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Sri Lanka, giorno del ricordo: i Tamil omaggiano i caduti di guerra in un clima di libertà

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Le comunità del nord e dell’est dello Sri Lanka il 27 novembre hanno commemorato pacificamenti i combattenti morti nella guerra civile. Nonostante il maltempo, sono stati deposti fiori, candele e frutta nei Maaveerar Thuyilam Illam, luoghi del riposo. Nessuna restrizione è stata imposta dal nuovo governo. Muthukumara, businessman di Colombo ad AsiaNews: «sono esseri umani. Continuare con questa pace».

 

Fiori, lampade, candele, noci di cocco e frutta. Sono gli oggetti offerti ai caduti di guerra, il 27 novembre, secondo la tradizione tamil. Nonostante le forti piogge e la minaccia del ciclone Fengal, le comunità del nord e dell’est hanno osservato il «Maaveerar Naal», il giorno in cui si ricordano le vittime del conflitto concluso nel 2009. Per l’occasione sono state accese lampade e recitate preghiere solenni.

 

È la prima volta in 15 anni che le popolazioni tamil commemorano i defunti con libertà. Molti nel sud hanno detto ad AsiaNews che il ricordo pacifico «è un diritto dei Tamil». Diversamente dagli anni passati, il nuovo governo del National People’s Power non ha imposto restrizioni né ha cercato di fermare gli eventi con iniziative di legge.

 

Le famiglie di quanti hanno perso i loro cari si sono unite in preghiere comuni e si sono radunate nei luoghi di riposo chiamati «Maaveerar Thuyilam Illam», ovvero cimiteri per i caduti in guerra, ma anche in templi e chiese per offrire i loro omaggi. Speciali strutture sopraelevate sostenute da pali sono state erette dai Tamil per permettere alla gente di riunirsi per rendere omaggio a chi ha combattuto per la liberazione della loro patria tradizionale nel nord e nell’est dello Sri Lanka – tra il 1983 e il 2009, nelle fila delle Tigri per la liberazione della patria Tamil (LTTE).

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Secondo i reporter che lavorano nelle province settentrionali e orientali, sono stati più di 200 i cimiteri visitati, presenti in quasi tutti i distretti del Nord e dell’Est.

 

Ramalingam Chandrasekar, ministro della Pesca e delle Risorse Acquatiche e Oceaniche nel nuovo governo guidato da Dissanayake, ha dichiarato che il governo non fermerà coloro che vogliono celebrare «Maaveerar Naal», aggiungendo che hanno il diritto di farlo.

 

Centinaia di persone si sono riunite al «Thuyilum Illam» di Kanagapuram, dove sono stati resi i tributi, decorando il luogo con bandiere rosse e gialle, che secondo i testimoni sventolavano tra la pioggia e il vento. Eventi simili si sono tenuti nei cimiteri di Mullaitivu Theravil, Mannar Atkattiveli e Jaffna Kodikamam, dove amici e familiari, compresi i bambini, si sono riuniti.

 

Dopo 15 anni dalla fine guerra civile – sancita dalla sconfitta delle Tigri per la liberazione della patria Tamil – i genitori di quanti hanno perso la vita affrontando l’esercito dello Sri Lanka, e sono stati deposti nel cimitero di Theravil, erano presenti per rendere omaggio ai loro figli e figlie. A Jaffna e nella parte orientale di Batticaloa i Tamil hanno offerto pacificamente il proprio omaggio al cimitero di Tharavai, e al Campus dell’Università Orientale. La gente si è presentata in gran numero con fiori, candele e bastoncini d’incenso.

 

Sono stati organizzati eventi anche a Tharmapuram, nel distretto di Killinochi, al Koppai «Maaveerar Thuyilum Illam» e all’Università di Jaffna. A Mullaitivu, i militari e la polizia in uniforme non hanno interrotto i preparativi per il Maaveerar Day, ma il comitato organizzatore riferisce di una continua sorveglianza e intimidazione da parte dell’intelligence.

 

Anche a Mullivaikkal, dove si è svolta l’ultima battaglia, i genitori dei caduti in guerra, i loro parenti, gli ex membri delle Tigri per la liberazione della patria Tamil (LTTE) e il pubblico si sono riuniti, sfidando la pioggia battente, e hanno reso solenni omaggi.

