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La polizia britannica arresta la moglie di un politico per un tweet

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La moglie di un consigliere conservatore del Regno Unito è stata arrestata con l’accusa di odio razziale, dopo aver affermato che gli hotel che ospitano richiedenti asilo dovrebbero essere incendiati, hanno riferito i media britannici martedì.

 

Lucy Connolly ha rilasciato queste dichiarazioni sul suo account X poche ore dopo l’accoltellamento mortale di tre studentesse in una lezione di danza nella città di Southport il 29 luglio. Il presunto assassino è stato identificato come Axel Rudakubana, un diciassettenne nato in Gran Bretagna da genitori ruandesi.

 

In un post ora cancellato, la donna di 41 anni, che lavora come tata a Northampton, ha affermato: «Deportazione di massa adesso, incendiate tutti i fottuti hotel pieni di bastardi, per quel che mi riguarda, e mentre ci siete, portatevi dietro anche il governo traditore e i politici».

 

«Mi sento fisicamente male sapendo cosa queste famiglie dovranno sopportare ora. Se questo mi rende razzista, così sia».

 

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Da allora la Connolly si è scusata e ha affermato di aver agito sulla base di informazioni «false e malevole» e di aver scritto il post in un momento di «estrema indignazione ed emozione».

 

La polizia del Northamptonshire ha dichiarato che la donna è stata arrestata con l’accusa di incitamento all’odio razziale e che è ancora in custodia.

 

Suo marito, il consigliere conservatore Raymond Connolly, ha affermato che sua moglie ha scritto un «tweet stupido e impulsivo, spinto dalla frustrazione, e lo ha subito cancellato».

 

«È una brava persona e non è razzista», ha detto alla BBC, aggiungendo che «si prende cura di bambini somali e bengalesi e li ama come se fossero suoi».

In un altro post su X di martedì, la Connolly ha affermato: «Sono una persona a cui stanno molto a cuore i bambini e la somiglianza tra quei bellissimi bambini che sono stati attaccati così brutalmente e mia figlia mi ha sopraffatto dall’orrore, ma non avrei dovuto esprimere quell’orrore nel modo in cui ho fatto».

 

Come riportato da Renovatio 21, le autorità britanniche hanno dichiarato apertamente che perseguiranno quanti protestano anche online, arrivando a dire che anche ritwittare qualcosa può costituire un reato.

 

Secondo alcune stime il numero di persone arrestate in Gran Bretagna per qualcosa scritto su internet supererebbe le tremila persone.

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Il problema della libertà di parola nel Regno Unito è risalente.

 

Come riportato da Renovatio 21, due anni fa un uomo fu arrestato un veterano dell’esercito per aver condiviso su Facebook un meme critico degli LGBT, con le bandiere arcobaleno a formare una svastica. Il meme era stato pubblicato previamente dal politico conservatore Laurence Fox, che ebbe l’account Twitter bloccato.

 

L’anno scorso vi fu il caso di una minorenne autistica arrestata e prelevata con forza da casa dalla polizia per aver detto la parola «lesbica».

 

La psicopolizia britannica è arrivata al punto di perseguire – davvero – le preghiere detto con la mente, come dimostrano i vari arresti di persone che pregano in totale silenzio fuori dalle cliniche abortiste.

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Immagine screenshot da Twitter

 

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Immigrazione

La realtà dietro all’ultimo omicidio di Perugia

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Il mese scorso, un ragazzo di origini albanesi proveniente dalle Marche è stato ucciso da una coltellata mentre si trovava a Perugia con degli amici per passare una serata nella zona universitaria. La lite, con un altro gruppo di giovani, è scoppiata per futili motivi.    La nottata in discoteca era ormai finita e da uno sfottò calcistico è partita la scintilla che ha innescato le ire di ragazzi di origini nordafricane residenti in Italia con tanto di cittadinanza.   Stando a quanto scritto dall’ANSA, «in base a quanto accertato dalla squadra mobile di Perugia, un diciottenne recentemente finito in carcere per l’aggravamento del divieto di dimora in Perugia a cui era sottoposto per un altro episodio, si era fatto raggiungere dalla fidanzata per prendere un coltello custodito nella vettura. L’aveva quindi brandito verso l’altro gruppo per poi buttarlo a terra. Nel frattempo, in un’altra parte del parcheggio, c’erano state altre colluttazioni. Dalle indagini è emerso che il ventunenne di Perugia, dopo aver raccolto il coltello lanciato a terra dall’amico e con un secondo nell’altra mano, si sarebbe scagliato contro il giovane di Fabriano, colpito con un unico fendente al torace. Quindi la fuga, per poi disfarsi del coltello utilizzato nell’aggressione (non ancora ritrovato) e di alcuni indumenti».

