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L’offensiva di Valpurga e altri demoni

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La terra, in Ucraina, comincia a rassodarsi. Succede così alla fine dell’inverno: il prezioso terreno di quelle zone, che è assai fertile, perde il carattere morbido e fangoso che assume con le fredde temperature. Quando sbocciano i fiori, il terreno diventa più secco, e quindi più facilmente percorribile dalle manovre di uomini e mezzi.

 

Ciò significa che lo scontro finale tra le forze russe e l’Ucraina – che ha dietro il più grande blocco militare della storia – potrebbe essere vicino. In pratica, la primavera, sarà foriera di una strage, perfino maggiore di quella che già stata consumandosi a Bakhmut e dintorni. Ver Sacrum, «maledetta primavera», dicevano gli antichi, ricordando riti crudeli che avvenivano in questi giorni, quando nei villaggi si sacrificavano e abbandonavano nei boschi le generazioni giovani.

 

Da inizio anno abbiamo sentito parlare in continuazione della famosa «offensiva ucraina» che doveva tenersi in primavera. I giornali occidentali – quelli italiani in testa – tengono alta la hype, mostrando al pubblico video di guerra a senso unico: ecco l’«eroico» attacco degli ucraini alla trincea russa, ecco il drone di Kiev che molla sui soldati russi, congelati in una buca, una granata.

 

Oscenità, crudeltà inarrivabili – è il nuovo volto della propaganda, nemmeno paragonabile a quello che abbiamo visto durante la catastrofe balcanica degli anni Novanta. Chi segue Renovatio 21, ha visto decisamente video diversi, che cerchiamo di postare – evitando quelli che offendono la dignità umana – negli articoli dedicati alle cronache di questi giorni di guerra.

 

Nonostante ci siano oramai molte voci, anche nel campo degli zeloti antirussi, che ammettano che la guerra Ucraina non sta andando bene (abbiamo sentito Condoleeza Rice, e di recente il massimo generale polacco Rajmund Andrzejczak), nonostante escano leak del Pentagono che dimostrerebbero la consapevolezza di una situazione disastrosa per Kiev (dove si arriva a dire che la ratio dei caduti per la Russia e l’Ucraina è forse 10 a 1), hanno continuato a bombardarci con lo scenario dell’offensiva primaverile. Sarà a marzo, anzi no, ai primi di aprile, anzi no, il 25 aprile (magari con il Battaglione Azov che canta Bella ciao, come molti suoi sostenitori piddo-italioti).

 

Ad un certo punto, nelle ultime settimane, è saltato fuori che l’offensiva ucraina di primavera sarebbe avvenuta il 30 aprile. Ecco, qui ci si apre una finestrella piuttosto grande.

 

Il 30 aprile è riconosciuta come la notte della morte dello Hitler, quello omaggiato dalle truppe ucraine – con tanto di interviste della Reuters a soldati che come nom de guerre si scelgono il neutro «Adolf». Ma non è la coincidenza che ci attira di più.

 

Il 30 aprile, come noto, è la notte di Valpurga. La notte in cui le streghe, nel punto di calendario della loro massima potenza, escono per il sabba con i demoni.

 

L’anno scorso abbiamo scritto un denso articolo sull’argomento.

 

Bisogna capire che Kiev è legata alla questione in modo profondo. Una notte sul Monte Calvo (1867), il poema sinfonico di Modest Petrovič Musorgskij ispirato alle leggende slave e alla storia del sabba delle streghe, fa riferimento ad un luogo appena fuori Kiev, una collina chiamata Lysa Hora, ritenuto un posto centrale nel folclore pagano e nella storia della stregoneria slava.

 

Ho visitato, anni fa, quella collina – e l’ho fatto contro il consiglio di un’amica ucraina di stanza a Milano che – bocconiana, inserita anche piuttosto in alto – mi aveva sconsigliato di farlo, soprattutto di notte. Ci andai di giorno, di fatto, ma fui colpito dal fatto che in lei si era come risvegliato un pensiero che non credevo che una ragazza della modernità internazionalizzata potesse avere: aveva paura del male, del male inteso non come concetto, ma come fatto di persone.

