Connettiti con Renovato 21

Pensiero

Oligarchia e aristocrazia eurodemocratica mondialista, da Ventotene a Kalergi e oltre

Pubblicato

il

La sinistra italiana perde la testa di fronte alla semplice lettura di brani del Manifesto di Ventotene, che evidentemente nessuno aveva mai letto, soprattutto tra cui se ne riempie la bocca scendendo pure in piazza.

 

Capiamo che per i sinceri democratici capire che – incontrovertibilmente – il testo base dell’eurodemocrazia spinge per la dittatura è un evento che può portare ad una dissonanza cognitiva esplosiva.

 


Sostieni Renovatio 21

«La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno».

 

Il Manifesto che si vuole alla base dell’Europa scrive proprio così: «La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio». Gulp: notiamo però anche come continua il passaggio, con un vero cortocircuito per i fan del ReArm Europe: «questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale».

 

«La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista»

 

Ma c’è di peggio: «nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente». Ri-gulp. «Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solito un torbido tumultuare di passioni».

 

Questa cosa della mancanza di consenso popolare tenetela a mente per dopo, ma il concetto – il comando di pochi sul popolo refrattario: cioè, in pratica, il primato assoluto delle élite – è sviluppato davvero lucidamente:

 

«Durante la crisi rivoluzionaria» scrive il Manifesto, il movimento «attinge la visione e la sicurezza di quel va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato ed attorno ad esso la nuova democrazia».

 

Potete riconoscere bene cosa è teorizzato qui: il popolo non conta nulla, comandiamo noi, gli esperti che conoscono davvero cosa vuole il mondo moderno. È un pensiero oscuro, aristocratico, dittatoriale – e sa di esserlo. Abbiamo imparato a vedere questa idea pienamente realizzata con il COVID – e di fatto immaginiamo gli estensori del Manifesto ventoteniano tutti mascherinati e penta, esa, epta, octavaccinati.

 

Giorgia, per una volta, ha fatto una cosa giusta, con tanto di esecuzione perfetta. Vedere Elly Schlein (che su tre passaporti, ne ha solo uno pienamente Schengen) che si strappa i capelli assieme ai compagni di partito con le lacrime agli occhi («oltraggio!») è bellissimo.

 


Bravo premier: leggere in Parlamento passi come questo era la cosa migliore da fare. Trump lo sta indicando con chiarezza: sgonfiare il pallone di menzogne e corruzione dello Stato-partito è possibile, oltre che doveroso.

 

Anche perché, sinceramente, non tutti capiscono da dove salta fuori questa cosa di Ventotene oramai assurto a culto di Stato.

 

Crediamo che sia un’operazione di ridefinizione della storia (con occultamento di verità lapalissiane) nello stile che conosciamo: la guerra in Italia non l’anno vinta americani e inglesi (e i loro bombardieri, che mi racconta ancora oggi lo zio sopravvissuto, erano tanti da oscurare il cielo sopra una piccola città di provincia), macché, la vittoria è stata dei partigiani.

 

Eccerto: e ce lo hanno ripetuto sino a che ciò non è divenuto dogma inscalfibile e fondamentale (la «Repubblica fondata dalla resistenza»), al contempo cancellando altri fattori del processo – e qui vorremo, al solito, fare il nome di James Jesus Angleton, la superspia americana cresciuta in Italia che fu «madre della CIA», poeta e stratega che fu con probabilità il vero padre dello Stato italiano del dopoguerra.