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Questo «omicidio universitario» non può non riportare alla mente il delitto Meredith Kercher del 2007, consumatosi fra studenti, che segnò uno spartiacque per la città di Perugia, con lo sgretolamento di quell’eden edonistico di una nightlife universitaria da far invidia alla migliore movida spagnola. Da quel momento la città fu messa sotto i riflettori per l’emergere di una strabordante e dilagante violenza – in particolar modo nella zona del centro storico – fino ad allora soffocata e tenuta come la polvere sotto il tappeto, ma poi deflagrata sotto la lente d’ingrandimento dei media.   Ciò sdegnò i perugini che fino ad allora hanno voluto credere che tutto andasse bene. Su Renovatio 21 abbiamo recentemente avuto occasione di parlare di tale delitto con due interviste all’ex magistrato Giuliano Mignini che seguì tutta l’irrisolta vicenda.   Le problematiche legate a una microcriminalità sempre più diffusa – dati alla mano – sono da attribuire per una sostanziosa percentuale ad immigrati o di immigrati di seconda generazione. Nel centro storico del capoluogo umbro qualche mese fa c’è stata un’aggressione pubblica in un negozio di kebab da parte di quattro stranieri, tre albanesi e un greco, protagonisti di quello che pare sia stata una vera e propria spedizione punitiva come spiega la cronista Francesca Marruco su un giornale locale: «col volto parzialmente coperto dai cappucci delle felpe, entrano correndo armati di bastoni e mazze».    In questi giorni, sempre nella stessa zona, un altro fatto di sangue ha sporcato il salotto buono perugino come apprendiamo dalle cronache: «Un uomo è stato soccorso sulla scalinata del Duomo, all’ingresso principale verso piazza Danti, gravemente ferito da una coltellata alla schiena. A trovarlo a terra, intorno alle 5 di mattina, sono stati alcuni addetti della sicurezza privata. Sono stati loro a richiedere l’intervento della polizia, che ha richiesto la presenza del personale medico del 118. Si tratta di un tunisino, di 33 anni, con precedenti di polizia». «Dalle prime testimonianze raccolte, la coltellata sarebbe arrivata al culmine di una lite con due uomini di nazionalità marocchina, per ragioni ancora da chiarire» scrive La Nazione   Fatti di questo genere sono parte dell’ordinario e oramai non fanno quasi più notizia nemmeno quando si palesano nelle zone residenziali e storiche delle nostre città, dove famiglie, turisti, studenti e cittadini vivono godendo le bellezze architettoniche delle nostre città d’arte.   La settimana scorsa un gruppetto di «maranza» ha gettato da un soprappassaggio pedonale un carrello della spesa su una delle vie più trafficate nei pressi della stazione ferroviaria sfiorando per pura casualità le autovetture che in quell’ora del giorno transitano freneticamente su quella che è un’arteria importante del traffico cittadino.  
 
