposto a rituali islamici forzati o minacciato di vita. Ma un cristiano scoperto può anche essere ucciso sul posto.  

3. Yemen

In un paese dilaniato dalla guerra civile, la vita è difficile per tutti nello Yemen. Ma è particolarmente difficile per i cristiani. Il paese è ora diviso in territori governati da tre diverse potenze, tra cui Al-Qaeda. La costituzione ufficiale dello Yemen sostiene la legge della sharia.   Se denunciati, i credenti potrebbero essere soggetti a dura sorveglianza, detenzione arbitraria e tortura. Possono anche essere uccisi. È pericoloso possedere una Bibbia o altri libri cristiani nelle zone controllate dagli Houthi (estremisti sciiti).   Diventare cristiano è considerato un tradimento significativo da parte della tribù. La comunità può punire la persona rinnegandola, diseredandola, divorziando, revocando la custodia dei figli, bandendola o addirittura uccidendola.  

4. Libia

A causa dell’illegalità e dell’estremismo, nessuna parte della Libia è sicura per i credenti. I cristiani convertiti dall’Islam subiscono violente pressioni da parte delle loro famiglie e comunità affinché rinuncino alla loro fede.   I cristiani stranieri, in particolare quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana, sono presi di mira da islamisti e gruppi criminali: questi gruppi li rapiscono e talvolta li uccidono. I cristiani che esprimono apertamente la propria fede o tentano di condividerla con altri rischiano l’arresto e la violenza. L’assenza di un governo centrale rende la situazione ancora più pericolosa.   La divisione Est- Ovest del Paese è ancora rilevante e i gruppi estremisti sono sempre più integrati nelle forze di controllo governative. La Libia rimane un luogo profondamente pericoloso e instabile per i cristiani.  

5. Sudan

Dal colpo di Stato del 2023 e dalla conseguente guerra civile, il Sudan ospita la più grande popolazione sfollata e la più grande crisi alimentare al mondo, con quasi 9 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case.   Più di 100 chiese sono state danneggiate e cristiani sono stati rapiti e uccisi. I cristiani sudanesi devono affrontare una dura reazione da parte delle loro famiglie e comunità. Questi credenti tendono a mantenere segreta la loro fede, anche ai propri figli.   Anche i cristiani affrontano difficoltà eccezionali nel contesto della crisi alimentare, poiché le comunità locali li discriminano e si rifiutano di sostenerli.   Dopo Eritrea, Nigeria, Pakistan, Iran, Afghanistan, India, Arabia Saudita, Myanmar, Mali, Cina… la lista si chiude con la Giordania, cinquantesimo Paese nominato.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Jan Luyken (1649-1712), Persecuzione degli imperatori Diocleziano e Massimiano nell’anno 301 (1685), acquaforte. Immagine di pubblico dominio via Wikimedia
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