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Mons. Viganò: considerazioni a proposito dell’attuale situazione politica in Italia

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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Monsignor Carlo Maria Viganò. Le opinioni degli scritti pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

 

 

CONSIDERAZIONI

a proposito dell’attuale situazione politica in Italia

 

 

Il nuovo quadro politico che emerge dalle recenti Elezioni conferma quel comune sentire dell’elettorato che alcuni avevano saputo cogliere con anticipo.

 

Dopo due anni di inquietanti violazioni dei diritti più elementari, e dopo due governi che hanno dimostrato di obbedire agli ordini di entità sovranazionali contro gli interessi dell’Italia e degli Italiani, il voto che ha portato al governo il cosiddetto Centrodestra guidato da Fratelli d’Italia ha inequivocabilmente espresso una precisa linea politica, che va ben oltre le modeste proposte del programma dei partiti della coalizione. 

 

Ciò è evidente anzitutto dal fatto che all’interno di questa alleanza vi sia stata una redistribuzione del consenso a favore di quel partito che è stato ritenuto istintivamente meritevole del voto in quanto unico partito di opposizione. Un’opposizione molto moderata, ma pur sempre un’opposizione, più nella percezione del cittadino medio che nella realtà. 

 

I cosiddetti partiti «antisistema», parcellizzati e convinti di poter superare lo sbarramento del 3% e poter così sedere in Parlamento, contano in totale circa un milione di votanti. Ciò è dovuto sia alla decisione non casuale del Governo dimissionario di convocare i Comizi elettorali in piena estate; sia alla scarsissima visibilità loro accordata dai media mainstream; sia alla scarsa presa del loro programma, la cui credibilità e realizzabilità è sembrata poco convinta e destinata quindi alla dispersione del voto. 

 

Un altro convitato di pietra è il partito astensionista, che si attesta intorno al 36%, ma che vede al proprio interno differenti e opposte motivazioni difficilmente riconducibili a un generico «dissenso».

 

È quindi del tutto fuori luogo, a mio avviso, voler connotare politicamente l’astensione, attribuendosene la rappresentatività in fantomatici partiti del non-voto, proprio perché la scelta di non recarsi alle urne implica anche la scelta di non avere alcuna rappresentanza politica.

 

Di sicuro buona parte degli astenuti esprime la volontà di non accettare di prender parte a una partita, per così dire, in cui le regole sono decise da altri. Ma a questi vanno sommati anche coloro che non votano per banale disinteresse, o più semplicemente – e mi pare questo il caso della maggioranza – perché sono disgustati da una classe politica che si è rivelata indegna e corrotta oltre ogni dire.

 

In questo Fratelli d’Italia si è in parte salvato perché ha avuto la cautela di rimanere all’opposizione, spesso inerte o complice, ma almeno ufficialmente fuori dal governo Draghi. 

 

Non si è invece salvato il Partito Democratico, emblema di quella sinistra radical chic mai abbastanza esecrata, e che ha sostituito la lotta di classe contro il padronato con la lotta tra poveri alimentata dall’élite globalista.

 

I Dem italiani hanno unito il peggio del collettivismo comunista con il peggio del liberalismo consumista, in nome di un’agenda che privilegia la lobby dell’alta finanza usando emergenze pandemiche, energetiche e belliche col solo scopo di distruggere il tessuto sociale tradizionale.

 

Non che gli altri partiti presenti assieme al PD nell’ultimo governo fossero migliori: la batosta subita alle Elezioni da Lega, Forza Italia e altri partiti minori è direttamente proporzionale al tradimento del loro elettorato. E se l’inconsistenza assoluta di Di Maio è stata definitivamente sancita dalla mancata rielezione, è chiaro che Conte ha potuto beneficiare dell’incentivo del reddito di cittadinanza (…)

 

Molti dei voti persi dal PD si sono riversati in Fratelli d’Italia, e ciò conferma ulteriormente le aspettative di chi ha scelto la Destra di Giorgia Meloni non per quello che è, ma per quello che può essere; non per quello che ha detto di fare, ma per quello che tutti si aspettano effettivamente faccia.

 

Una Meloni che difenda quei sani principi di base della convivenza civile, pallidamente ispirati alla Dottrina Sociale della Chiesa, ma cui gli Italiani non sono disposti a rinunciare: tutela della famiglia naturale, rispetto della vita, sicurezza e lotta all’immigrazione clandestina, fine dell’indottrinamento gender e LGBTQ+ per i minori, libertà di impresa, presenza dello Stato negli asset strategici, maggior peso in Europa e – volesse il Cielo! – l’uscita dall’euro e il ritorno alla sovranità nazionale.

