Spirito
Il prestigioso destino di un testo fondatore
La celebre Dichiarazione di Mons. Lefebvre del 21 novembre 1974 compie 50 anni. Si moltiplicano gli articoli di stampa per onorare questo anniversario, celebrando l’accuratezza e la profondità di un testo davvero storico. Non ci sarebbe però, in questo tentativo di evidenziarlo, una forma di enfasi anacronistica o addirittura di «ripresa politica»? Questo testo ha davvero l’importanza che vogliamo dargli? Lo stesso monsignor Lefebvre si rendeva conto del significato della sua Dichiarazione? La domanda merita di essere posta, poiché le circostanze in cui è stata scritta sembrano umili e discrete.
Un «moto di indignazione», non una «Dichiarazione di guerra».
Dopo l’improvvisa visita apostolica avvenuta dall’11 al 13 novembre 1974, Mons. Lefebvre recò a Roma, presso le tre Congregazioni romane coinvolte in questa visita. Il 2 dicembre, appena tornato dal suo viaggio, mons. Lefebvre si rivolse ai seminaristi riuniti attorno a lui:
«Cari amici, mi è stato chiesto di chiarirvi un po’ qual è la posizione della Fraternità e del Seminario dopo la visita dei due visitatori apostolici avvenuta, e ho pensato che forse sarebbe stato il caso di leggervi una piccola Dichiarazione, che ho scritto per affermare con chiarezza i principi che ci guidano, e per non avere tentennamenti».
Infatti, il 21 novembre, ritornando a casa di Albano dopo alcuni colloqui con le Congregazioni, comprendendo che non c’era molto altro da aspettarsi per il momento e «in un moto di indignazione», come disse, aveva scritto di getto a sintesi della sua posizione.
Non fraintendete, tuttavia. Questo «moto» non è un impulso. «Evidentemente – prosegue – sono cose gravi, ma la situazione è grave. Pertanto, quando gli eventi sono gravi, dobbiamo anche prendere le decisioni corrispondenti e un atteggiamento fermo, chiaro».
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Monsignor Lefebvre non sapeva come si sarebbero evolute le cose. Ma ritenendo inutile perdersi in vane congetture sul futuro, precisò: «Io non sono più informato di voi su ciò che potrà accadere, su ciò che potrebbe non accadere. […] Lasciamo che gli eventi si svolgano come permette la Provvidenza, e preghiamo (…)».
«Ma ho voluto comunque assumere una posizione di principio che non ha bisogno di essere condizionata dagli eventi. Questa posizione di principio, mi sembra, è sempre stata quella del Seminario e della Fraternità. I termini forse sono più fermi, più chiari, più definitivi, perché la gravità della crisi è sempre in aumento…»
Poi con voce calma, pacata e forte allo stesso tempo, legge pacificamente il suo testo e conclude: «questa Dichiarazione può sembrarvi molto forte, ma credo che sia necessaria».
Ciò che motiva dunque questa posizione netta, che trascende con la sua chiarezza le circostanze particolari, è la consapevolezza della gravità della situazione: «un disastro che colpisce le anime. Perché è questo che dobbiamo vedere: le anime che si perdono! Quante anime andranno all’inferno a causa di questa riforma! E tutti questi conventi deserti, queste suore disperse, questi seminari vuoti! (…) Di fronte a quest’ondata di neoprotestantesimo e neomodernismo bisogna dire no!».
Soffermandosi poi sulla santità del sacrificio della Messa, tesoro della Chiesa e fonte di tutte le virtù sacerdotali e cristiane, conclude: «sono cose così preziose che mi sembra che non si possa parlare con sufficiente energia per cercare di preservarle e conservarle per la Chiesa e per le anime».
«Avrei preferito morire piuttosto che dover affrontare il papa a Roma!», confidò a padre Aulagnier l’11 novembre, mentre attendeva i visitatori inviati da Paolo VI.
La sua posizione non ha quindi nulla a che vedere con una fredda dichiarazione di guerra a Roma, né con una reazione troppo forte o poco controllata. Si tratta di un grave «non possumus», pienamente consapevole delle proprie responsabilità, pronunciato per fornire ai propri seminaristi, nella confusione crescente, una linea di condotta chiara e ferma. È una santa indignazione piena di fede; una professione umile e forte, ispirata unicamente dal suo profondo amore alla Chiesa e alle anime.
