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Zerocalcare, il pericolo mortale di «Strappare lungo i bordi»

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L’evento audiovisivo dell’anno è con probabilità – dopo Squid GameStrappare lungo i bordi, opera di animazione Netflix in sei episodi firmata dall’oramai celeberrimo Zerocalcare.

 

Zerocalcare è un romano nato nel 1984. All’anagrafe si chiama in realtà Michele Rech, ponendosi quindi nel solco degli artisti romani che coprono un nome nordico con uno pseudonimo, come nel caso del grande Franco Lechner (1931-1987), in arte Bombolo, o la recentissimamente scomparsa Lina Wertmüller (1928-2021), il cui nome per esteso era Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich (in pratica aveva un nome lungo quanto gli improbabili titoli delle sue pellicole).

 

Zerocalcare è senza dubbio il più grande artista della sua generazione per quanto riguarda il fumetto e ora anche il cinema di animazione. Il suo è un successo davvero autentico: viene davvero dal basso, da un passaparola furioso dei suoi sostenitori (un insieme molto trasversale) che forse pure precede, o può ignorare, i social media.

 

Zerocalcare è senza dubbio il più grande artista della sua generazione per quanto riguarda il fumetto e ora anche il cinema di animazione

Viene dai centri sociali, un mondo che da decenni ha perso la sua spinta. La cosa è pienamente avvertibile nella sua opera, dove si dedica per lo più riferimenti della cultura popolare trasmessa dalla TV (Guerre Stellari, I Cavalieri dello Zodiaco, Game of Thrones, I Simpson, Ken il Guerriero), che con ogni evidenza vince per profondità e persistenza sulle mitologie gosciste.

 

La sparizione dell’anima dell’universo un tempo detto «antagonista» è stata drammaticamente visibile durante la pandemia, dove i ribelli libertari non hanno fiatato mentre si installava nelle loro città un vero Stato di polizia che ogni giorno che passa diventa sempre più distopico (botte dai celerini, libertà di parola proibita, pass digitali). Di fatto, del tema della pandemia in Strappare lungo i bordi non c’è traccia alcuna: il «centrosocialismo», con evidenza, non disponeva della capacità di calcolo per una cosa del genere, né la volontà di antagonizzare davvero il potere costituito quando esso mostra il suo vero volto.

 

Ad ogni modo, la serie è di altissima fattura. La sfida di trasporre in immagini in movimento la caratteristica principale dei fumetti dell’autore – ossia la visualizzazione immediata di tutti i pensieri del protagonista – è riuscita in pieno, forse in modo ancora più divertente rispetto alla carta. Si ride e si ghigna ad ogni piè sospinto.

 

 

Certo, un paio di cose stonano, forse in maniera imperdonabile. Della sigla simil-Riccardo Fogli ci chiediamo tuttora la significazione, ed è mandata in onda, apparentemente senza ironia, pure una canzone di Ron. Poi, la presenza, anche solo in voce, di Mastrandrea… Ma perché? Perché?

 

Del tema della pandemia in Strappare lungo i bordi non c’è traccia alcuna: il «centrosocialismo», con evidenza, non disponeva della capacità di calcolo per una cosa del genere, né la volontà di antagonizzare davvero il potere costituito quando esso mostra il suo vero volto

La serie ha fatto scattare un paio di polemiche sui giornali mainstream. La prima, la più stupida, era sul persistente uso del romanesco. La seconda invece riguardava una questione di modelli umani.

 

La seconda, lanciata dall’ex parlamentare radicale Daniele Capezzone, ora giornalista del quotidiano non allineato La Verità, «Voi con Zerocalcare, noi con Clint Eastwood. A ciascuno il suo, e ciascuno contento: chi con la lagna e il disagio come dimensione esistenziale; chi invece con la lotta, la sfida, l’affermazione dell’individuo contro ogni potere». Lo Zerocalcare risponde: «A me me fa volà che DANIELECAPEZZONE se sente come CLINT EASTWOOD».  Non sappiamo bene se ci sua qualche allusione che non capiamo. Tra gli utenti di Twitter, scroscianti applausi.