 

Insomma, ci si aspetta che la Meloni si comporti come la leader di un partito di Destra moderata, tendenzialmente conservatore, moderatamente sovranista. Nulla di estremo – certamente non estrema destra – a dispetto dei proclami allarmistici della Sinistra; ma almeno non allineato a un atlantismo prono alla NATO né all’europeismo suicida che ha contraddistinto l’azione del governo Draghi, né votato per furore ideologico alla distruzione della civiltà, della cultura, della religione e dell’identità del popolo italiano.

 

Secondo alcuni osservatori i nuovi movimenti – deliberatamente o semplicemente lasciandosi usare dal sistema – hanno costituito una opposizione fittizia, facendo loro preferire la logica del «turarsi il naso» votando per Fratelli d’Italia.

 

Le opposizioni fittizie, in verità, sono due: una interna al sistema, atlantista e europeista, e una esterna e divisa in vari partiti, nominalmente antieuropeista e antiatlantista, ma composta da personaggi con un passato a dir poco incoerente con i nuovi programmi.

 

Molti candidati di questi movimenti antisistema erano certamente persone oneste, in gran parte homines novi, ma è innegabile che la loro presenza non è riuscita a convincere più di tanto chi considera urgente non solo dare un segnale di forte scontento, ma vedere questo scontento tradursi nel breve termine in azioni di governo incisive e determinate, che pongano rimedio ai disastri delle due precedenti legislature.

 

Lega e Forza Italia hanno avuto un’emorragia di elettori significativa, a mio parere motivata dall’appiattimento dei loro leader e delle figure di spicco sulla narrazione pandemica e sulla crisi ucraina: Salvini e Berlusconi hanno deciso di obbedire all’Unione Europea, all’OMS, alla NATO e ai diktat dei loro manovratori del World Economic Forum. Una scelta scellerata, come si è visto, severamente punita dagli elettori; ma che rimane in gran parte condivisa anche da Giorgia Meloni, membro dell’Aspen Institute (…) e dichiaratamente atlantista e europeista. 

 

In sostanza, lo scollamento tra elettori ed eletti, tra cittadini e classe politica si è riproposto in forma «di desiderio», per così dire, attribuendo a Fratelli d’Italia un ruolo che il partito stesso ha dichiarato da settimane di non volersi assumere, dal momento che non intende mettere in discussione né le politiche dell’Unione Europea né le mire della NATO e del deep state americano.

 

È come se l’Italiano medio avesse deciso di votare la Meloni nonostante sia dichiaratamente in continuità con l’agenda Draghi, quasi a forzarle la mano perché – in forza di una maggioranza schiacciante – prenda coraggio e compia quei passi che fino alla vigilia delle Elezioni prometteva di non compiere. E come ci sono alcuni che temono che la Meloni si comporti «da fascista» e che per questo gridano all’emergenza democratica minacciando l’espatrio, così ci sono molti – di sicuro tutti gli elettori di Fratelli d’Italia – che sperano e pregano che agisca da Italiana, da patriota, da cristiana.

 

E che sapranno passar sopra al fatto che, per arrivare a Palazzo Chigi, abbia dato rassicurazioni che in realtà potrebbe smentire nei fatti. È da vedere se la prima donna Presidente del Consiglio saprà distinguersi dai suoi predecessori o se preferirà inchinarsi al deep state e proseguire nel tradimento degli Italiani. 

 

D’altra parte, se il voto democratico deve sancire chi rappresenta la volontà del popolo sovrano, la stessa Meloni non potrà non tener conto del fatto che i suoi elettori pretendono da lei scelte radicali, e che considerano la sua moderazione pre-elettorale semplicemente come una mossa strategica per rassicurare «i mercati».

 

Scelte che anche molti nella Lega e in Forza Italia vedrebbero di buon occhio, al di là dello zelo vaccinista o guerrafondaio di questo o quel parlamentare o governatore. 

 

Le stesse parole di resipiscenza di Salvini a proposito dell’approvazione dei lockdown e dell’obbligo vaccinale, a pochi giorni dal voto, tradiscono la consapevolezza che il suicidio deliberato di questi partiti da parte dei loro leader è stato mal digerito dalla base.

 

Altrettanto avviene in Fratelli d’Italia, dove la posizione della Meloni sull’invio di armi in Ucraina e sulle sanzioni alla Federazione Russa non è condivisa da una parte del partito, sia perché palesemente autolesionista, sia perché basata sul falso presupposto che gli interlocutori internazionali rimarranno gli stessi, senza significativi avvicendamenti.