Un «casus belli» comunque…
I seminaristi non si erano sbagliati e accolsero con vibranti applausi la lettura di questo testo storico. Sebbene non fosse destinato al pubblico, viene comunque conosciuto e frammenti di esso vengono divulgati all’insaputa dell’autore, in condizioni diverse e talvolta deplorevoli. Monsignor Lefebvre decise allora di pubblicarne una versione autentica e completa, appena ritoccata, nel numero di gennaio 1975 di Itinéraires.
Ma nessuna preoccupazione lo turba: «quali che siano le sanzioni prese contro di noi, in queste condizioni non è più una questione di obbedienza, ma di conservare la fede. Se se ne vanno dieci, venti, quaranta, io resto!»
Alla fine di gennaio monsignor Lefebvre venne convocato a Roma dove, il 13 febbraio, incontrò tre cardinali. Uno di loro mostrò Itinéraires: «la vostra Dichiarazione, pubblicata su Itinéraires! Allora siete contro il Papa e contro il Concilio! Questo è inaccettabile!»
Dopo averlo lasciato a un monologo di venticinque minuti, monsignor Lefebvre chiarì con calma l’atteggiamento e il pensiero del seminario e della Fraternità. No, non è vero, non era contro il Papa. Si astenne sempre dal dire qualcosa di dispregiativo e rifiutò di permettere a chiunque di dire parole dispregiative nei confronti del Santo Padre in seminario.
D’altra parte, sottolineò che le conseguenze del Concilio che si erano manifestate nelle riforme erano molto gravi, e che non potevano accettarle: dovevano rimanere legati alla Tradizione. Ma i cardinali si fanno fecero duri: «se mantenete la vostra Dichiarazione, allora non potremo riconoscere la Fraternità, non potremo riconoscere il vostro seminario…». Detto questo, monsignor Lefebvre concluse: «io non vedo come posso cambiare la mia opinione».
Dopo un secondo incontro il 3 marzo, in cui gli fu stato detto: «il vostro manifesto è inaccettabile», mons. Lefebvre commentò per i suoi seminaristi: «Vediamo il degrado sempre più evidente della morale, della fede, della liturgia: non possiamo restare indifferenti a questa distruzione, non è possibile!»
«Ecco perché dobbiamo mantenere assolutamente la nostra fermezza, e non dubitare nemmeno per un momento della legittimità della nostra posizione. Non siamo noi che giudichiamo, non sono io che mi faccio giudicare. Io non sono che l’eco di un magistero limpido, professato da 2000 anni. È il magistero della Chiesa, è la Tradizione della Chiesa che condanna (…)».
«Diranno: “Vi separate da Roma!”. Al contrario, ad essa siamo legati più di ogni altro! Siamo legati a questa Roma che ha sempre professato la verità, professato il magistero della Chiesa. Questa Roma è nostra e noi la facciamo nostra. Ecco perché non dobbiamo preoccuparci».
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…E un motivo di condanna
La sentenza cadde il 6 maggio 1975. In tre parole: soppressione della Fraternità, chiusura del seminario e nessun sostegno a mons. Lefebvre finché avrebbe mantenuto le idee espresse nel suo manifesto.
«È attorno alla tua dichiarazione pubblica, nella rivista Itinéraires, che il nostro scambio è iniziato e principalmente continua. Non potrebbe essere altrimenti. (…) Tuttavia, tale Dichiarazione ci è sembrata inaccettabile sotto ogni punto di vista. È impossibile conciliare la maggior parte delle affermazioni contenute in questo documento con l’autentica fedeltà alla Chiesa, a coloro che ne sono responsabili e al Concilio dove si sono espressi il pensiero e la volontà della Chiesa».
Jean Madiran commentò laconicamente: «inaccettabile sotto ogni aspetto. In una sentenza ufficiale non è possibile supporre che si tratti di un lapsus o di un’imprecisione redazionale». L’unico argomento della sentenza del cardinale è il seguente: mons. Lefebvre è accusato di invitare tutti «a subordinare le direttive che provengono dal papa al proprio giudizio».
Non solo, continua Madiran, «è una falsificazione»; ma «quando, in nome del papa, le congregazioni romane favoriscono o impongono l’autodemolizione della Chiesa e l’apostasia immanente, non è per suo giudizio, è per il Credo, è per la virtù teologale della fede, è a motivo della Tradizione cattolica che ogni battezzato è chiamato a rifiutare e a resistere».
