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Cina

Vigilia 20° Congresso del Partito Comunista cinese: scalpore per protesta solitaria contro Xi Jinping

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Diventato un eroe sul web, il manifestante ha esposto a Pechino striscioni che attaccano il presidente. La rara iniziativa arriva mentre nella capitale sono in vigore misure di sicurezza rafforzate. Le autorità cercano di censurare tutte le informazioni sulla dimostrazione. Cresce il malcontento popolare. Chi si oppone a Xi corre però grossi rischi.

 

 

Alla vigilia del 20° Congresso del Partito Comunista Cinese, una protesta a Pechino contro Xi Jinping ha suscitato scalpore. Alcuni striscioni appesi ieri a un ponte che passa sopra un incrocio molto trafficato della capitale hanno preso di mira il leader supremo cinese e la sua politica di «azzeramento» del COVID-19, oltre a chiedere elezioni.

 

È la prima volta, dopo il movimento democratico di piazza Tiananmen del 1989, che manifestanti sfidano il regime in modo così plateale.

 

Il fatto è accaduto sul viadotto Sitong, nel nord-ovest di Pechino, dove si trovano le principali università cittadine. I passanti si sono fermati e hanno scattato foto con i loro cellulari.

 

Uno striscione diceva: «non vogliamo i test COVID, vogliamo il cibo. Non vogliamo l’isolamento, vogliamo la libertà. Non vogliamo bugie, vogliamo dignità. Non vogliamo la rivoluzione culturale, vogliamo riforme. Non vogliamo leader, vogliamo votare. Non vogliamo essere schiavi, vogliamo essere cittadini».

 

Un altro recitava: «studenti e lavoratori scioperate, rimuovete il dittatore e traditore della nazione Xi Jinping». In uno dei video, gli slogan venivano ripetuti da un altoparlante.

 

Una immagine circolata su internet mostra un uomo portato via dalla polizia: si ritiene che il manifestante abbia bruciato dei copertoni per attirare l’attenzione dei passanti. Le Forze dell’ordine hanno rimosso subito gli striscioni. Un reporter di Bloomberg ha trovato segni di bruciato nel punto mostrato dai video. L’Associated Press ha riferito invece che la polizia ha pattugliato la zona e fermato i pedoni per controllare le loro carte d’identità.

 

Le autorità cinesi non hanno risposto alle richieste di commento; la polizia locale ha negato che si siano verificati incidenti.

 

Gli utenti web hanno provato diversi modi per aggirare la censura e mostrare il loro sostegno, chiamando il manifestante «guerriero solitario» (孤勇者) e «uomo coraggioso» nelle loro discussioni sui social. Le autorità hanno filtrato però tali espressioni: quando si cercano parole come «ponte Sitong», o semplicemente «ponte» e «coraggioso», in Cina i motori di ricerca online non danno alcun risultato.

 

La protesta è diventata l’argomento più dibattuto nella cyber-sfera cinese. Molti netizen che hanno condiviso foto e video sull’app di messaggistica WeChat o su Weibo (una sorta di Twitter cinese) si sono ritrovati con gli account bloccati.

 

In tanti sono ora preoccupati per la sicurezza dell’uomo. Si ritiene che il manifestante sia l’utente Twitter Peng Zaizhou (彭载舟): alcuni suoi vecchi post sono coerenti con gli slogan degli striscioni. Il suo vero nome dovrebbe essere Peng Lifa (彭立发), originario della contea di Tailai (Heilongjiang).

 

Il 20° Congresso del Partito si aprirà il 16 ottobre. Le autorità hanno rafforzato la sicurezza a livello nazionale e imposto restrizioni logistiche e di spostamento a Pechino. I dissidenti locali sono costretti a lasciare la città, mentre molti attivisti in tutto il Paese sono agli arresti domiciliari.

 

Il segretario generale Xi dovrebbe rimanere al potere per un terzo mandato, infrangendo la regola non scritta secondo cui il leader del Partito non può servire più di due quinquenni.