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Rammento un altro fatto di sangue che al tempo risultò prodromico per la caduta della maggioranza politica di sinistra che non aveva mai perso le amministrative nel capoluogo umbro. Era il maggio 2012. Una notte di inseguimenti e violenze nel centro storico di Perugia tra bande di stranieri, dopo che un nordafricano fu accoltellato quasi a morte. La sospetta morte scatenò le ire dei connazionali che iniziarono una serie di spedizioni punitive nei locali dell’acropoli per cercare i rivali. Si scatenò una guerriglia contro le forze dell’ordine in pieno stile far west.   «L’8 maggio 2012 il centro storico di Perugia fu teatro di una vera e propria guerriglia “tra bande” di albanesi contro tunisini, che si sfidarono a colpi di spranghe e bottigliate. La violenza aggressione degenerò, ci furono danneggiamenti alle macchine delle forze dell’ordine e vetrine dei negozi spaccati. Negli scontri fu accoltellato un tunisino che poi si è salvato dopo una lunga degenza in ospedale. Forse un regolamento dei conti tra bande di stranieri, legati al mondo della droga», come riportato da PerugiaToday.   Ricordo che i giorni appresso furono schierati carabinieri e polizia in ogni angolo per cercare di re-immettere sicurezza ai cittadini che si sentivano impauriti e smarriti. La conseguente caduta della sinistra portò alla vittoria di un sindaco di centro destra, Andrea Romizi, che con la sua giunta, quantomeno sotto il profilo della sicurezza, cercò di attuare misure atte a mitigare una situazione che di lì a poco avrebbe potuto degenerare ulteriormente, anche se poi atti vandalici commessi da immigrati ce ne sono stati lo stesso.   Al tempo Perugia fu etichettata come Gotham City, scatenando una canea social tragicomica, dove le varie fazioni politiche hanno scritto tutto e il contrario di tutto sui propri profili Facebook, enfatizzando alcuni fatti e portandoseli a loro favore a seconda delle necessità. È la solita «politica dei social network», che straparla, litiga, dibatte, urla, ma che poi di fatto, all’atto pratico, ben poco può o vuole fare in merito, stretta tra un groviglio legislativo pachidermico e uno spirito di politicamente corretto quanto mai pervasivo.   Rammento inoltre che colloquiando con un poliziotto in servizio nelle nostre regioni del nord est, parlando con dei suoi colleghi in maniera serena e informale, disse candidamente che «le lame le tirano fuori solo gli immigrati, quasi mai gli italiani». Segno evidente che vi potrebbe essere un’attitudine alla violenza più spiccata tra quelli che sono i cosiddetti italiani di seconda generazione.    Visto il trend odierno è bene ricordare che nel maggio scorso la zona della stazione ferroviaria di Perugia è diventata zona rossa – terminologia di covidica memoria – per cercare di arginare la delinquenza e sopperire alle mancanze in tema di sicurezza della nuova giunta comunale di sinistra.    Ci sarebbe da chiedersi come mai ci sia un incremento di violenza e criminalità proprio con il cambio di amministrazione locale. È difficile, a mio avviso, trovare una spiegazione logica, precisa e circostanziata. Può essere una semplice coincidenza, oppure una percezione da parte di alcuni criminali di poter essere meno controllati? Questo, in tutta onestà, non lo so.   Di certo c’è che la precedente amministrazione di centro destra ha concretamente fatto qualcosa per contenere questo tipo di reati – come detto non sempre riuscendoci – ma è altresì vero che ha comunque applicato una politica di superficie, non andando alla radice vera del problema legato alla immigrazione incontrollata, ma cercando di lustrare una facciata che tutto sommato ha distolto il cittadino, per un certo lasso di tempo, da questa criticità. Ora il problema ecco che torna a galla. Non spetta di certo alle amministrazioni locali estirpare in toto questi problemi, bensì sarebbe compito dello Stato che evidentemente esso stesso gioca e si muove in una superficie senza poter o voler scavare in profondità.   Dopo le «zone rosse» perugine ci possiamo aspettare il «lockdown maranza», già applicato in Francia, o il «lockdown adolescenziale» in salsa calabra atto a mitigare i cittadini esasperati dagli schiamazzi notturni, dalle ubriacature moleste e dalle violenze di queste bande di minori apparentemente fuori controllo, spesso anche sotto l’effetto di stupefacenti.   L’anno passato a Milano è scoppiata una rivolta etnica, ma praticamente nessuno la volle chiamare così, praticamente solo Renovatio 21. Né iniziare a pensare che il punto di non ritorno della banlieue francese è finalmente arrivato – e con esso, le no-go zone immigrate all’interno delle nostre città. Si tratta di un dato di rilevanza storica non solo per la «capitale morale», ma per l’Italia tutta. Milano, si dice, anticipa ciò che succede nel resto del Paese. Senza dimenticare i fatti di Peschiera del Garda: una cittadina messa sotto assedio da una moltitudine di giovani africani.   Tanto per cercare di essere più precisi e circostanziati è bene riportare alcuni dati ufficiali su tali questioni. Apprendiamo dal sito ufficiale del Ministero dell’Interno (dati relativi al 2022) del che i crimini commessi da stranieri, leggendo il tutto macro dimensionalmente e depurato da qualsiasi retorica qualunquista, rappresenta una criticità da non sottovalutare viste le percentuali: «La popolazione straniera residente nel 2022 sul territorio nazionale rappresenta circa l’8,5% del totale.