Nel mese di giugno, presentando un appello contro la soppressione della Fraternità e del Seminario, mons. Lefebvre indirizzava a Paolo VI il seguente rapporto, in cui si afferma chiaramente il ruolo assolutamente centrale svolto dalla sua Dichiarazione: «constatando che i visitatori sono venuti con il desiderio di allinearci sui cambiamenti avvenuti nella Chiesa dopo il Concilio, ho deciso di chiarire il mio pensiero davanti al seminario».
«Non potevo aderire a questa Roma rappresentata dai visitatori apostolici, che si permettevano di trovare normale e fatale l’ordinazione delle persone sposate, che non ammettevano una verità immutabile, che esprimevano dubbi sul modo tradizionale di concepire la Risurrezione di Nostro Signore (…)».
«Il 13 febbraio, 3 marzo, è stata discussa solo la mia Dichiarazione del 21 novembre. Con veemenza, il cardinale Garrone mi ha rimproverato per questa Dichiarazione, arrivando a darmi del “pazzo”, dicendomi che “facevo la parte di Atanasio”, e questo per venticinque minuti. Si è aggiunto il cardinale Tabera, dicendomi che “quello che fate è peggio di quello che fanno tutti i progressisti”, che “io avevo rotto la comunione con la Chiesa (…)».
«Ho cercato invano di formulare argomentazioni, spiegazioni, che indicassero il significato esatto della mia Dichiarazione. Affermavo che rispettavo e rispetterò sempre il Papa e i vescovi, ma che non mi sembrava scontato che criticare alcuni testi del Concilio e le riforme che ne sono seguite equivalesse a una rottura con la Chiesa; che mi sforzavo di individuare le cause profonde della crisi che attraversava la Chiesa, e che tutta la mia azione dimostrava il mio desiderio di costruire la Chiesa e non di distruggerla. Ma nessun argomento è stato preso in considerazione (…)».
«Così, dopo questo processo farsa, mi è stata fatta questa cosiddetta visita favorevole con qualche leggera riserva e due interviste incentrate solo sulla mia Dichiarazione per condannarla completamente, senza riserve, senza sfumature, senza esame concreto e senza che mi fosse consegnato nemmeno un testo scritto, e ho ricevuto una dopo l’altra una lettera da Sua Eccellenza monsignor Mamie sopprime la Fraternità e il Seminario con l’approvazione della Commissione Cardinalizia, poi una lettera della Commissione che conferma la lettera di Mons. Mamie, senza che venga formulata un’accusa formale e precisa sulle proposte avanzate».
«Ho dovuto quindi mandare via immediatamente centoquattro seminaristi, tredici insegnanti e personale del seminario, due mesi prima della fine dell’anno scolastico! Basta scrivere queste cose per indovinare cosa potrebbero pensare le persone che hanno ancora un po’ di buon senso e di onestà».
Un «segno di contraddizione»
Presente al centro delle condanne che colpirono mons. Lefebvre nel 1975, la sua Dichiarazione fu allora oggetto di discussioni tra i docenti del seminario di Econe. Alcuni avrebbero voluto correggerlo e scrivere una «dichiarazione moderata»: «Monsignore, ritirate il vostro primo testo e firmate questo!» Ma mons. Lefebvre non poteva cedere. Ai cardinali disse: «Potrei scriverlo diversamente, ma non potrei scrivere altro».
Poi quattro o cinque professori si ritirarono: il testo del 21 novembre divenne segno di contraddizione. Mons. Lefebvre lo ricorderà due anni dopo: «i professori avrebbero voluto che accettassi il Concilio! Avrei dovuto dimostrare la mia totale accettazione del Concilio e oppormi solo alle infelici interpretazioni del Concilio».
«Non potevo accettare una formula come questa. Perché, in coscienza e in verità, non credo che possiamo accettarlo. Dire che non c’è niente nel Concilio, che il Concilio è perfetto, che è un concilio come gli altri, che dobbiamo accettarlo come gli altri, e che ci sono solo interpretazioni e abusi del Concilio…»
Questo atto d’accusa al Vaticano II gli sembrava inevitabile: «perché nella famosa Dichiarazione faccio allusioni al Concilio? Questo Consiglio è pericoloso. Ci sono tendenze liberali, tendenze moderniste, che sono molto pericolose perché hanno poi ispirato le riforme che sono seguite e che hanno messo a terra la Chiesa. Giudichiamo l’albero dai suoi frutti, dobbiamo solo vedere».