 

Anche politici nelle province settentrionali e orientali si sono uniti alle commemorazioni organizzate nelle rispettive aree. Come il leader del Fronte Popolare Nazionale Tamil e deputato del distretto di Jaffna Gajendrakumar Ponnambalam, il deputato di Batticaloa Shanakkiyan Rasamanikkam, il deputato del distretto di Vanni e leader dell’Alleanza Nazionale Democratica Tamil, Selvam Adaikalanathan.

 

«Noi del sud e anche i governi passati consideravano questa ricorrenza ogni anno come un grande atto terroristico compiuto dai Tamil. Questo è molto sbagliato. Tutti sono esseri umani, coloro che sono morti sono anche loro parenti. Se un uomo non permette a un altro uomo di commemorare i suoi parenti morti, allora chi lo farà?», ha dichiarato ad AsiaNews Namal Muthukumara, un uomo d’affari di Colombo.

 

«Siamo felici, solo quest’anno non abbiamo sentito alcun ordine dei tribunali o molestie da parte della polizia e dell’esercito nei confronti delle persone che commemorano questa giornata. Questo governo dovrebbe andare avanti con questa pace».

 

Un’altra donna, dipendente di un’azienda privata di Colombo, Mala Karunaseeli, ha dichiarato ad AsiaNews: «Quando la gente di questo Paese perdonerà e stringerà la mano ai tamil innocenti rimasti nel nord e nell’est? La gente dovrebbe dimenticare i torti del passato e unirsi in pace per il bene di tutti gli esseri umani».

 

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Trump, castigo e catastrofe

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È arrivato il giorno, ma finché non lo vedremo, sarà difficile crederci.   Donald Trump torna alla Casa Bianca – cioè sul tetto del mondo. Non abbiamo dubbi a pensare che questo sia un evento epocale, e sia davvero più importante stavolta che non otto anni fa. Allora, «loro» non avevano capito del tutto, pensavano che lo avrebbero potuto addomesticare, comprare, o anche distruggere. Ci hanno provato. Hanno fallito.   Questo giorno arriva dopo tempi di follia assoluta, con intrattenimenti che, davvero, nemmeno nelle pellicole di Hollywood (che, nemica di The Donald, nel frattempo abbrucia).   Abbiamo visto attentati e droni misteriosi, al punto che ci siamo chiesti su Renovatio 21 se davvero non impediranno l’incoronazione con qualcosa di tremendo, un disastro che traumatizzerà l’America, e il mondo, più dell’11 settembre e il COVID – il metodo per dominare la nostra psiche, abbiamo capito, è quello, ferirci, spaventarci per comandarci.   La questione è che la catastrofe rischia di produrla Trump – cioè, è programmato che la scateni, contro il sistema che ha cercato di rovinarlo ed ucciderlo, che ha distrutto la classe media (non solo in America), fatto assassinare centinaia di migliaia di ragazzi ucraini e russi in una guerra senza sento, reso l’intero Occidente oggetto di un’invasione che ha reso invivibili le nostre città e il nostro futuro.   È l’idea, che abbiamo discusso su Renovatio 21della «liberazione del Kraken»: l’espressione ancora nel 2020 per indicare che Trump sarebbe tornato, e avrebbe avuto giustizia dei torni subiti. E noi con lui.   Per celebrare questo pensiero, Renovatio 21 ha prodotto una maglia. Forse l’avete già vista sfogliando il sito. È in cotone organico, con serigrafia (cioè, non stampa digitale, ma artigianale) fatta in Italia. Per celebrare il momento, e ricordarselo per sempre, non crediamo vi sia acquisto migliore. Ne sono rimasti pochi pezzi: abbassiamo il prezzo a 35€ spedizione inclusa.      
  La catastrofe che ci si aspetta Donald Kraken opererà sul Deep State e i suoi servi – ovunque, anche in Italia – sarà lo spettacolo che abbiamo atteso da una vita: lo spettacolo del castigo. L’idea stessa, divenuta persino impensabile nel nostro mondo «democratico» (cioè, sottomesso alla plutocrazia degli oligarchi e alle ideologie tossiche inflitteci) e post-cristiano, che sia possibile ottenere giustizia, e vedere i cattivi, per quanto potenti, per quanto occulti, finalmente puniti.   Questo è ciò che ci attendiamo da quando Trump metterà la mano sulla Bibbia in poi: castigo e catastrofe.   Potrebbe essere la cosa più incredibile che abbiamo mai visto. Potrebbe cambiare la nostra percezione dello Stato, della storia, della realtà.   Potrebbe essere la più grande di iniezione di speranza per il futuro dei nostri figli, che forse non sono condannati a vivere in un pianeta di ingiustizia, aberrazione, orrore e schiavitù.   Perché ciò accada bisogna che si liberi il mostro. Liberate il Donald Kraken.   Roberto Dal Bosco