 

Xi si appresta a diventare il politico più potente della Cina dopo Mao Zedong. Questo nonostante la sua rigida politica «zero-COVID» abbia danneggiato l’economia, con una conseguente crescita della disoccupazione. A causa dei lockdown, molti cittadini si mostrano insoddisfatti e impazienti, ma la gente sceglie ancora di evitare di fare il nome di Xi in un’atmosfera soffocante.

 

Opporsi apertamente a Xi comporta rischi enormi e alcuni manifestanti hanno pagato un prezzo altissimo.

 

Il poeta Lu Yang (鲁扬) della provincia del Shandong, che ha esortato il presidente a dimettersi, è stato condannato a sei anni di carcere.

 

Dong Yaoqiong (董瑶琼), soprannominata «ragazza inchiostro» per aver imbrattato un poster del leader cinese a Shanghai, è rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Suo padre Dong Jianbiao (董建彪) è morto in carcere a settembre. Il magnate immobiliare Ren Zhiqiang deve scontare 18 anni di reclusione dopo aver criticato in modo aperto Xi.

 

 

Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne.

 

 

Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

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Cina

Cina, Bambini presi di mira da politiche antireligiose

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L’estate del 2025 ha visto una nuova escalation nella sinizzazione delle religioni in Cina. I bambini sono diventati i bersagli preferiti del regime comunista, che organizza attività di propaganda mirate a scoraggiarli dall’aderire a qualsiasi religione che si discosti dai principi decretati dal Partito Comunista sotto l’onnipotente Xi Jinping.

 

In una preoccupante dimostrazione di propaganda orchestrata dallo Stato, il governo cinese sta ancora una volta rivolgendo il suo apparato ideologico verso i membri più vulnerabili della società: i bambini.

 

A Shanghai, più precisamente nel distretto di Baoshan, sono state organizzate attività estive per trasformare i giovani in «piccoli guardiani» della comunità, come rivelato dal sito web di notizie Bitter Winter, che si impegna a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla persecuzione della religione, cristiana o di altro tipo, in Cina.

 

Scoraggiati dall’essere motivati ​​dalla curiosità o dalla compassione, questi bambini indottrinati sono armati di slogan e narrazioni volte a denigrare i cosiddetti gruppi religiosi «illegali», chiamati xie jiao, spesso tradotti come “sette malvagie”, ma che in realtà si riferiscono a organizzazioni religiose non riconosciute dallo Stato e non affiliate al Partito Comunista Cinese (PCC). A partire dall’inizio dell’estate del 2025, i bambini del distretto di Baoshab sono stati mobilitati per distribuire volantini contro gli xie jiao.

 

Sotto la maschera di concetti come «servizio alla comunità» o «alfabetizzazione scientifica», queste attività sono puro e semplice condizionamento ideologico. I bambini sono incoraggiati a recitare discorsi ostili agli xie jiao, distribuire opuscoli e mettere in scena sketch che demonizzano le minoranze religiose. L’obiettivo è chiaro: instillare fin dalla tenera età una lealtà incrollabile alla dottrina ufficiale di Xi Jinping e normalizzare la repressione di ogni espressione religiosa.

 

Ciò che colpisce è il tono celebrativo con cui viene presentata questa manipolazione. I contenuti digitali resi pubblici dall’Associazione Cinese Anti-Xie Jiao esaltano la «purezza» della forza dei bambini nel difendere la loro «patria armoniosa». Uno dei momenti più inquietanti della campagna di propaganda è stata l’organizzazione di un processo simulato in una reale aula di tribunale.

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Sotto la supervisione dei giudici, i bambini hanno assunto i ruoli di «giudici», «pubblici ministeri», «imputati» e «avvocati difensori», rievocando con agghiacciante realismo un caso penale in cui i membri degli xie jiao sono stati condannati a lunghe pene detentive.

 

Presentata come una lezione di alfabetizzazione giuridica, questa performance aveva uno scopo ben più sinistro: radicare nella mente dei bambini una visione di «moralità» definita dallo Stato ed equiparare il comportamento «illegale» all’espressione religiosa.