 

Non è assolutamente certo che Joe Biden superi le elezioni di medio termine, né che le indagini del Procuratore Generale Durham non coinvolgano Biden e la sua famiglia, assieme ai politici Dem, negli scandali ormai emersi anche nel mainstream americano. E non è certo che la politica interventista dell’Unione Europea e della NATO in Ucraina rimanga immutata, dinanzi all’evidenza dei ripetuti bombardamenti di Zelenskij sui civili del Donbass e delle regioni russofone, alla vittoria dei referendum di annessione alla Russia e alla totale disastrosità delle sanzioni per i Paesi europei.

 

Infine, la contiguità dell’amministrazione Biden con Kiev potrebbe determinare cambiamenti a catena, laddove Biden vedesse ulteriormente eroso il già precario consenso elettorale di cui gode, facendo venir meno il supporto al governo fantoccio voluto da Victoria Nuland e di conseguenza consentendo trattative di pace sinora pervicacemente ostacolate da Washington.

 

E visto il peso politico del Presidente Trump e la sua dichiarata ostilità al deep state americano, un accordo pacificatore sarebbe certamente più vicino e duraturo quando dovesse tornare alla Casa Bianca. 

 

Sappiamo che non è dote dei politici odierni l’onorare gli impegni assunti con l’elettorato. Nondimeno, possiamo ragionevolmente pensare che la prossima Presidente del Consiglio vorrà rivedere le proprie posizioni filoatlantiste e europeiste, tornando ad assumere quel ruolo di vera alternativa di Destra all’egemonia dell’ordoliberismo e della sinistra woke?

 

In questo caso sarebbero gli elettori a trarne beneficio, e coloro che si vedessero «traditi» non avrebbero alcun titolo per rivendicare la violazione dei patti di sottomissione dell’Italia alla Commissione Europea, dal momento che non avevano alcun titolo prima per stipularli.

 

Il «tradimento» dei poteri ostili all’Italia sarebbe un’azione virtuosa, poiché ripristinerebbe la sovranità usurpata dall’élite; viceversa, obbedire all’élite e non perseguire gli interessi della Nazione costituirebbe un tradimento del nuovo Governo nei confronti dei suoi elettori.

 

Se dall’élite ci si può aspettare un’azione di boicottaggio verso l’Italia (spread, tassi di interesse, revoca dei fondi del PNRR, commissariamento), dal popolo tradito per l’ennesima volta, in condizioni di crescente povertà e di deliberata persecuzione dell’impresa e del lavoro, c’è da temere le barricate e la protesta dettata dall’esasperazione, di cui vediamo avvisagli anche in altri Paesi.

 

Nella valutazione dei costi e dei benefici voglio sperare che il Governo Meloni non vorrà rendersi complice di questa operazione eversiva ai danni del Paese.

 

Difficile credere che l’oligarchia finanziaria non abbia messo in conto questa eventualità. Più facile ritenere che sia stato proprio per gestire l’exit strategy e contenere il danno tanto sul fronte della frode pandemica e vaccinale, quanto sul fronte del Great Reset, della transizione digitale e dell’emergenza green fortissimamente volute dal World Economic Forum (per motivi ideologici) e dalla Cina (per ragioni economiche). 

 

Mi pare che da più parti si stia prendendo consapevolezza del gravissimo colpo di Stato in atto da parte di poteri sovranazionali, in grado di interferire pesantemente con l’attività dei governi e degli enti internazionali.

 

Il mondo dell’impresa e del lavoro sta comprendendo l’azione deliberata di distruzione del tessuto economico nazionale realizzata prima con la COVID e poi con la guerra in Ucraina. Ogni decisione, ogni norma, ogni decreto assunti da Draghi con o senza il voto parlamentare sono stati scelti per ottenere il maggior danno possibile per i cittadini, per le aziende, per i dipendenti, per i pensionati, per gli studenti.

 

Ciò che avrebbe evitato morti, ospedali pieni, aziende chiuse e l’aumento dei disoccupati è stato scientificamente escluso, compiendo l’azione più devastante e in palese contrasto con gli scopi annunciati.

 

Oggi vediamo migliaia di aziende energivore destinate alla sospensione della produzione o al fallimento perché il dimissionario Governo Draghi non intende porre un freno alla scandalosa speculazione dell’ENI sul prezzo dell’energia che pure paga a prezzi dieci volte inferiori.