I fatti stessi gli diedero ragione. Ai seminaristi, nel settembre 1975, spiegava: «il Santo Padre, i cardinali, in definitiva condannano il nostro seminario a causa della sua Tradizione! Per il fatto che manteniamo le tradizioni, ci troviamo, per loro, in opposizione al Concilio e quindi in disobbedienza alla Chiesa! (…)»
«Logicamente è quindi il Concilio che rompe con la Tradizione! Impossibile immaginarlo diversamente…! Poiché manteniamo gli orientamenti tradizionali, siamo condannabili in nome del Concilio: è quindi dal Concilio che è uscito qualcosa di nuovo, qualcosa che si oppone alla Tradizione…»
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Sulla cima di una montagna
Tuttavia, se la Dichiarazione appare chiaramente come una vera e propria posizione anticonciliare, non può essere ridotta a questa contraddizione. Sorge più in alto, su un’alta vetta da dove trascende ogni dialettica, in un clima di freschezza autenticamente cattolica.
«”Allora sei contro il papa, sei contro la Chiesa”, ci diranno. Non siamo affatto contro il Papa! Siamo i migliori difensori del Papa! (…) Siamo attaccati come la pupilla dei nostri occhi a ciò che il papa ha di più caro: difendere il deposito della fede, trasmettere il deposito della fede, le rivelazioni degli Apostoli, che furono date agli Apostoli da Nostro Signore».
«Quindi non siamo affatto contro il papa, anzi!». E in una lettera al Santo Padre, il 24 settembre 1975, «ribadiva quanto aveva affermato nella prima parte della sua Dichiarazione»: il suo «attaccamento senza riserve alla Santa Sede e al Vicario di Cristo», dicendosi devoto «con tutto il cuore al successore di Pietro, “maestro della verità”».
Ma la stessa Dichiarazione che lo preserva dalla separazione dal Papa, lo preserva anche dalla sottomissione servile a quest’ultimo. È ancora questo testo che citerà a Mons. Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato, in un incontro del 19 marzo 1976: «nessuna autorità, anche la più alta nella gerarchia, può obbligarci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica chiaramente espressa e professata dal magistero della Chiesa da diciannove secoli».
E commenterà: «”nessuna autorità, anche la più alta”: quindi il Papa, anche il Papa?» Monsignor Lefebvre non vede come si possa discutere una frase del genere, gli sembra ovvia… «Ma, insiste Mons. Benelli, è il Papa il giudice della verità, è il Papa il criterio della verità, è il Papa che decide della verità».
– «Penso che il Papa debba trasmettere la verità, ma non è lui che fa la verità. Lui non è la verità, deve trasmettere la verità».
– «In ogni caso non siete voi a fare la verità!»
– «Non sono io. Ma un bambino che conosce il catechismo conosce la verità, e il Papa non può opporsi alla verità che è nel catechismo e che i papi insegnano da venti secoli».
Magnifica risposta di saggezza e semplicità!
Monsignor Benelli supplica «Lei deve, monsignore, fare atto di sottomissione. Dobbiamo fare un atto di sottomissione! Direte che avevate torto; in secondo luogo, che accettate il Concilio, accettate le riforme post-conciliari, accettate gli orientamenti post-conciliari dati da Roma».
«Accettate la Messa di Paolo VI nella vostra casa e in tutte le case che dipendono da voi; e vi impegnate a far sì che anche tutti coloro che vi hanno seguito finora vi seguano nel cambiamento che dovete operare e nella disciplina che dovete imporre loro per ritornare alla disciplina della Chiesa! (…) Vi assicuro: se firmate questo atto, per il vostro seminario non c’è più nessun problema, non c’è più nessun problema, nemmeno materiale!»
Ma monsignor Lefebvre, incrollabilmente fedele alla linea chiara della sua posizione di principio, resta inaccessibile a queste intimidazioni. Vuole soltanto sottomettersi alla verità della Tradizione della Chiesa, anche se per farlo deve affrontare l’opposizione più dolorosa.
Nessuna pressione lo separerà dalla Roma eterna; nessuna contraddizione indebolirà il vigore del suo attaccamento a Pietro; nessuna paura lo distrarrà dalla sua fondamentale opposizione a tutti gli orientamenti liberali che demoliscono la Chiesa, anche se provengono da un concilio o dal Papa stesso.