 

Gli xie jiao sono da tempo uno strumento utilizzato dalla Cina per delegittimare e criminalizzare i gruppi religiosi che si discostano dalla dottrina ufficiale del PCC. Dal Falun Gong al culto di Dio Onnipotente, fino alle chiese cristiane clandestine, questa etichetta ha giustificato programmi di sorveglianza, detenzione e rieducazione. Coinvolgendo i bambini in questa crociata, lo Stato non solo perpetua la sua repressione, ma ne garantisce anche la longevità.

 

Per inciso, è comico vedere uno Stato totalitario comunista ufficialmente ateo conferire un attestato di merito alle buone religioni che accettano di sottomettersi ai suoi criteri. Da quando ha stretto la morsa sull’apparato statale cinese, Xi Jinping ha intrapreso una feroce campagna di «sinizzazione» delle religioni che, con il pretesto di acculturare ogni forma di religiosità allo spirito cinese, in realtà si sforza di rendere le religioni sempre più subordinate al PCC e alla sua dottrina.

 

È in questo contesto di tensione che si pone il dilemma dell’accordo provvisorio firmato nel 2018 tra la Santa Sede e la Cina: uno sforzo per porre fine allo scisma delle consacrazioni episcopali avvenute senza mandato papale per alcuni, e una capitolazione di fronte alle richieste comuniste per altri.

 

Una questione scottante che, come molte altre, è ora sulla scrivania di Papa Leone XIV.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Cina

COVID, blogger cristiana cinese condannata ad altri quattro anni di carcere

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Una blogger cristiana cinese già condannata a quattro anni di carcere per aver documentato le prime fasi della pandemia di COVID da Wuhan è stata condannata ad altri quattro anni di carcere.   Zhang Zhan, 42 anni, è stata condannata in Cina con l’accusa di «aver attaccato briga e provocato disordini», la stessa accusa che ha portato alla sua prima incarcerazione nel dicembre 2020. L’accusa viene spesso utilizzata per perseguire i giornalisti che si esprimono contro il governo cinese o rivelano verità imbarazzanti.   Zhang ha pubblicato i resoconti di testimoni oculari di Wuhan sulla diffusione iniziale del COVID-19, compresi video, di strade vuote e ospedali affollati che dimostravano che la situazione a Wuhan era molto peggiore di quanto affermassero le autorità cinesi. I filmati della Zhanga sono stati visualizzati centinaia di migliaia di volte.   Il suo avvocato dell’epoca, Ren Quanniu, aveva affermato che Zhan credeva di essere stata «perseguitata per aver violato la sua libertà di parola». Dopo la prigionia, aveva iniziato uno sciopero della fame e fu alimentata forzatamente tramite un sondino.   Come riportato da Renovatio 21, cinque anni fa erano emerse notizie della sua cattiva salute e di una sua possibile tortura in carcere.   Era stata rilasciata nel maggio 2024. Secondo Quanniu, è stata nuovamente arrestata perché aveva commentato su siti web stranieri, tra cui YouTube e X.  

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Un portavoce del governo cinese ha dichiarato: «il caso riguarda la sovranità giudiziaria della Cina e nessuna forza esterna ha il diritto di interferire. I suoi diritti legittimi saranno pienamente rispettati e tutelati».   «Questa è la seconda volta che Zhang Zhan viene processata con accuse infondate che non rappresentano altro che un palese atto di persecuzione per il suo lavoro giornalistico», ha affermato Beh Lih Yi, direttore per l’area Asia-Pacifico del Comitato per la protezione dei giornalisti con sede a Nuova York.   «Le autorità cinesi devono porre fine alla detenzione arbitraria di Zhang, ritirare tutte le accuse e liberarla immediatamente». La Cina costituisce la prigione per giornalisti più grande del mondo. Si ritiene che attualmente vi siano detenuti oltre 100 giornalisti.   Come riportato da Renovatio 21, il nuovo processo era iniziato sei mesi fa.   Prima della pandemia di COVID, l’attivista e giornalista cristiana era già stata arrestata nel settembre 2019 per aver sfilato con un ombrello su Nanjing Road a Shanghai, in segno di solidarietà con le proteste di Hong Kong. Con le prime notizie della pandemia, si era recata a Wuhan per documentare gli eventi, pubblicando circa cento video in tre mesi e rispondendo alle domande di media internazionali. Arrestata nel maggio 2020, è stata la prima blogger a essere condannata per le informazioni diffuse sulla pandemia.