 

Nella storia, a Biella i genitori della ragazza suicida hanno allestito per la «cerimonia funebre» la sua palestra di Boxe

Tuttavia vorremo qui parlare di qualcosa di più serio.

 

Gli episodi sono essenzialmente costruiti su due livelli, che peraltro non si incollano benissimo fra loro: da una parte una serie di gag sul micromondo del ragazzo, con discorsi che vanno dalla sporcizia del bagno degli uomini alla sporcizia del suo divano, passando per il dolore di deludere la propria maestra alle elementari.

 

A questi segmenti, divertenti e autoconclusivi, è agglutinata la storia principale, che (SPOILER) è il viaggio, anche questo di minimalismo disperato, da Roma a Biella per andare al «funerale» di un’amica, potenzialmente una morosa, morta suicida.

 

E in questo frangente che si pongono, per chi ha presente di cosa si sta parlando, dei problemi di non poco conto.

 

Riteniamo questa cosa – le esequie di un suicida celebrate in qualsiasi forma, nella palestra di un centro sociale o in una cattedrale della fu religione cattolica – un pericolo estremo per la società, un rischio mortale e concreto per tante persone

Un giornale romano lo ha intervistato titolando «È una storia autobiografica, tranne il suicidio». Dice che il personaggio di Alice, la ragazza suicida al centro dell’intreccio, è immaginario. Noi tuttavia ricordiamo un suo fumetto, uno dei primi, che cercava di elaborare la morte di un’amica anoressica. Non sappiamo se si trattai di quello. «Non avevo voglia di raccontare una persona specifica per non lederne la privacy. Evidentemente, però, nella vita mi sono trovato a vivere delle situazioni molto simili» chiosa.

 

Nella storia, a Biella i genitori della ragazza hanno allestito per la «cerimonia funebre» la sua palestra di Boxe, che sembra uno di quei luoghi che, come da moda recente (a sinistra ma non solo), vengono «okkupati» per questioni sportive.

 

La suicida, viene detto orgogliosamente al microfono, non era una vittima. Il protagonista si interroga sulla mancata solennità della situazione.

 

Vengono fatti ascoltare gli audio della ragazza con i bambini per cui faceva la volontaria. Canzoni. Ricordi. È una festicciola, anche affollata, in onore di quella che si è uccisa.

 

Se c’è una cosa detta giusta dall’OMS è che il suicidio è contagioso. Il suicidio infetta chi gli sta intorno. Il suicidio può propagarsi come una vera epidemia

Il suicidio non viene condannato, da nessuno. Per qualche minuto, qualche domanda viene posta. Ma in fondo, pare di capire da altri discorsi che vengono fatti tra gli amici, è una sua scelta. Così come quella di aver voglia di fare sesso, o di mangiare del gelato a tarda notte, o di provare un’esperienza «lella», cioè lesbica.

 

Ha deciso di andarsene, punto. Non dobbiamo stare qui a chiederci il motivo. Celebriamone, tutti insieme, l’esistenza – compresa forse anche quest’ultima scelta. Si ricava questa impressione. E dobbiamo essere sinceri, è quella che si ha da qualsiasi funerale conciliare fatto ad un morto suicida.

 

Riteniamo questa cosa – le esequie di un suicida celebrate in qualsiasi forma, nella palestra di un centro sociale o in una cattedrale della fu religione cattolica – un pericolo estremo per la società, un rischio mortale e concreto per tante persone.

 

Non stiamo parlando a caso. Perché se c’è una cosa detta giusta dall’OMS è che il suicidio è contagioso. Il suicidio infetta chi gli sta intorno. Il suicidio può propagarsi come una vera epidemia.

 

Se il semplice «parlare» di un suicidio come fatto di cronaca fa aumentare i suicidi, giustificare un morto suicida, che effetto può avere? E fare della sua morte una celebrazione?.

Ma non è solo l’OMS. Questa semplice verità, e cioè che il suicidio può contagiare, è conosciuta, in teoria, perfino dall’Ordine dei Giornalisti, che sul suicidio mette in piedi corsi deontologici:

 

«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita».