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Una professione di fede
Nel 1982, mons. Lefebvre legge ai suoi seminaristi un breve testo scritto alla fine del 1974, che suona come un’eco della sua dichiarazione del 21 novembre, e ne ricorda lo spirito, intriso di fede:
«Invece di comprendere le ragioni che ci obbligano a mantenere la dottrina tradizionale, la liturgia tradizionale, e ad autorizzarci a continuare, anche solo in via sperimentale, ciò che stiamo facendo per dare alla Chiesa dei veri sacerdoti come li ha sempre avuti, l’attuale Curia Romana utilizza tutti i mezzi di pressione morale per farci accettare l’orientamento liberale della Chiesa».
«Cioè, una nuova espressione della fede, della catechesi, più vicina al modernismo che alla Tradizione e al Magistero; la nuova liturgia, con la nuova concezione del sacerdote, più vicina al protestantesimo che alla dottrina ortodossa».
«Questo orientamento liberale, che ha trionfato al Concilio Vaticano II, è proprio quello dei liberali e dei cattolici liberali che sono stati più volte condannati dai romani pontefici. Pio IX li designa come i peggiori nemici della Chiesa, come traditori; Leone XIII condanna definitivamente le loro teorie, che sono false, basate sui principi della Rivoluzione francese; San Pio X condanna l’applicazione di questo liberalismo nel modernismo e nel Sillon».
«Siamo quindi posti, senza che lo abbiamo voluto né desiderato, di fronte a una scelta da fare: ovvero, con il pretesto dell’obbedienza, entrare in questo orientamento liberale, distruttivo della fede e di ogni valore cristiano, orientamento forzato da parte di coloro che detengono potere nella Curia Romana».
«Oppure mantenere le fonti e i bastioni della fede, seguendo tutti i papi del XVIII e XIX secolo, e del XX secolo fino a Giovanni XXIII, fino a prima del Concilio, e vivere in un clima generalizzato di sfiducia, di critica da Roma e dai vescovi».
«Ovviamente la nostra scelta è fatta. Essa è più che mai per l’ortodossia della fede e per la Tradizione custode della fede. Vogliamo credere e vivere in comunione con la Chiesa cattolica di sempre, di tutti i santi, di tutti i papi che hanno propagato e trasmesso la vera fede cattolica».
«Siamo in comunione con la Chiesa di oggi in quanto essa continua la Chiesa di ieri. Ma non lo riconosciamo in questo atteggiamento e in queste convinzioni liberali, protestanti e moderniste».
«Non possiamo quindi accettare tutto ciò che, nella recente riforma, si ispira a questi principi, come i nuovi catechismi, la nuova catechesi, le meditazioni che sostituiscono i ritiri spirituali, la riforma liturgica ispirata ad un falso ecumenismo, la riforma del diritto pubblico della Chiesa ispirata ad una falsa libertà religiosa».
«Il tradimento della Chiesa da parte dei suoi chierici e dei suoi cattolici liberali porta frutti amari di cui il mondo intero è testimone, di cui alcuni si rallegrano e altri soffrono crudelmente».
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La «carta» della Fraternità
Nel 1985, mons. Lefebvre, che aveva appena festeggiato il suo ottantesimo compleanno, ripercorreva i vent’anni trascorsi. Rispondendo a certe insinuazioni, confida semplicemente: «non credo, in verità, di aver cambiato in alcun modo il mio atteggiamento verso tutto ciò che è accaduto nella Chiesa».
Rileggendo ai suoi seminaristi, tra gli altri testi, quello del 21 novembre 1974, dice: «continuiamo a dirlo! Questa è la verità».
Ma è proprio il 9 giugno 1988, alla vigilia delle consacrazioni episcopali che farà tre settimane dopo, che questa Dichiarazione risplende soprattutto con la sua luce e la sua forza silenziosa.
«Forse saremo condannati, questo non è sicuro… Forse taceranno, forse ci condanneranno… Ci ritroveremo come eravamo nel 1976, al tempo della sospensione».
«Potrebbero esserci alcuni che ci lasceranno. Per paura di Roma! È assurdo! Sempre questa paura di essere in difficoltà con Roma, come se Roma fosse ancora la Roma normale!»
«Ma, alla fine, da chi siamo condannati? E perché siamo condannati? Questo è quello che dovete vedere! Siamo condannati da persone che non hanno più la fede cattolica… Assisi è la negazione della fede cattolica, in pubblico! È stato fatto di nuovo a Santa Maria in Trastevere! Questo non è possibile, è inimmaginabile! Non è più Roma! Questa non è la vera Roma!»
Poi, con commovente serenità in un’ora così grave, il prelato prosegue:
«Dobbiamo sempre tornare alla Dichiarazione del 21 novembre 1974. È veramente la nostra carta».