 

Si lascia regnare incontrastato il mercato, sicché la borsa di Amsterdam può distruggere l’economia delle nazioni, arricchire spropositatamente le multinazionali e fare gli interessi dell’élite che preme per l’instaurazione di una dittatura tecnologica conforme all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Agenda che, oggi, è oggetto di indottrinamento scolastico sin dalle primarie e che vincola i finanziamenti del PNRR a riforme e nuovi tagli di spesa insostenibili.

 

Se la narrazione globalista inizia a dare segni di cedimento, specialmente nei ceti che normalmente sono più influenzabili dal mainstream, probabilmente chi detiene il potere – il potere vero, intendo – si è già preparato al prossimo scenario, e sta organizzandosi a sacrificare quei capri espiatori che, inevitabilmente, sarà la folla a voler vedere ai ceppi.

 

Si toglierà così di mezzo quei complici scomodi e non più utili, appagando la sete di giustizia del popolo e mostrandosi addirittura come salvatore e moralizzatore. Vittime designate saranno con ogni evidenza i più zelanti apostoli della psicopandemia, le virostar in conflitto di interessi, alcuni esponenti istituzionali e forse qualche «filantropo», con la cui condanna l’élite eliminerebbe anche un fastidioso concorrente.

 

E non è escluso che lo stesso Bergoglio, testimonial dei sieri genici e gran sacerdote del globalismo neopagano, cada vittima dell’esecrazione dei Cattolici, stanchi di essere trattati come nemici, allo stesso modo di come i cittadini sono esasperati dall’ostilità dei loro governanti. 

 

Giorgia Meloni è, per il momento, un premier in potenza. Lo è per quanti si aspettano che Fratelli d’Italia sia la voce di quel dissenso vero e motivato verso l’intera classe politica, e che in quanto tale agisca con forza e determinazione, senza lasciarsi intimidire.

 

È un premier in potenza per quanti hanno voluto accordarle quella fiducia che altri hanno più volte deluso e tradito. Il loro è un gesto irrazionale, mosso dalla preoccupazione crescente per le sorti della Nazione e dalla persuasione che una maggioranza schiacciante in Parlamento possa dare sicurezza d’azione al nuovo Governo per compiere scelte forti, per le quali otterrà appoggio e sostegno dall’elettorato, a cui deve rispondere in quanto espressione della volontà popolare.

 

È un premier in potenza perché i due Primi Ministri precedenti erano tutto fuorché leader (…). Se davvero Giorgia Meloni vuole essere premier, ed esserlo in atto e non solo in potenza, deve anzitutto tener testa a chi, non eletto da nessuno, si permette di dare patenti di presentabilità politica a capi di governo democraticamente eletti, quando si trova per primo in gravissimi conflitti di interesse, ad iniziare dagli sms di Ursula con Bourla, per continuare con l’appartenenza dei leader mondiali al WEF e concludere con il coinvolgimento di Biden nel finanziamento dei biolaboratori della NASA in Ucraina e negli affari della principale azienda energetica di Kiev. 

 

L’Italia è una Nazione che può risollevarsi, come ha sempre fatto in passato, se saprà ritrovare l’orgoglio della propria identità, della propria storia, del proprio destino nei piani della Provvidenza.

 

Da decenni gli Italiani subiscono decisioni prese altrove, dalle quali non hanno ricevuto altro che danni e umiliazioni.

 

È giunto il momento di alzare la testa, di rifiutare con sdegno quella resilienza che ci vuole disposti a subire le percosse senza reagire. Il mondo distopico del globalismo va respinto e combattuto non solo per noi, ma per i nostri figli, ai quali ciascuno di noi vuole lasciare un futuro sereno, solide prospettive economiche per costruire una famiglia senza sentirsi emarginato o criminalizzato perché non accetta di rassegnarsi a piani eversivi decisi da chi vuole farci mangiare insetti e costringerci alla schiavitù col solo intento di renderci poveri e controllarci in ogni aspetto della vita quotidiana. 

 

Ma questo – lo dico come Pastore, rivolgendomi in particolare ai Cattolici – sarà possibile solo se gli Italiani riconosceranno che la giustizia, la pace e la prosperità di una Nazione si possono ottenere dove regna Cristo, dove la Sua legge è osservata, dove il bene comune è anteposto al profitto personale e alla sete di potere.

 

Torniamo al Signore, e il Signore saprà ricompensare la nostra fedeltà. Torniamo con fiducia a Maria Santissima, nostra Madre celeste, ed Ella intercederà per la nostra cara Italia presso Suo Figlio. 

 

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo, Nunzio Apostolico

 

 

 

27 Settembre 2022

Ss. Cosmæ et Damiani, Martyrum

 

 

 

 

Renovatio 21 pubblica questo scritto per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

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Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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