 

Se il semplice «parlare» di un suicidio come fatto di cronaca fa aumentare i suicidi, giustificare un morto suicida, che effetto può avere? E fare della sua morte una celebrazione festosa?

 

Ne parlo perché ho potuto testimoniare in prima persona il fenomeno: i suicidi si possono presentare sotto forma di cluster, di «grappoli» devastanti. Ne avevo scritto su un vecchio articolo pubblicato anni fa su Renovatio 21, «La vita senza il dolore». Ciò che vi scrivevo è ancora vivissimo dentro di me.

 

Organizzarono un funerale in chiesa per A. e io sapevo che era la cosa sbagliata, per il semplice fatto che la mia sensibilità tradizionale mi porta a sapere che, prima del Concilio Vaticano II, i funerali dei suicidi, saggiamente, non venivano celebrati. O almeno, non si facevano messe pubbliche

C’è stato un anno in cui nel giro di poco tempo ho visto morire per suicidio una sequela di amici e conoscenti. Fu sconvolgente: sparivano uno dopo l’altro. Alcuni casi in teoria non erano collegabili fra loro. Altri, invece, sì.

 

Iniziò A., e fu straziante. Ricordo la telefonata a tarda sera degli amici, che chiamavano dalla camera mortuaria. «Cosa?». «A. non c’è più». Ti si spalanca davanti il vuoto. Il vuoto poi comincia a vorticare. Perché? Lo sai perché. Forse non lo sai. E poi potevi fare qualcosa, potevi vederlo più spesso, anche se non c’era mai l’occasione, ormai. Ma no, non potevi fare nulla. Ecco, adesso vuol dire che a Natale quest’anno non lo rivedrai? Vuol dire che non ti farà una di quelle sue telefonate con la sua parlata irresistibile? Ma come è possibile? Poi, per tutta la notte, sentimenti indefinibili. Nei giorni successivi, pure.

 

Organizzarono un funerale in chiesa per A. e io sapevo che era la cosa sbagliata, per il semplice fatto che la mia sensibilità tradizionale mi porta a sapere che, prima del Concilio Vaticano II, i funerali dei suicidi, saggiamente, non venivano celebrati. O almeno, non si facevano messe pubbliche.

 

Ma la Chiesa, con il Concilio, è cambiata: l’Inferno è stato di fatto «svuotato». Quindi i peccati, compresi i suicidi, non potevano che aumentare a dismisura: cosa ti ferma, davanti all’errore, se non c’è il timore della punizione tremenda? Questa è la chiesa che rifiuto, e che combatterò sempre, e che accuso anche di tutte queste morti, che sono milioni.

 

Non fu solo quello il motivo per cui decisi, con dolore, di non partecipare. Avevo appreso che gli amici intendevano fare uno show completo: letture belle, e poi via con l’ascolto delle musiche preferite di A., che era un cultore, con tanto di spiegazione dal pubblico di altro amico musicofilo. Scelsi di stare lontanissimo da tutto questo: andai ad una conferenza in Centro Italia, di quelle dove si parla delle devastazioni del Concilio Vaticano II, e ricordai, con un accenno anonimo, A., vittima di un mondo dove la religione non ti racconta più cosa è il Bene, e che dono infinito sia la vita umana. Trovai lì un sacerdote tradizionista, un grande prete che riuscì a capire la situazione. Chiesi di dire una messa per l’anima di A., pensando così di aver chiuso nel modo giusto la storia.

 

La questione, tuttavia, non riguarda questi cartoni animati. È l’aria che essi respirano, che respiriamo tutti. È la Necrocultura. È la legge della realtà del secolo, è il sistema operativo del mondo moderno: tutto deve tendere alla distruzione dell’essere umano, alla sua umiliazione alla sua dannazione

E invece, mi sbagliavo terribilmente.

 

Poco dopo, sarebbe stata la volta di R.

 

Con R., che conoscevo meno, c’era una relazione famigliare. Lui si definiva come un cugino acquisito, e chiamava scherzosamente mia sorella «cugi». Mi telefonarono di pomeriggio, mentre lavoravo. Mi fu impossibile continuare qualsiasi attività. Mi fu impossibile, parimenti, non pensare ad A., non risentire tutto quel dolore, ora maggiorato, divenuto ancora più irrazionale.