«La rileggevo per leggervela di nuovo… credo che avrei potuto firmarla in tutti questi anni, e la firmerei ancora adesso: è la stessa cosa. Siamo esattamente nello stesso stato d’animo! Non siamo cambiati di una virgola! Questo è ciò che difendiamo e ciò che vogliamo assolutamente difendere! Contro questa Roma modernista».
«Quando tutto sarà cambiato, quando quelli se ne saranno andati e ci saranno persone che sono per la Tradizione della Chiesa, allora non ci saranno più problemi, ovviamente!»
Nell’ottobre 1988 vi tornerà un’ultima volta: «dovevamo scegliere! Non c’è niente da fare. Dovevamo scegliere tra la vecchia fede e queste cose nuove. Per questo considero ancora attuale la Dichiarazione che ho fatto il 21 novembre, dopo la visita dei prelati venuti l’11 novembre 1974, dicendo: Scegliamo la Roma di sempre! Non vogliamo la nuova Roma modernista».
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Conclusione
Monsignor Lefebvre è stato fedele a questa carta fino alla fine. Avendo assicurato, attraverso le consacrazioni episcopali, la sopravvivenza della Tradizione della Chiesa, poté cantare il suo Nunc dimittis e restituire la sua anima a Dio nella pace. Aveva combattuto la buona battaglia fino alla fine.
Nella cripta della chiesa del seminario di Econe, sulla tomba dove riposano le sue spoglie mortali, leggiamo incise queste parole: «Tradidi quod et accepi. Ciò che ho ricevuto, te lo ho trasmesso».
Cosa ha ricevuto? Una fede profonda nella persona eterna di Gesù Cristo, un attaccamento incrollabile ai tesori della Chiesa che sono il sacrificio della Messa e del sacerdozio, una speranza incrollabile nel trionfo della Regalità di Cristo e, a coronamento di tutto, una carità che ha consumato la sua anima al servizio della Chiesa, eco vibrante della carità di Dio stesso.
Sono queste ardenti disposizioni che furono espresse in modo così eloquente nella sua dichiarazione del 21 novembre 1974, e che ne spiegano la profondità e la saggezza.
Sotto il coperchio di pietra, con gli occhi chiusi, riposa in pace il valoroso prelato. Ma la sua Dichiarazione resta: brilla come un faro, continuando a illuminare i passi dei suoi figli.
«La Tradizione appartiene alla Chiesa; è in essa e per essa che la custodiamo in tutta la sua integrità, “in attesa che la vera luce della Tradizione dissipi le tenebre che oscurano il cielo della Roma eterna”» (Messaggio del Superiore generale e dei suoi Assistenti in occasione del cinquantesimo anniversario della dichiarazione del 21 novembre 1974).
Somma di articoli previamente apparsi su FSSPX.News
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Immagine da FSSPX.News.
Spirito
Vescovo tedesco afferma che «non dobbiamo evangelizzare» il mondo poiché si può essere «felici» senza Dio
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Spirito
Il Vaticano affronta la strategia dell’ambiguità
L’anno 2024 ha messo in luce una delle caratteristiche del governo dell’attuale pontificato: la strategia dell’ambiguità. È quanto emerge dai diversi atti pontifici che hanno scandito un anno segnato da un viaggio senza precedenti in Asia e Oceania, dalla chiusura del sinodo sulla sinodalità e dalla creazione di ventuno nuovi cardinali.
Capodanno spesso fa rima con valutazione. Oltretevere, lo scorso anno avrà confermato le grandi tendenze dell’attuale pontificato: preferenza per i viaggi alle periferie della Chiesa universale, enfasi posta su una più ampia consultazione dei laici, tendenza a scegliere i membri del Sacro Collegio in regioni «insolite» per non dire altro.
Ma nel corso di quest’anno si è manifestato un altro aspetto, che ha influito sul governo del pontificato, e che potrebbe essere designato con l’espressione «strategia dell’ambiguità», per usare le parole del saggista Francesco X. Rocca. Questo vaticanista, che è stato editorialista religioso del Wall Street Journal, vede questa strategia all’opera nella maggior parte delle azioni del pontefice argentino, come spiega sulle colonne del Catholic Register.
Innanzitutto con la promulgazione della Fiducia supplicans (FS), un documento controverso che permetteva la benedizione delle coppie irregolari: una dichiarazione che si credeva indirizzata alla Chiesa universale finché l’oste di Santa Marta non ne limitò particolarmente la portata. «Gli africani sono un caso particolare: per loro l’omosessualità è qualcosa di “brutto” dal punto di vista culturale; non la tollerano», ha dichiarato Papa Francesco su La Stampa del 29 gennaio 2024.