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Morto il sacerdote che ha testimoniato la Cambogia dei Khmer tossi

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Sacerdote delle Missions Étrangères de Paris è morto in Francia a 85 anni. Nel 1975 era stato tra gli ultimi stranieri a lasciare il Paese di cui aveva poi raccontato la deriva ideologica nel libro Cambogia, anno zero, divenuto un punto di riferimento sul regime di Pol Pot. Tornato a Phnom Penh nel 1993 ha accompagnato la rinascita della Chiesa cambogiana anche grazie alla sue traduzioni della Bibbia e dei catechismi nella lingua locale.

 

Nella casa di riposo delle Missions Étrangères de Paris a Lauris in Francia, è morto oggi all’età di 85 anni p. François Ponchaud, missionario che ha trascorso ben 56 anni in Cambogia.

 

Era una figura conosciuta in tutto il mondo come testimone diretto della presa del potere dei Khmer rossi nel 1975, che lo costrinsero all’esilio durante il quale pubblico il libro Cambogia, anno zero, un testo fondamentale su quegli anni drammatici che videro lo sterminio di ben 2,3 milioni di cambogiani. Ma padre Ponchaud è stato anche uno dei protagonisti della faticosa rinascita di questa Chiesa martire del Sud-est asiatico, dove poté tornare poi a svolgere il suo ministero a partire dal 1993.

 

A Phnom Penh la notizia della sua morte è stata data questa mattina dal vicario apostolico dare la notizia della sua morte alla Chiesa cambogiana è stato questa mattina il vicario apostolico monsignor Olivier Schmitthaeusler. «Ha dedicato tutta la sua vita a servire il Signore e il popolo di Dio come missionario in Cambogia» ha scritto il presule ricordandolo. «Siamo grati per il suo lavoro di traduzione della Bibbia, del Concilio Vaticano II, di molti testi ufficiali della Chiesa cattolica e per la preparazione di tutti i libri per la catechesi, la liturgia e molti seminari di formazione per catechisti e fedeli».

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Come ricorda l’agenzia Ad Extra, promossa dalle Missions Étrangères de Paris, padre Ponchaud era nato l’8 novembre 1939 a Sallanches in Alta Savoia. All’istituto missionario francese ci era arrivato dopo aver prestato servizio militare come paracadutista in Algeria per ventotto mesi. Ordinato sacerdote nel 1964 era arrivato in Cambogia via mare l’anno successivo. Dopo i primi anni dedicati allo studio della lingua khmer aveva servito la prefettura apostolica di Kampong Cham. Quando il 17 aprile 1975, i Khmer Rossi conquistano Phnom Penh fu detenuto nell’ambasciata francese: quando l’8 maggio, pochi giorni dopo, venne espulso fu uno degli ultimi stranieri a lasciare la Cambogia.

 

In quegli anni il suo libro Cambogia, anno zero (pubblicato in Francia nel 1977 e tradotto poi in otto lingue) rivelò al mondo l’orrore del regime instaurato dai Khmer Rossi. Attraverso l’analisi dei discorsi ufficiali alla radio, Ponchaud decifrava gli obiettivi perseguiti dalla rivoluzione: l’organizzazione della nuova società, la formazione ideologica del popolo e la pretesa creazione di una nuova cultura al prezzo doloroso in termini di sangue che tutti poi avrebbero scoperto.

 

Anche durante gli anni dell’esilio non smise mai di visitare i rifugiati khmer in Francia, Europa, America e in Thailandia. Poté finalmente tornare in Cambogia nel 1993, dopo gli accordi di Parigi e la fine dell’occupazione vietnamita, riprendendo la sua opera pastorale. Dal 2016 al 2021 – prima del rientro in Francia a causa dell’età e della salute precaria – si era infine ritirato in una piccola parrocchia rurale, dividendo il suo tempo tra le attività spirituali e culturali.