 

Poi la realizzazione. R. era andato ai «funerali» musicali di A. Come non pensare che, nella mente di qualcuno che ospita l’oscuro pensiero, possa scattare quel clic: se me ne vado sarò ricordato dai miei amici tutti uniti, felici, messi insieme dalle cose che ci piacciono, da un senso di affetto collettivo quasi liberatorio, catartico. La mia festa più bella – senza di me. Clic.

 

È chiaro che sono solo le mie stupide ipotesi. Non ho il potere di conoscere cosa c’era dentro all’anima in quel momento. Tuttavia, sulla contagiosità del suicidio, come ammesso dall’OMS e pure in teoria dalla deontologia dei giornalisti, ci sono elementi concreti.

 

Potete capire, quindi, perché posso ritenere pericolosa la serie di Zerocalcare. Il funerale bordo ring mi hanno ricordato A. e R. E il nulla infinito che se li è portati via, e che, senza che qualcuno faccia qualcosa, continua ad avanzare disintegrando il nostro mondo e portandosi dietro tante anime.

 

La situazione attuale: la Cultura della Morte è uscita allo scoperto e ci ha circondato e imprigionato

La questione, tuttavia, non riguarda questi cartoni animati. È l’aria che essi respirano, che respiriamo tutti. È la Necrocultura. È la legge della realtà del secolo, è il sistema operativo del mondo moderno: tutto deve tendere alla distruzione dell’essere umano, alla sua umiliazione alla sua dannazione.

 

Chi doveva difenderci, non è sparito: si è messo dalla parte dei demoni.

 

«L’Ordine dei giornalisti e l’OMS, ho detto all’inizio, quanto meno sulla carta si preoccupano del carattere contagioso del suicidio; la Chiesa di oggi invece no» scrivevo tre anni fa.

 

Potete, se volte, leggere il pezzo dedicato alla serie mandato in stampa dal giornale dei vescovi, Avvenire. La questione è totalmente ignorata (così come una microsequenza con un Armadillo prete che celebra dicendo volgarità: non sappiamo se un tempo sarebbe stata ritenuta legale). Ai cattolici di oggi, cosa interessa? Di fatto, cosa li divide dai centri sociali e dai loro «riti» improbabili?

 

«Perché la Chiesa di oggi è davvero un ente stupido quanto assassino» sbraitavo nel vecchio articolo. «Perché la Chiesa di oggi è il vero problema, il vero nemico dell’Umanità e del Dio della Vita».

 

Terminavo con un discorso filosofico sul dolore che integra la vita, da bisogna voler celebrare tutta intera, perché la vita è qualcosa di superiore al dolore e al piacere, è ciò che li contiene, e che, nella sua forza divina, va avanti anche senza di essi.

 

Tanti altri, da quando è iniziata questa storia, sono morti. Questo è un fatto che abbiamo accettato. Solo, ricordiamoci di non celebrarlo. Ricordiamoci di combatterlo.

Blah blah. Tutto giusto, per carità. Ma guardo alla situazione attuale: la Cultura della Morte è uscita allo scoperto e ci ha circondato e imprigionato.

 

In questi due anni, resistere alla lusinga della tenebra per molti è diventato difficile. Lo sappiamo dalle statistiche. L’impianto dello Stato globale pandemico ha avuto questo effetto, e forse era nei programmi. Di certo, qui la gerarchia cattolica ha dato una grossa mano, mostrandosi programmaticamente impotente verso un organismo acellulare che ha chiuso i suoi templi e cancellato i suoi riti – oltre ad aver introdotto un sacramento nuovo, quello della siringa mRNA.

 

Tanti altri, da quando è iniziata questa storia, sono morti. Questo è un fatto che abbiamo accettato.

 

Solo, ricordiamoci di non celebrarlo. Ricordiamoci di combatterlo.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine di Peterbandle85 via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-ND 3.0)

 

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Lucerna annulla il concerto della Netrebko, Berlino la invita a cantare

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Il concerto in Svizzera della cantante lirica russa Anna Jur’evna Netrebko, previsto per il 1° giugno, è stato annullato su richiesta delle autorità locali, hanno riferito ai media i rappresentanti della sala da concerto della città di Lucerna.