Tre mesi dopo, in un’intervista alla CBS, il successore di Pietro ha ulteriormente minimizzato la portata del FS, suggerendo che il bersaglio del documento fossero «individui» e non coppie formalmente irregolari. E un mese dopo, papa Francesco, in un incontro a porte chiuse con i vescovi italiani che avevano «fatto trapelare», ha ribadito la disciplina della Chiesa volta a escludere dal sacerdozio i candidati con tendenze omosessuali, pur negando qualsiasi «omofobia» delle sue foglie.
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Nell’aprile 2024, il Dicastero per la Dottrina della Fede ha pubblicato Dignitas inifinita, condannando la maternità surrogata e l’ideologia di genere. Un’affermazione ridimensionata nell’intervista già citata: «Esiste una regola generale in questo tipo di casi, ma bisogna considerare ogni caso in particolare per valutare la situazione, purché non venga aggirato il principio morale», stima poi Francesco.
L’accesso delle donne agli ordini maggiori soffre della stessa ambiguità: Francesco assicurava all’inizio del 2024 di «non prendere in considerazione» l’ordinazione di diaconesse, ma nell’ottobre successivo il papa ha ratificato il documento finale del sinodo sulla sinodalità in cui si afferma che «resta aperta la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale» e che «il discernimento deve continuare».
Lo stesso in materia di politica interna: in una conferenza stampa lo scorso settembre, il Papa ha affrontato la questione delle elezioni americane, affermando che i cattolici devono scegliere il candidato «meno cattivo» e aggiungendo che «ciascuno deve agire secondo la propria consapevolezza».
Nel contesto del conflitto in Medio Oriente – come in Ucraina – Francesco ha cercato di mantenere una certa neutralità, pur lasciandosi fotografare prima di Natale in preghiera davanti a un presepe in cui Gesù Bambino era avvolto nella kefiah, emblema della causa palestinese.
La Santa Sede ha poi pubblicato una foto del papa mentre contempla quello che definisce uno dei suoi dipinti preferiti: La Crocifissione bianca di Marc Chagall, opera in cui il pittore francese di origine russa denuncia i pogrom commessi in Russia dagli occupanti nazisti. Abbastanza da far rabbrividire sia Gerusalemme che Kiev…
Una delle chiavi di questa strategia dell’ambiguità si trova forse nella Lettera del Papa del 7 luglio 2024 Sul ruolo della letteratura nella formazione: «Riconoscendo l’inutilità e forse anche l’ impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una polarità antinomica vero/falso, oppure giusto/ingiusto, il lettore accetta il dovere di giudicare non come strumento di dominio ma come impulso all’ascolto incessante e come disponibilità a lasciarsi coinvolgere in questa straordinaria ricchezza della storia grazie alla presenza dello Spirito Santo» (n. 40).
Nel 2025 sarà prevista a Roma la celebrazione ufficiale del 1700° anniversario del Concilio di Nicea che, condannando Ario, stabilì definitivamente l’insegnamento della Chiesa sulla Trinità. L’opportunità di vedere se l’ambiguità lascerà il posto alla chiarezza…
Articolo previamente apparso su FSSPX.news.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Occulto
Gli esorcisti lanciano l’allarme
L’aumento della domanda
Nel testo si nota l’aumento delle richieste da parte di persone «convinte di essere vittime di un’azione straordinaria del demonio, in una delle sue varie forme». Ma talvolta l’intervento di terzi incompetenti e privi di discernimento interrompe il regolare esame del caso. Ecco perché gli esorcisti forniscono dieci chiarimenti «per far luce su alcune situazioni riprovevoli».1. Attenzione all’improvvisazione e al sensazionalismo
Alcuni sacerdoti, consacrati e laici, mettono in atto mezzi arbitrari, non autorizzati dalla competente autorità ecclesiastica. Ancora più gravemente, dissuadono i fedeli dal rivolgersi all’esorcista ufficiale della loro diocesi, suggerendo loro di rivolgersi ad altri esorcisti «più potenti» o sostenendo l’idea di una presenza demoniaca che loro identificano erroneamente.2. Ossessione per la presenza del demone
Alcuni «focalizzano la loro attenzione esclusivamente sulla presenza e l’azione del demone». Trascurano la fede, la preghiera, la vita sacramentale e la pratica della carità, che sono sempre state presentate come le armi migliori contro il diavolo. Pensano che la liberazione dipenda solo dalla ripetizione compulsiva di preghiere e benedizioni.3. Negligenza nel discernimento