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Analizzando i dati relativi all’azione di contrasto effettuata sul territorio nazionale dalle Forze di polizia, nel 2022 si rilevano 271.026 segnalazioni nei confronti di stranieri ritenuti responsabili di attività illecite, pari al 34,1% del totale delle persone denunciate ed arrestate; il dato risulta in lieve aumento, sia in valori assoluti che in termini di incidenza, rispetto a quello del 2021, allorquando le segnalazioni erano state 264.864, pari al 31,9% del totale. Significativo è risultato il coinvolgimento di stranieri in attività delittuose di natura predatoria.   In particolare: furti, le segnalazioni riferite agli stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (41.462) rappresentano, per tale fattispecie, il 45,48% del totale; rapine, le segnalazioni riferite a stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (9.256) rappresentano, per tale delitto, il 47,31% del totale». Vedasi anche il sito del Ministero della Giustizia che ci dice quanti detenuti italiani e stranieri sono al sicuro nelle patrie galere.   Alla luce dei fatti e dei dati, si evince un quadro ben chiaro: questa «criminalità extracomunitaria» è un macro problema e sta diventando una vera e propria emergenza sociale che andrebbe trattata come tale. In primis dovremmo pretendere un dibattito sano, costruttivo, non fazioso sul tema e non occluso dalla cappa di politically correct che pervade anche questa tematica.   È compito delle istituzioni, ma anche dei giornalisti che troppo spesso mistificano i fatti di cronaca omettendo furbescamente le identità dei criminali in nome di una inclusività e di un neo linguaggio di stile orwelliano. In verità, la stampa non lo può dire, almeno non nei titoli – per il solito effetto della Carta di Roma, (il testo deontologico imposto ai giornalisti che prevede limiti di cronaca riguardo alle cose degli immigrati) – tanto che in tali articoli bisogna leggere fra le righe: le proteste e le violenze spesso sono perpetrate da ragazzi nordafricani di secondo o financo terza generazione.   Senza entrare nel campo ampio del problema dei flussi migratori, ci accontenteremmo semplicemente di più trasparenza e correttezza, per evitare il dilagare dell’anarco-tirannia in ciabatte.   Francesco Rondolini

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Immagine di Roberto Andreani via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic; immagine tagliata
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Immigrazione

Le ciabatte degli immigrati e l’anarco-tirannia

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Un video, l’ennesimo, pubblicato dal noto account X che raccoglie su scala globale filmati con le follie, assurde e quasi sempre violente, della società «multiculturale» caricatasi in ogni Paese in questi anni.

 

Ci sono degli africani che paiono discutere con dei soldati italiani, che paiono essere proprio di quelli messi in strada dai governi di Roma come cerottino nei confronti del degrado.

 

A colpire nel fimato è essenzialmente la tracotanza civile degli immigrati. Il cittadino italiano medio – quello che con le sue tasse paga l’invasione islamo-africana, sovvenzionando la vita del tizio che si vede nelle immagini – davanti ad un capannello di militari in città ha, di default, un senso di deferenza, se non di timore: perché si tratta di uomini armati, innanzitutto. Perché, fatto che agisce nella psiche appena sopra l’istinto del pericolo, il contribuente sa che quegli uomini armati agiscono come il braccio del potere primario dello Stato, ossia il puro e semplice monopolio della violenza.

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Non conosco tanti esempi di persone che si avvicinano naturalmente ai soldati, o ai carabinieri, o ai poliziotti per chiacchierare, talvolta nemmeno per chiedere informazioni, talvolta nemmeno quando questi palesemente non sono in servizio: figuriamoci mettersi a litigare. Questa è esattamente la loro funzione: ricordare al popolo che lo Stato detiene una facoltà superiore alla sua, quella dell’uso della forza fisica – e le armi impugnate in bella vista essenzialmente sono, prima che strumenti fisici, simboli di questo.

 

L’immigrato mantenuto dal contribuente non sembra avere nessuno di questi pensieri, né timori. Possibile che, davanti ad un uomo armato mandato dallo Stato non abbia, d’istinto, un po’ di paura? Sì, possibile. Perché l’istinto è sopraffatto dal ragionamento: questo sono operatori dello stesso Stato che, come un Babbo Natale incomprensibile, riempi l’immigrato di soldi, case, vestiti alla moda, telefonini, diritti superiori a quelli dei cittadini che pagano le tasse.