 

In una dichiarazione al quotidiano Luzerner Zeitung, la direzione del KKL (Kultur und Kongresszentrum Luzern) ha spiegato che «la percezione pubblica del solista resta controversa», riferendosi alle accuse secondo cui Netrebko rimane vicino al presidente russo Vladimir Putin, avendo rifiutato di prendere le distanze da lui dopo l’avvio del  conflitto in Ucraina.

 

La sede del KKL ha inoltre affermato che la vicinanza del concerto alla data e al luogo della prossima Conferenza di pace in Ucraina, prevista per il 15 giugno al Burgenstock, nella città di Nidvaldo, avrebbe causato «una minaccia all’ordine pubblico», secondo quanto affermato da un politico lucernese, riporta EIRN. Ci sarebbero stati «almeno un migliaio» di manifestanti all’esibizione di Netrebko.

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Anche il consigliere comunale di Lucerna, Armin Hartmann, ha dichiarato ai media che l’ufficio del sindaco ha chiesto esplicitamente al KKL di annullare l’esibizione di Netrebko, affermando che «non riteniamo appropriato che un artista russo presumibilmente fedele al regime si esibisca a Lucerna».

 

Il sindaco Beat Zusli ha anche affermato che «un artista che ha preso le distanze dalla guerra ma non ha mai rinunciato al regime russo, non dovrebbe apparire in città», per non causare «danni alla reputazione» della regione.

 

In risposta, gli uffici della Netrebko ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna l’annullamento unilaterale della sua esibizione «contrariamente agli obblighi contrattuali» degli organizzatori e sottolinea che la conferenza di pace in Ucraina si terrà due settimane dopo il concerto previsto.

 

I rappresentanti della cantante hanno sottolineato che «nessuna delle quasi 100 esibizioni di Anna Netrebko dal marzo 2022 ha portato a un disturbo dell’ordine pubblico».

 

Il management della cantante ha anche sottolineato che, dopo lo scoppio del conflitto ucraino nel 2022, Netrebko si è espressa pubblicamente contro i combattimenti e ha chiesto la pace in Ucraina. Da allora non è più tornata in Russia, poiché vive in Austria dal 2006.

 

La questione Netrebko ha portato giovedì anche il ministero degli Esteri ucraino a denunciare la decisione dell’Opera di Stato di Berlino di riportare indietro il soprano russo di fama mondiale, una grande artista che era stata precedentemente «cancellata» per essersi rifiutata di denunciare il suo Paese.

 

«La voce dell’Ucraina in Germania dovrebbe essere ascoltata più forte del soprano Anna Netrebko», ha affermato il ministero di Kiev in un post su Facebook, rivelando che il regime ucraino aveva compiuto sforzi per impedire alla cantante russa di esibirsi a Berlino, ma i suoi sforzi «non hanno avuto la risposta adeguata».

 

La Netrebko prenderà parte alla première di venerdì del Macbeth. L’Ucraina intende protestare contro la sua presenza inviando l’ambasciatore Oleksiy Makeev alla mostra anti-russa allestita accanto al teatro dell’opera, accompagnato dal senatore per la cultura di Berlino Joseph Chialo, ha detto il ministero. Makeev ha anche pubblicato un editoriale in cui denuncia Netrebko in diversi organi di stampa tedeschi.

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La Staatsoper Unter den Linden, come viene ufficialmente chiamata l’opera berlinese, ha annunciato alla fine di agosto che intende riprendere la collaborazione con la Netrebko, adducendo che non si è esibita in Russia di recente.

 

Come riportato da Renovatio 21, la battaglia dell’Ucraina contro la Netrebko in Germania è risalente, e non si tratta della sola Germania: lo scorso settembre era emerso che pure le autorità ceche, sotto pressione, hanno annullato l’esibizione programmata di Netrebko a Praga il mese scorso.