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Immagine screenshot da YouTube  
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Cina

Trump blocca l’accordo sulle armi con Taiwano

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di non approvare un pacchetto di armi destinato a Taiwan. Lo riporta il Washington Post, che cita cinque fonti informate.

 

Il giornale ha collegato questa scelta ai tentativi di Trump di negoziare un accordo commerciale con Pechino e al possibile incontro con il presidente cinese Xi Jinping, previsto a margine del vertice APEC in Corea del Sud il prossimo mese.

 

Il pacchetto di armi, valutato oltre 400 milioni di dollari, è stato descritto come «più letale» rispetto alle forniture precedenti. Secondo il WaPo, il team di Trump ritiene che Taiwan dovrebbe procurarsi autonomamente le proprie armi, in linea con l’approccio «transazionale» del presidente in politica estera. Un funzionario della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che la decisione non è ancora definitiva.

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Pechino, che considera Taiwan parte integrante del suo territorio, si oppone fermamente a qualsiasi assistenza militare straniera a Taipei. Xi ha ribadito che la Cina punta a una riunificazione pacifica, ma non esclude l’uso della forza.

 

A dicembre, il ministero degli Esteri della Repubblica Popolare ha ammonito Taipei, avvertendo che «cercare l’indipendenza appoggiandosi agli Stati Uniti o con mezzi militari è una via verso l’autodistruzione».

 

Il ministero della Difesa di Formosa ha scelto di non commentare il rapporto, ma ha sottolineato che «Taiwan e Stati Uniti mantengono una stretta cooperazione in materia di sicurezza, con tutti i programmi di scambio che procedono regolarmente per rafforzare un sistema di difesa completo».

 

Negli ultimi anni, Washington ha autorizzato diverse vendite di armi a Taiwan, inclusa la fornitura di sistemi missilistici di difesa aerea NASAMS.

 

Ancora lo scorso dicembre il presidente della Cina comunista Xi Jinpingo ha dichiarato ancora una volta che la riunificazione con l’isola di Taiwano è un processo inarrestabile.

 

Come riportato da Renovatio 21, anche nel discorso di fine anno 2023 lo Xi aveva dichiarato che la riunificazione con Taipei è «inevitabile». Un anno fa, tuttavia, Xi non aveva fatto menzione della forza militare. Il mese prima, il governo cinese aveva epperò chiarito che una dichiarazione di indipendenza da parte di Taipei «significa guerra».

 

Sinora, lo status quo nella questione tra Pechino e Taipei è stato assicurato dal cosiddetto «scudo dei microchip» di cui gode Taiwan, ossia la deterrenza di questa produzione industriale rispetto agli appetiti cinesi, che ancora non hanno capito come replicare le capacità tecnologiche di Taipei.

 

La Cina, tuttavia, sta da tempo accelerando per arrivare all’autonomia tecnologica sui semiconduttori, così da dissolvere una volta per tutte lo scudo dei microchip taiwanese. La collaborazione tra Taiwan e UE riguardo ai microchip, nonostante la volontà espressa da Bruxelles, non è mai davvero decollata.

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Come riportato da Renovatio 21, il colosso del microchip TSMC ha dichiarato l’anno scorso che la produzione dei microchip si arresterebbe in caso di invasione cinese di Formosa.

 

I microchip taiwanesi sono un argomento centrale nella attuale tensione tra Washington e Pechino, che qualcuno sta definendo come una vera guerra economica mossa dall’amministrazione Biden contro il Dragone, che riprendono politiche della precedente amministrazione Trump.

 

Come riportato da Renovatio 21, durante il suo discorso per la celebrazione del centenario del Partito Comunista Cinese nel 2021 lo Xi, mostrandosi in un’inconfondibile camicia à la Mao, parlò della riunificazione con Taipei come fase di un «rinnovamento nazionale» e della prontezza della Cina a «schiacciare la testa» di chi proverà ad intimidirla.

 

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

 

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