Alcuni sacerdoti, «talvolta purtroppo anche alcuni esorcisti, trascurando il serio e rigoroso discernimento prescritto dai Praenotanda del Rito degli esorcismi, utilizzano criteri estranei alla fede cattolica, facendo proprie concezioni di origine esoterica o new age. Questo approccio è inaccettabile e contrario alla fede e alla dottrina della Chiesa», nota il documento.4. Pratiche superstiziose e uso improprio delle cose sacre
Il documento attacca chi usa «metodi superstiziosi», chiedendo foto o vestiti per riconoscere possibili malefici, toccando i fedeli per «diagnosticare la presenza di entità maligne», o suggerendo un uso improprio delle res sacrae (acqua, sale, olio santo, ecc.). Ciò mantiene «mentalità e pratiche superstiziose».5. Coinvolgimento di persone inappropriate
Alcuni sacerdoti collaborano con persone considerate «sensibili», indirizzando a loro i fedeli sofferenti, invece di indirizzarli all’esorcista ufficiale. Talvolta è l’esorcista diocesano a delegare a questi personaggi il compito di discernere una reale azione demoniaca, e addirittura a lasciarsi guidare da loro per «liberare» le persone sofferenti dal maligno. Un simile comportamento è evidentemente contrario alla missione dell’esorcista, il cui compito è quello di operare il discernimento e di utilizzare i mezzi forniti dalla Chiesa per combattere il demonio.6. Disprezzo per le scienze mediche e psicologiche
Nel discernimento, l’esorcista, oltre ai criteri tradizionali utilizzati per identificare i casi di azione demoniaca straordinaria, può ricorrere al consiglio di esorcisti esperti e, in certi casi, alla consulenza di esperti in campo medico e psichiatrico. Possono aiutare a comprendere l’origine di disturbi che non sono necessariamente di origine preternaturale. Rifiutarsi di farlo espone i fedeli a rischi inutili, perfino a pericoli gravi.7. Dichiarazioni dannose
Il testo rileva inoltre che «voler ad ogni costo identificare un’azione demoniaca straordinaria come causa scatenante di una situazione di sofferenza di cui si ignora l’origine, senza un serio discernimento, non solo è vano, ma può anche condurre a un danno». Soprattutto se si tratta effettivamente di malattie che non verranno curate.Aiuta Renovatio 21
8. La questione delle maledizioni
Le maledizioni, «purtroppo più diffuse nella società odierna di quanto pensiamo», non sono la causa di tutti i mali e le disgrazie che possono verificarsi nella vita di una persona. Questo comportamento non solo rischia di innescare la ricerca dei presunti coinvolti, ma genera anche sospetto, perfino odio, spesso in modo gratuito. Bisogna piuttosto offrire l’aiuto della preghiera e ricordare il potere della grazia divina in tutte le prove, e il fatto che Dio è il padrone di tutto ciò che accade, che lo abbia voluto o permesso. Infine, bisogna far proprie queste prove per configurarsi al Cristo sofferente.9. Guarire l’albero genealogico
Alcuni sacerdoti e perfino alcuni esorcisti «praticano la guarigione intergenerazionale come una condizione sine qua non, senza la quale non è possibile ottenere alcuna guarigione o liberazione» senza rendersi conto del danno che ciò arreca alla fede e delle conseguenze per le persone. Queste pratiche non hanno alcun fondamento. Si tratta di una brutta copia di ciò che fanno i mormoni.10. Estirpare la paura
L’esorcista deve essere un agente di pace che viene da Cristo. Bisogna lottare contro la paura che il diavolo usa per ridurre l’uomo alla sua mercé. Un sacerdote che ha paura del diavolo non potrà esercitare il ministero dell’esorcismo senza esporsi a gravi pericoli, soprattutto se combatte questa paura con pratiche più o meno superstiziose. Il documento si conclude con considerazioni generali sulla società e sul modo in cui percepisce oggi la funzione dell’esorcista, soprattutto attraverso i film, e sulla necessità di una vita cristiana solida, migliore fondamento per tenere lontano il diavolo da sé. Queste osservazioni sono interessanti e mostrano come oggi il ministero dell’esorcismo possa essere deviato o pervertito. Articolo previamente apparso su FSSPX.news.Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
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