 

La musica classica – settore di eccellenza di tanti artisti russi, dall’opera al balletto e oltre – è sempre più teatro della guerra della russofobia, con le pretese allucinanti del regime di Kiev spesso assecondate dai Paesi occidentali, nonché episodi al limite del tollerabile come quello della nona di Beethoven, cioè L’Inno alla gioia, dove viene ora inserita la parola «Slava», che ricorda ovviamente da vicino lo slogan banderista, cioè neonazista, «Slava Ukraini».

 

Come riportato da Renovatio 21, la furia russofoba era tracimata anche in Italia, facendo saltare in provincia di Vicenza il balletto Il lago dei cigni di Tchaikovskij, compositore che ha la colpa di essere russo.

 

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Immagine di Manfred Werner via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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La nona di Beethoven trasformata nel canto banderista «Slava Ukraini»

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La direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» eseguirà la famosa nona sinfonia di Beethoven, quella ispirata all’ode Inno alla gioia (An die Freude) del drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Lo riporta EIRN.   Tuttavia, secondo quanto si apprende, la Wilson starebbe sostituendo la parola «Freude» nel testo con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.   A causa di quanto accaduto nella prima metà del secolo, in Germania non si può cantare «Heil!» in tedesco senza invocare «Heil Hitler!», né si può dichiarare ad alta voce «Slava!» in Ucraina senza invocare lo «Slava Ukraini» canto dei sanguinari collaboratori locali del Terzo Reich, in particolare il Bandera.   La Wilson, che si vanta delle sue origini ucraine via nonna materna e della sua comunità ucraina di Winnipeg, Canada (Paese, come è emerso scandalosamente con il caso Trudeau-Zelens’kyj, pieno di rifugiati ucronazisti), ha rilasciato ieri il suo comunicato stampa.

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«La decisione di cantare il grande testo di Schiller per la Nona Sinfonia di Beethoven in ucraino è stata per noi un’importante dichiarazione artistica e culturale più ampia» ha dichiarato il direttore. «Putin sta letteralmente cercando di mettere a tacere una nazione. Non saremo messi a tacere. Il nostro unico emendamento a Schiller è che invece di cantare “Freude” (Gioia) canteremo “Slava” (Gloria), dal grido della resistenza ucraina di fronte alla spietata aggressione russa, Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina!)».   Notiamo l’interessante inversione in corso presso la sinistra e l’establishment: la «resistenza», oggi, la fanno i nazisti…       «Mentre l’Ucraina continua la sua lotta a nome del mondo libero, ha bisogno più che mai del nostro sostegno e porteremo con orgoglio il nostro messaggio in tutta Europa e negli Stati Uniti» ha continuato la Wilsona, che ha eseguito per la prima volta la sua versione banderizzata di Beethoven il 9 nel dicembre 2022 a Leopoli con la sua Ukraine Freedom Orchestra.   Nel 2023, l’importante casa discografica della classica Deutsche Grammophon ha registrato l’esecuzione del suo primo tour europeo a Varsavia, e quest’anno vi sarà la pubblicazione, proprio nel bicentenario dell’opera di Beethoven. Vi sarà quindi una tournée quest’estate che toccherà Parigi, Varsavia, Londra, Nuova York e Washington.   Secondo quanto riporta EIRN, «si dice inoltre che il prossimo progetto della Wilson coinvolga la sostituzione della parola “agape”» (cioè, in greco, amore disinteressato, infinito, universale), termine contenuto nella lettera di San Paolo ai Corinzi (capitolo 13), «con «agon» o «eris» (cioè, contesa, lotta, conflitto)».   Se fosse vero, sarebbe un altro tassello del quadro che si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi. Dalla gioia alla guerra. Da Cristo a Nietzsche.   Va così, perfino nella musica classica.

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La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.

 

Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.

 

Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.

 

Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

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Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa?

In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».

 

La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.

 

Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.

 

Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.

 

L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.

 

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.

 

Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

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Chi era veramente Alessandro I?

La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.

 

Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

 

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.

 

Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…

 

Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.

 

Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

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Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi…

Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.

 

Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.

 

«Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.

 

A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…

 

A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij?

L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.

 

Paolo Gulisano

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851)

Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia

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