 

È ovvio quindi che l’immigrato non può prendere sul serio l’autorità in Italia, nemmeno quando essa si presenta con le armi.

 

Come abbiamo già visto in diversi casi – ricorderemo sempre quello di Peschiera del Garda, letteralmente conquistata per un giorno del 2022 da orde di maranza e di altri giovanissimi extracomunitari di seconda generazione – l’immigrato può vedere l’Italia, come ogni altro Paese europeo della democrazia terminale, come un territorio facilmente espugnabile, dove la sovranità degli autoctoni e dei loro eserciti può essere vinta con facilità. La creazione in tutto il continente di no-go zone (Finsbury Park, Molenbeek, Berlino, Malmo, San Siro) deriva da qui.

 

Tuttavia, quello che colpisce qui è altro, è un dettaglio apparentemente molto minore, ma in realtà fondamentale per la comprensione della dimensione politica nella quale stiamo entrando: l’immigrato, e pure a quanto pare l’amico che filma, portano delle ciabatte.

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Non si tratta di calzature tradizionali di qualche cultura lontana, ma di anonime, orrende ciabatte da mare in plastica, di quelle che si usano per fare il tragitto dallo spogliatoio alla vasca in piscina, o in villeggiatura quando si è nei pressi della spiaggia. Quelle con cui – ma potrebbe essere una leggenda metropolitana – è illegale guidare, e se ti beccano chissà cosa ti fanno, le autorità. (Pensa, cittadino italiano: temete l’autorità dello Stato moderno anche per le ciabatte in macchina)

 

Si tratta di quelle ciabatte che, non sappiamo ancora per quanto, sono, se portate in luogo pubblico, un simbolo di sciatteria intollerabile, si danno come segno di sciatteria assoluta, irricevibile, offensiva del contesto, come una mancanza di rispetto. Quella roba non credo che vi sia qualcuno che se la metta ai piedi in un luogo di lavoro. Non in un evento di qualche tipo. Non per andare a trovare qualcuno, a meno che non si abbia confidenza totale, o se si tratta di uno spostamento estomporaneo (tipo: pisciare il cane, con verbo romanamente transitivo).

 

Fu ad una riunione pro-life a Bologna quasi tre lustri fa che mi resi conto che uno dei capetti del giro probiotico ovino (non faccio nomi: mi sono quasi dimenticato come si chiamava) ci stava parlando dalla cattedra ma appena sotto indossava, visione rivoltante, delle ciabattazze da mare. Lì mi entrò in testa un’idea non solo sulla serietà con cui prendeva la missione, ma anche del come veramente egli vedeva i convenuti all’incontro.

 

Il genere della ciabattona di plastica è talmente infimo che nemmeno la moda sembra riuscire a metterci davvero le mani: negli ultimi anni c’era stato un marchio che vi piazzava, per ragioni a noi ignote, la bandiera massonica del Brasile, ma nemmeno quello sembra aver attecchito – le grandi aziende sembrano volerci mettere il brand ma non riescono a creare un modello memorabile, un qualcosa che la gente vuole veramente.

 

Ebbene, la ciabatta nel Terzo Mondo è, tuttavia una realtà indefettibile. Chi è stato in Africa, o in India, o in tantissimi altri Paesi diversamente sviluppati, lo sa. La maggior parte delle persone che vedi in strada hanno le ciabatte. Perché il senso di decoro lì non è il nostro, chiaro, ma non è solo quello: è il fatto che di default molte di quelle società ancora contemplano l’andare per il mondo scalzi, una pratica ancora diffusa o da cui da poco si stanno cercando di affrancare.

 

Ecco quindi che la ciabatta diventa il primo passo al di fuori della preistoria pedonale nella quale languono ancora tutte quelle società terzomondiali. Anzi: è possibile pensare che per molti di loro la ciabattella rappresenta uno status symbol, la volontà di ergersi sopra la parte tradizionale del proprio consorzio umano, un segno di eleganza e modernità.

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Ora, tutto questo dovrebbe crollare una volta che l’immigrato arriva in Italia, e trova circa sessanta milioni di persone – tra le quali, in teoria, dovrebbe voler vivere in armonia, o almeno così ci dicono le sinistre e pure le destre inani dinanzi all’aggressione demografica – che vanno in giro quasi esclusivamente con delle scarpe, cioè degli oggetti che avvolgono più o meno interamente il piede, impedendogli di venire a contatto con lo sporco delle strade, e impedendo al prossimo di venire a contatto con la potenziale maleonza podale che affligge una certa porzione dell’umanità.