 

E quindi: l’Europa non nasce da interessi geopolitici immani, e probabilmente non Europei. Viene piantata a Bruxelles, dove sta la NATO, per caso. L’Europa non nasce nemmeno da macchinazioni massoniche che affondano nei secoli. No, ora ci dicono che l’Europa Unita parte da tre signori messi al confino da Mussolini. Ecco, qui sorge una domanda, scusate: ma perché i fascisti, che sono tremendi, mandavano su un’isola i dissidenti invece di metterli in galera o peggio? Riconosciamo che per alcuni questa domanda suona come una bestemmia, ma non credo che ci possano dare una risposta. Il fascismo uccide Matteotti ma lascia vivere Spinelli? (È vero, tuttavia, che i fascisti uccisero Colorni: ci torneremo sotto)

Iscriviti al canale Telegram

Qui vengono pensieri balzani. Non è che questi avessero qualche copertura, di quelle alle quali nemmeno il fascismo poteva resistere? Ci sovviene il caso di Alberto Beneduce (1877-1944), già collaboratore del primo sindaco anticlericale e massone, oltre che ebreo, Ernesto Nathan (che voci sussurrano potrebbe essere figlio di Mazzini), tesserato del PSI e massone a sua volta, uomo dietro alla creazione dell’assicurazione INA e dell’IRI, tanto importante per l’Italia mussoliniana che per quella democristiana.

 

Le idee socialiste di Beneduce, che fu senatore e ministro del Lavoro, non è che fossero tanto nascoste: tre delle sue figlie si chiamavano Idea Nova, Vittoria Proletaria e Italia Libera. Un altro figlio lo ha chiamato Ernesto, immaginiamo in onore al Nathan. Essendo questo un articolo in cui parliamo di famiglie e aristocrazie democratiche (abietta contradictio in adjecto), vale la pena di ricordare che Idea Nova Beneduce nel 1939 divenne moglie di Enrico Cuccia, il mitico dominus, potentissimo e silentissimo, di Mediobanca.

 

Nel 1936, in pieno ventennio, Beneduce era al contempo presidente dell’IRI, delle banche pubbliche Crediop e ICIPU, dell’Istituto per il credito navale, nonché membro del Consiglio d’amministrazione dell’IMI e dell’Istituto nazionale dei cambi. Nel privato era presidente della Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali (la società chiamata Bastogi). Assieme al governatore della Banca d’Italia Donato Menichella fu ispiratore della legge bancaria del 1936.

 

Insomma, il socialista Beneduce era fuso pienamente con il deep state dell’Italia fascista. Intoccabile ed indisturbato. Che cosa permetteva a chi veniva da mondi politici distanti e non aderiva all’ideologia del totalitarismo italiano di rimanere in circolazione? Non sappiamo dire.

 

Qualcuno può pensare che, anche allora, vi fosse un piano più grande all’opera, che non riguardava solo l’Italia – del resto, la Giovine Europa era proprio un’idea, ci fanno studiare a scuola, del Mazzini, proprio quello che alcuni dicono fosse padre del Nathan, morto da terrorista latitante come un Bin Laden qualsiasi.

 

Ecco che ci viene in aiuto il libro della scomparsa antropologa Ida Magli, il cui titolo è più che mai d’attualità, La dittatura europea: «(…) ad Altiero Spinelli è stato indispensabile delle potenti società semisegrete di cui abbiamo parlato, e della grande finanza nelle vesti di Gianni Agnelli. Spinelli era infatti membro del Bilderberg e fondatore assieme ad Agnelli dell’Istituto per gli Affari Internazionali Italiano».

 

Lo Spinelli nel Bilderberg: sì, pare se lo siano dimenticati tutti nella costruzione dell’eurosantino – non che la cosa, tuttavia, disturbi le sensibilità piddine. Al contempo, la Magli non aveva paura di fare nome e cognome dell’ingrediente ulteriore che con l’oscura aristocrazia eurodemocratica ha voluto riformulare i Paesi del continente: l’oligarchia.

 

«Non sappiamo se fosse la sua condivisione degli interessi di Agnelli alla mondializzazione del mercato, o il suo odio per la Nazione Italia a spingerlo su posizioni europeiste assolute» accusa la Magli. «Fatto sta che non è mai riuscito, pur avendo ottenuto grandi vantaggi dall’europeismo, quali un seggio parlamentare e il posto di Commissario europeo, a far conoscere e apprezzare il suo movimento all’opinione pubblica italiana».