 

Tra le sue opere va ricordato anche il libro La cattedrale della risaia (anche questo tradotto in italiano da Pimedit) in cui ha ricostruito i 450 anni di storia della Chiesa in Cambogia.

 

Nel Paese aveva anche fondato il Centro culturale cattolico cambogiano, per insegnare la lingua e la cultura khmer ai giovani missionari e volontari, in modo da servire al meglio il popolo cambogiano.

 

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Immagine di istolethetv via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Dottrina Monroe e «Destino Manifesto»: le origini storiche della politica continentale USA

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Nel 1775 il testo di Thomas Jefferson in cui si difendeva la necessità di prendere le armi contro la madre patria, Dichiarazione delle cause e della necessità di prendere le armi, diede origine ad accesi dibattiti tra le tredici colonie nord-americane. Il timore di affrontare un salto verso l’ignoto, immaginando un’America non più britannica e nemmeno europea, aveva però infervorato gli animi di quella élite economica che spingeva per la secessione.   Nel 1776, Thomas Paine attraverso il pamphlet Common SenseSenso comune») fornì allora le linee guida per convincere l’opinione pubblica della bontà del progetto di distacco dalla corona britannica. Il testo conteneva forti critiche verso la monarchia britannica che, secondo l’autore, inibiva le possibilità economiche delle colonie impedendo loro di commerciare liberamente con paesi terzi.   I legami con la Gran Bretagna e le nazioni europee obbligavano a prendere parte a inutili guerre che drenavano immense risorse. La visione eccezionalista e internazionalista di Paine, anche attraverso il noto Model Treaty redatto da Adams, divenne il discorso egemone nella politica estera statunitense degli anni a venire.

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Secondo Paine la struttura sarebbe stata imperniata su: la centralità del commercio; l’universalismo; l’interdipendenza tra politica interna ed estera; l’eccezionalità degli Stati Uniti; il rapporto tra gli obiettivi posti e gli strumenti necessari per raggiungerli.   A tutti gli effetti si trattava di un’ideologia del commercio che prevedeva per i futuri Stati Uniti un ruolo e una funzione centrali nella trasformazione dell’ordine globale. Il distacco dall’impero e la formazione di una Repubblica diventavano la condizione necessaria per la creazione di un nuovo ordine mondiale e per la «nascita di un mondo nuovo».   Secondo Paine, questa svolta epocale avrebbe messo fine alle guerre e alle logiche di potenza che fino a quel momento avevano prevalso, per questo motivo la causa americana diventava la causa dell’umanità, «facendo ricominciare il mondo di nuovo». Ogni strumento sarebbe stato lecito per adempiere al proprio destino.   Mentre Paine sognava la liberazione dei popoli dal male della guerra non esitava comunque a dichiarare necessaria l’immediata istituzione di un governo centrale e di una marina militare per difendere i traffici commerciali. La nascita della nazione era accompagnata da un marcato nazionalismo che non avrebbe disdegnato il ricorso alla forza militare pur di raggiungere i propri scopi.   La Dichiarazione d’indipendenza del 1776 conteneva un atto di unione tra le colonie che lasciava intravedere un’evoluzione dell’internazionalismo del Common Sense. L’eccezionalità americana si bilanciava tra la vocazione imperiale e la salvaguardia della sua struttura politica repubblicana. Il presidente George Washington, nel suo discorso d’addio al congresso, denominato Farewell Address, del 1796, citò il principio del nonentanglement. Washington avvertì la nazione di mantenersi a giusta distanza dai vincoli europei per non venirne risucchiati e di sviluppare il proprio mondo resistendo alle ingerenze esterne.   

Gli Stati Uniti nel 1790. Immagini di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