 

E così è stato, vorremo dire, per tanto tempo: i primi immigrati che arrivati più di trenta anni fa con la legge Martelli sembravano inseguire, scimmiottando talvolta, i modi di vestire di noi autoctoni. Congolesi in conceria, egiziani in pizzeria, gambiani da fonderia e persino i marocchini zonali generici non si presentavano in ciabatte – e qualcuno ricorderà il termine desueto vucumprà, cioè l’ambulante maghrebino balneare, che magari circolava per le spiagge con le scarpe ai piedi.

 

Cerchiamo di capire: l’immigrazione dell’epoca – che giudichiamo pur sempre, consci del programma calergista, come drammatica e nociva per tutti – era sostanzialmente diversa. L’intento di assimilazione era in qualche modo presente, e pure visibile.

 

Ho in mente quando ho cominciato a notare questo segno: circa una quindicina di anni fa, quando arrivavo tardi col treno, vedevo la stazione popolarsi non solo di tipici balordi ferroviari, ma anche di immigrati più stanzializzati che aspettavano con evidenza qualcuno da accompagnare. Lì, in quel viaggio di passaggio, in quel contesto in cui si sentiva sempre più a suo agio per la predominanza dei suoi simili (le stazioni conquistate dagli immigrati), pure l’africano con permesso di soggiorno sentiva la possibilità di ciabattarsi.

 

Da allora, l’immigrazione è tanto cambiata, per quantità e qualità, e la società europea, pure. Non solo sono ovunque gli immigrati inciabattati: a questo punto pare abbiano cominciato ad utilizzare in scioltezza la camminata ciabattante, sconosciuta alla società occidentale – che cammina, non si trascina – o condannata come fenomeno da condannare (il bambino svogliato che striscia il passo). Il lettore conoscerà la questione: stranieri, uomini e donne, che strisciano le suole della calzatura mentre deambulano in strada, rendendo ancora più evidente, pensa l’indigeno benpensante, la mancanza di scopo di queste persone qui.

 

Crediamo che la situazione sia più molto più grave di così: le ciabatte, e il ciabattamento, sono un segno politico, psicopolitico, metapolitico immenso. Di fatto l’immigrato non rifiuta più solo l’autorità, ma anche ogni residua volontà di integrazione civile. È il simbolo incontrovertibile del fatto che non è l’africano che viene in Europa, ma l’Africa stessa, la sua sensibilità, la sua anima – e non c’è più alcun pudore in questo.

 

Non c’è più alcun bisogno di rispettare chi ti ospita: e questo non lo dice solo il crimine dilagante di mafie nigeriane et similia, non lo vediamo solo nelle immagini inguardabili di mancanza di rispetto delle nostre autorità perfino quando sono armate (e sarebbe da aggiungere: in cosa si sono trasformate le nostre Questure, se non in uffici per servizi agli immigrati?), lo dicono, a chiare lettere le ciabatte. Noi non vi rispettiamo, noi non riteniamo la vostra società come degna di emulazione, noi siamo qui per fare le stesse cose che facevamo in Africa, o peggio (perché in certi Paesi il crimine viene magari punito più che in Italia, compreso quello di immigrazione clandestina), e lo facciamo a spese vostre, della vostra stupidità di ospiti che si lasciano parassitare ad libitum. Siete la massa bovina – la massa vaccina che mungeremo come ci pare, quanto ci pare, senza sforzo alcuno, nemmeno quello di mettersi delle scarpe, che crediamo – qui è un punto da approfondire – che cooperative e ONG magari pure offrono assieme agli abiti alla moda e agli smartphone.

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Le ciabatte assurgono quindi a veri simboli dell’anarco-tirannia, la dimensione politica verso cui, Renovatio 21 lo ripete da anni, tutta l’Europa sta dirigendosi: per il cittadino leggi draconiane, sulle tasse, sulle cinture di sicurezza, sui vaccini su qualsiasi cosa, e implementazione massiva di sistemi punitivi dello Stato; per l’immigrato un mondo di balocchi dove i suoi crimini vengono raramente perseguiti, dove gli è possibile vivere in hotel con vestiti e telefonini forniti dallo Stato moderno stesso.