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Proprio quello che sembra: l’europeismo, anche in Italia, è un movimento inflitto, in nessun modo organico alla popolazione, che di suo lo respinge. Gli europeisti convinti che si vedono in giro – con tanto di foto lombrosiane – esistono solo all’interno di piazza artificiali, come quella vista negli scorsi giorni, dove ad organizzare vi è un sedicente giornalista di satira, con doppio cognome, scrivente per qualche ragione da sempre sul giornale dei casati aristo-capitalisti dei Caracciolo e degli Agnelli, ora confluiti nella dinastia rabbinica degli Elkann.

 

Parliamo ovviamente di Repubblica, creata dal «laico» (sapete, in Italia, questo aggettivo a cosa è equivalente…) Eugenio Scalfari, che più di ogni altro riuscì negli ultimi decenni ad agglutinare un consenso popolare all’ascesa della sinistra di governo, vezzeggiando e rimestando il «ceto medio riflessivo» (professori, impiegati del para-Stato, e altre demografie con la pancia riempita automaticamente e tanto tempo libero), in modo da far percolare certi ideali – come l’amore incondizionato per l’Europa, non condiviso, per esempio, dal PSI – ed essere dirimente nella politica di era prodiana.

 

Eppure, nemmeno con i cannoni di Repubblica si è riusciti a rendere Spinelli una figura popolare (che è quello che, un po’ in ritardo, stanno cercando di fare ora).

 

«(…) È probabile che questa mancanza di riscontro popolare sia stata dovuta anche all’arroganza e dittatorialità del suo comportamento, un comportamento che appare, sotto questo aspetto, perfino peggiore di quello di Coudenove-Kalergi» tuona la Magli.

 

Qui spunta ancora, inevitabile, la figura del conte austriaco di famiglia greco-veneziana e di madre giapponese (cosa che, crediamo, gli ha creato qualche scompenso: leggetevi le sue conclusioni su razze e genere nei suoi libri per capire lo squilibrio): di Kalergi – di fatto progettatore del piano di invasione immigrazionista che stiamo vivendo – non si deve parlare, e perfino i ministri che vengono dall’ex MSI dicono di non conoscerlo. Non se ne deve parlare soprattutto vicino a Ventotene: anche se la Pan-Europa kalergiana è riconosciuta essere prodromo del Manifesto di Spinelli e compagni.

 

Dicevamo: quello che propongono qui, sotto la vernice democratica, è non solo una dittatura (appunto: la Dittatura europea) ma una vera aristocrazia, in cui comandano i pochi che sono nel giusto. E magari, trasmettono un po’ di potere anche ai figli.

Acquistate le Maglie Crociate

Certo è che le famiglie dei ventoteniani sono interessanti.

 

Ernesto Rossi (1897-1967) si sposò nel 1931 in reclusorio con rito civile: era un anticlericale sfegatato. La sposa, Ada Rossi, è definita «partigiana» e «antifascista», oltre che fondatrice con il marito e i ventoteniani del Movimento Federalista Europeo. Si ricordano i suoi legami con Gaetano Salvemini, che gli disse «avessi mai potuto fabbricarmi un figlio su misura me lo sarei fabbricato pari pari come te» e più tardi con il giovane Marco Pannella: finito il Partito d’Azione, Rossi era entrato nel Partito Radicale ai suoi albori, accettando di presiedere, poche ore prima di morire, la manifestazione dell’«apertura dell’Anno anticlericale».