  Ad inizio Ottocento la Louisiana era in mano spagnola: il Regno di Spagna l’aveva acquistata dalla Francia nel 1763, in seguito alla Guerra dei Sette anni. La navigabilità del fiume Mississippi e la possibilità di accesso al Golfo del Messico attraverso New Orleans rappresentavano per la repubblica statunitense premesse fondamentali per il proprio sviluppo economico. Le regioni americane dell’Ovest dipendevano dall’utilizzo del fiume per trasportare le merci. La Spagna nel 1800, ormai ridotta a mero satellite dell’Impero napoleonico, accettò di restituirle la Louisiana.   Nel 1803 Napoleone offrì agli Stati Uniti l’intero bacino del Mississippi che diede un significativo consolidamento geopolitico e la libertà di accesso al Golfo del Messico. Con la Spagna sempre più fiacca, la Francia definitivamente fuori dai giochi e l’Inghilterra presente in Canada ma con i territori del Nord Ovest attraversati dagli affluenti del grande fiume americano, il contrasto europeo all’espansionismo americano risultava ampiamente indebolito.   Il Trattato Adams-Onís del 1819 portò definitivamente alla realizzazione dell’obiettivo di trasformare gli Stati Uniti in una repubblica transcontinentale. L’accordo prevedeva la cessione delle due Floride e la rinuncia della Spagna a qualsiasi pretesa sui territori dell’area del Nord-Ovest fino al Pacifico. La parallela crisi in America Latina stava portando alla definitiva distruzione dell’impero spagnolo.

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Le varie repubbliche indipendenti nate a cavallo tra gli anni Dieci e Venti dell’Ottocento vennero salutate con entusiasmo come nuove realtà che avanzavano sulla stessa linea evolutiva statunitense. La posizione di Adams però si manteneva distaccata. Il pregiudizio nutrito verso le popolazioni latinoamericane cattoliche e spesso meticce e, soprattutto nei decenni successivi, l’orientamento razzista verso il Sudamerica avrebbe dominato l’opinione pubblica.    La Dottrina Monroe del 1823 si riassumeva in tre principi chiave che avrebbero indirizzato il comportamento di politica estera statunitense verso il Sudamerica nei decenni a venire: la non colonizzazione Europea; il non intervento americano a discapito europeo; la non ingerenza reciproca tra America ed Europa. Il contenuto della dichiarazione di Monroe tornava ad affermare con veemenza una visione eccezionalista, internazionalista, anticoloniale e liberale.    Verso la metà dell’Ottocento nel congresso americano si discuteva sul proseguimento dell’avanzamento imperiale a nord ovest nell’Oregon e a sud ovest nel Texas. Il 27 dicembre del 1845 sul New York Morning News uscì «The True Title», un articolo a firma di John O’Sullivan in cui appariva per la prima volta lo slogan «Manifest Destiny» («Destino manifesto»). Il destino degli Stati Uniti doveva essere quello di «occupare e conquistare l’intero continente» assegnato loro «dalla Provvidenza per realizzare il grande esperimento della libertà e dell’autogoverno federale».   Già dai primi anni Venti dell’Ottocento, molti coloni statunitensi erano stati incoraggiati dal governo messicano a stabilirsi nelle scarsamente popolate terre del Texas, superando in pochi anni gli spagnoli per numero di abitanti. Le tensioni e le instabilità che ne derivarono portarono a tensioni tra i coloni texani e il governo messicano. Nello scontro tra i due eserciti, i messicani furono sconfitti nella battaglia di San Jacinto dell’aprile del 1836.   Il Texas venne annesso agli Stati Uniti solamente dopo una decina di anni da una spregiudicata mossa politica del presidente uscente Tyler il primo maggio 1845. Il confine venne spostato sul Rio Grande, molto più a sud di quanto non lo fosse in precedenza, determinando una condizione impossibile da accettare per il Messico. Nel maggio del 1846 un contingente messicano attraversò il Rio Grande e attaccò le truppe americane.   La guerra terminò assai rapidamente nel 1847 con l’invasione di Città del Messico. Il vivace dibattito interno fra le fazioni rappresentanti il sud e il nord del paese si concentrò sull’annessione completa del Messico, ma le teorie razziste prevalsero, imponendo di mantenere quanto più possibile il confine sulla color line, il confine della razza.  

Vignetta satirica del 1896 di Victor Gillam (1867–1920): europei e latinoamericani fuori dalla linea tracciata dallo Zio Sam; immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

  Con il Trattato di Guadalupe Hidalgo del gennaio 1848, il Messico accettava la sottrazione del Texas sul confine del Rio Grande, e inoltre anche i territori del Nuovo Messico e della California, perdendo così un terzo del suo territorio.   Gli Stati Uniti, invece, riuscivano a concludere il processo di unificazione continentale del Paese da costa a costa.    Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine di John Gast (1842–1896), American Progress (1872), Autry Museum of the American West, Los Angeles. Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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