 

Come noto, nel 1940 Walt Disney si produsse in un’interpretazione visiva della Notte di Musorgskij, rappresentando – con capacità visionarie insuperate – la notte di Valpurga e il suo turbinio di spiriti e creature oscure, che danzano sotto le ali di pipistrello di Chernobog, l’antico «dio nero» degli slavi di cui parlano le Chronica Slavorum, che immenso emerge dal monte e avvolge con la sua ombra tutta la città.

 

 

Avevamo preso questo inarrivabile capolavoro di Disney – che dichiarò che Chernobog era Satana – come una strana profezia di quello che stava succedendo in Ucraina.

 

Anche dei segni evidenti di ritorno del paganesimo nell’Ucraina in guerra, abbiamo già scritto un anno fa.

 

Non si tratta solo del video, circolato nei primi mesi del conflitto, con la dea agreste che sgozza il soldato russo. Non si tratta nemmeno delle notizie uscite riguardo l’operato di sedicenti «streghe» a favore del regime di Kiev. Né dei casi, sempre più inquietanti, di crudeltà infinita delle truppe ucraine (dagli scherzi telefonici alle mamme dei caduti, alle torture sui prigionieri, al traffico di organi), con pure supposti episodi di cannibalismo.

 

È l’intero quadro che ci fa pensare che siamo dinnanzi, più che ha ad uno sforzo militare, ad un sabba demoniaco.

 

L’eliminazione di un’intera denominazione cristiana, la Chiesa ortodossa ucraina (UOC) ci fa pensare in questa direzione – dalle persecuzioni dei monaci della Lavra ai bombardamenti alle chiese di Donetsk durante la veglia pasquale.

 

Così come sa di commercio con forze anticristiane il supporto incondizionato a battaglioni che si dichiarano apertamente pagani, seguaci della rodnovery – il paganesimo paleoslavo a cui Azov ha pure eretto un tempio, versando il proprio sangue sulla terra dove hanno issato un totem del dio del tuono Perun – o pure del paganesimo germanico, come il tizio intervistato grottescamente dal Corriere della Sera, che tra un tatuaggio con scritto «Valhalla» e una runa a caso, si definisce con precisione Ásatrú, ossia seguace degli Asii, gli dei del Nord come Odino, Thor e compagnia.

 

 

Ma è qualcosa di più profondo che guida i fautori dell’offensiva di Valpurga – è un meccanismo già in atto da tempo, in realtà.

 

Il sabba, il rito pagano, prevede il contrario della Messa dei Cristiani: si sacrifica l’uomo per gli dei, invece che Dio per gli uomini. Il sacrificio umano è quindi l’elemento indispensabile per ogni celebrazione ai demoni.

 

Non è impossibile vedere che, in un mondo ancora cristianizzato dove il sacrificio umano non può essere celebrato pubblicamente, esso possa essere contrabbandato in altre forme: l’aborto, per esempio, o la guerra.

 

E in questo caso, parliamo della guerra, di questa guerra: un’altra «inutile strage», come ebbe a definire Benedetto XV nella sua Lettera i Capi dei popoli belligeranti del 1° agosto 1917.

 

Come il fratricidio europeo della Grande Guerra – voluto dalle potenze massoniche per liquidare gli imperi centrali, in particolare quello cattolico degli Asburgo – anche questa guerra, fratricida più che mai, era completamente evitabile, e la strage conseguente non ha alcun senso – se non quello dell’eliminazione, anche qui, di un impero cristiano, quello di Mosca, e della messa in atto, se volete seguire il mio ragionamento, di un altro focolaio di sacrificio umano pronto a divampare con il fuoco nucleare in ogni angolo della terra e  incenerire quella Civiltà che è figlia dell’era cristiana.