 

Anarchia e tirannia nello stesso sistema: l’ossimoro ha più senso di quanto non sembra a prima vista, perché la presenza di una classe di barbari liberi di gozzovigliare extra-legem, con la creazione di intere aree urbane dominate da una ferocia extra-europea, serve a tener buono il popolo, preoccupato più della propria sopravvivenza che, magari, del fisco oppressivo, della follia geopolitica che non permette di riscaldare le case, dello sfruttamento economico e morale che ha isterilito il Paese.

 

Proprio così: la decadenza nazionale, violenta e inguardabile, passa anche da qui. Si trascina con le ciabatte dell’anarco-tirannia.

 

Roberto Dal Bosco

 

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Immigrazione

Austria, vietato l’uso dell’hijab per le ragazze sotto i 14 anni

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Il governo austriaco annuncia che a partire dall’anno scolastico 2026 verrà posto un veto legale all’uso dell’hijab e di altri veli islamici nelle scuole pubbliche e private per le ragazze di età inferiore ai 14 anni, accompagnato da sanzioni pecuniarie per i genitori.   Il progetto non è nuovo. Già nel 2019, il 15 maggio, il parlamento aveva approvato un disegno di legge proposto dalla coalizione di governo che vietava l’uso del velo islamico nelle scuole primarie. Tuttavia, a seguito di un reclamo da parte dei genitori, la Corte costituzionale austriaca aveva stabilito che la legge era discriminatoria. In precedenza, in Austria era stata approvata una legge contro l’uso del velo integrale nei luoghi pubblici, entrata in vigore il 1° ottobre 2017.   Il 21 novembre 2025, il governo austriaco ha deciso di rilanciare il disegno di legge respinto dalla Corte Costituzionale. Tale legge vieterebbe l’uso dell’hijab e di altri veli islamici, incluso il burqa, a tutte le ragazze di età inferiore ai 14 anni nelle scuole del Paese. Questa misura, applicabile sia alle scuole pubbliche che a quelle private, entrerebbe in vigore all’inizio dell’anno scolastico 2026.

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Presentata dal ministro per l’Integrazione, Claudia Plakolm, questa misura include anche multe per i genitori in caso di recidiva. Nonostante la sentenza della Corte Costituzionale del 2019, la coalizione di governo ritiene di disporre ora di un quadro giuridico più solido, giustificando la proposta con il crescente numero di giovani studenti musulmani nelle scuole austriache.   Secondo il governo, l’obiettivo principale di questa legge è quello di fungere da «protezione per le ragazze, al fine di garantire il loro sviluppo indipendente». La norma si presenta quindi come uno strumento volto a impedire che pressioni culturali o religiose influenzino la vita scolastica delle ragazze minorenni.   La legge prevede multe fino a 800 euro per i genitori che non rispettano il divieto. Le autorità hanno chiarito che si tratta di sanzioni pecuniarie applicabili in caso di inosservanza ripetuta o deliberata.   Prima che la legge entri in vigore, il governo condurrà una campagna informativa rivolta alle famiglie e alle comunità scolastiche per spiegare la portata del divieto e le ragioni alla base di questa decisione legislativa.   Sebbene la legge si concentri specificamente sulla tutela delle ragazze di età inferiore ai 14 anni, questa misura si inserisce anche nel dibattito europeo sul ruolo della religione e delle espressioni culturali nelle scuole.

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L’FPÖ ritiene che la misura sia insufficiente.

Il Partito della Libertà (FPÖ), principale gruppo parlamentare con il 28,8% dei voti, chiede un divieto generale di indossare il velo in tutte le scuole, ritenendo insufficiente il piano del governo di coalizione di limitare tale divieto alle ragazze di età inferiore ai 14 anni.   In un comunicato stampa diffuso giovedì, il partito di opposizione ha inoltre esortato i parlamentari ad approvare una legge che vieti l’Islam politico e ha chiesto l’immediata cessazione dell’immigrazione illegale di massa.   «Il velo è un simbolo dell’Islam politico, dell’oppressione e del paternalismo delle donne e pertanto non ha posto nelle nostre scuole. In primo luogo, questa nuova ondata di immigrazione di massa deve essere fermata immediatamente e, in secondo luogo, l’Islam politico deve essere chiaramente vietato per legge», ha affermato il partito.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News  

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