 

Eugenio Colorni (1909-1944), l’unico a non morire nel suo letto effettivamente assassinato dai fascisti della banda Koch a pochi giorni dalla liberazione, proveniva da una famiglia ebraica di commercianti lombardi. La madre era una Pontecorvo, ulteriore famiglia ebraica pisana che conta nella sua discendenza il fisico nucleare Bruno Pontecorvo (allievo di Fermi, con cittadinanza britannica, poi fuggito in URSS) e il regista Gillo (autore di film anti-colonialisti ammaniti al pubblico cinefilo mondiale come il tremendo La battaglia di Algeri o Queimada!).

 

Sposò una correligionaria ebrea, Ursula (anche lei) Hirschmann (1913-1991), che proveniva da un’agiata famiglia dell’ebraismo tedesco. Il fratello, Albert Otto Hirschmann, era un economista che fu poi candidato al premio Nobel. Conobbe Colorni a Berlino, lo frequentò a Parigi per poi seguirlo a Trieste e Venezia. Come ribadito da Elly Schlein in Parlamento, la Hirschmann è riconosciuta tra i fondatori del mito di Ventotene.

 

Con Colorni ebbe tre figlie, tra cui Renata – traduttrice dei capolavori della letteratura tedesca, con molti anni spesi a collaborare con l’editore Adelphi – e Eva, che nel 1973 fu presa in moglie da un’altra figura centrale del mondialismo, l’economista e filosofo indiano premio Nobel Amartya Sen. Più tardi, sempre per parlare di «aristocrazie» e casati giudaici, il Sen avrebbe sposato Emma Georgina Rothschild, della nota famiglia di banchieri.

 

Dopo la morte di Colorni, la moglie Ursula – in un caso di endogamia tra europionieri – si risposò proprio con Altiero Spinelli. Nel 1975 aveva formato a Bruxelles il movimento Femmes pour l’Europe («donne per l’Europa»). Morta nel 1991 dopo anni in cui perse la parola a seguito di un aneurisma, è sepolta a Roma al cimitero acattolico. Il matrimonio con Spinelli portò nel 1946 la nascita della giornalista (zona Repubblica, ça va sans dire) ed europarlamentare (con il partito biodegradabile «L’Altra Europa con Tsipras») Barbara Spinelli, di cui si ricorda l’attivismo per impedire l’eligibilità di Silvio Berlusconi al Senato.

 

Barbara Spinelli è stata la compagna del grand commis superfunzionario italico Tommaso Padoa Schioppa (1940-2010), già ministro dell’economia del governo Prodi II (quello de «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima»), vicedirettore generale della Banca d’Italia, presidente della CONSOB, dirigente del Fondo Monetario Internazionale, nonché Membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, considerato da alcuni come uno dei fondatori della moneta unica, l’euro. Una mela non cade molto dall’albero…

Aiuta Renovatio 21

Le ridondanze e le ramificazioni, in questa storia (possiamo dire, anche per ischerzo, euro-pluto-giudaico-massonica?) di piccole dinastie, aristocrazie, oligarchie, sono tantissime.

 

Ora con il culto di Ventotente pare che dobbiamo riverire questo demi-monde eurodemocratico come si trattasse di famiglie di una monarchia: in realtà lo sono, perché l’accentramento del potere, pure a dispetto del popolo, è da essi teorizzato apertis verbis. Non dovete quindi stupirvi delle elezioni romene, né di altro.

 

Il problema più grande è che ora, l’Europa di questi qui vuole armarsi per poi – con ogni probabilità – scontrarsi con la Russia. Cioè, mette in pericolo tutti noi.

 

Quanto potremmo ancora tollerare di essere dominati da chi ci pone in un simile pericolo?

 

Roberto Dal Bosco

 

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

 

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

Pubblicato

il

Da

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

Sostieni Renovatio 21

Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

Aiuta Renovatio 21

La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
Continua a leggere

Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

Pubblicato

il

Da

Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

Sostieni Renovatio 21

Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

Aiuta Renovatio 21

L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

Continua a leggere

Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Pubblicato

il

Da

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

Sostieni Renovatio 21

«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

Aiuta Renovatio 21

L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
 
Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
Continua a leggere

Più popolari