 

Per questo scatenano Chernobog. Per questo mandano avanti la guerra «fino all’ultimo ucraino», per questo mandano i ragazzi di Kiev ad essere disintegrati nel mattatoio di Bakhmut, dove l’aspettativa di vita al fronte è di tre ore. In molti, a quanto risulta, hanno consigliato a Zelens’kyj di mollare la città che i russi già hanno ripreso a chiamare Artemjovsk – ma niente, il massacro va avanti, e ci sono i video del «reclutamento» dei soldati da mandare a farsi macellare, con ragazzini catturati per strada a Odessa o Uzhgorod o in ogni altra città del Paese.

 

Bakhmut è un grande sacrificio umano, spinto da forze anticristiane, che non stanno solo a Kiev e nelle cinture neonazi afferenti, ma stanno a Washington, la superpotenza arcobalenata dell’imperialismo LGBT, dove i cattolici sono pedinati dall’FBI, dove le scuole cristiane sono attaccate dai trans, dove l’«interruzione di gravidanza» si sta avvicinando sempre più all’«aborto post-natale», cioè all’infanticidio puro e semplice. Come in Europa, del resto.

 

In un discorso che ha preceduto di poco il suo licenziamento, Tucker Carlson aveva cominciato a toccare l’argomento, che altre volte avevamo sentito sfiorare nelle sue trasmissioni.

 

«Se mi state dicendo che l’aborto è un bene positivo, cosa state dicendo? Beh, state sostenendo il sacrificio di bambini, ovviamente» ha detto Carlson durante un intervento ad un evento dell’Heritage Foundation. «Quando il segretario al Tesoro si alza e dice: “sapete cosa puoi fare per aiutare l’economia? Abortite”. Beh, in realtà è come un principio azteco. Non c’è società nella storia che non abbia praticato il sacrificio umano. Non una. Ho controllato. Anche gli scandinavi, mi vergogno a dirlo. Non erano solo i mesoamericani, erano tutti. Quindi questo è quello che è».

 

«Bene, qual è lo scopo del sacrificio di bambini? Beh, non c’è nessun obiettivo politico legato a questo. No, questo è un fenomeno teologico».

 

Sì: aztechi, scandinavi, romani, greci, slavi – tutti i popoli pagani erano retti su sacrifici umani – sino all’era di Cristo. Ora, chi, in odio a Nostro Signore, vuole tornare indietro, torna a programmare e praticare l’uccisione rituale, «teologica», di uomini, donne e bambini (soprattutto i bambini, ma non solo, come stiamo vedendo).

 

Tucker ci è arrivato. Noi, in questo piccolo sito, davanti ai nostri amati lettori, ne parliamo da anni: siamo dinanzi al ritorno del paganesimo, cioè, tecnicamente, al ritorno del sacrificio umano, in guerra come negli ospedali, nelle provette come nelle nostre strade. Siamo di fronte al cambio del paradigma della Civiltà cristiana, che viene disintegrata per installare sulle sue rovine un nuovo sistema operativo, la Necrocultura, la Cultura della Morte che odia la Vita e l’essere umano e ne vuole la l’umiliazione e la distruzione.

 

Il progetto dei demoni, a Kiev come altrove, è tutto qua.

 

Al momento, lo vediamo in chiarezza nella guerra in corso. Chernobog si è alzato e domina su Kiev e su tutta l’Ucraina dei massacri.

 

Avete capito che serve un esorcismo. Serve preghiere, e digiuno. Questa è la nostra controffensiva di Valpurga – che, ricordiamo, è peraltro il nome di una santa dell’VIII secolo Valpurga di Heidnheim, celebrata per scacciare la ricorrenza pagana. A Lei ci rivolgiamo, affinché interceda presso il Signore.

 

Serve chiedere a Dio di riportare la pace. Tutto il resto non conta.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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