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Siamo tecnicamente tutti detenuti

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Renovatio 21 pubblica il testo dell’intervento di Elisabetta Frezza al convegno Sapiens^3. Superare un’antropologia disumana, Roma, 4 dicembre 2021.

 

 

 

 

 

Giunti al punto in cui siamo giunti, qualsiasi discorso che cerchi di fornire una lettura ragionata dei fatti può sembrare vano e inconcludente.

 

 

Là fuori, infatti, c’è un tran tran che continua imperterrito, in apparenza sempre uguale a se stesso, e ha però i connotati di una parodia: viaggia su un piano parallelo, «sterilizzato», e ormai svuotato di ogni verità.

 

 

E noi siamo le comparse involontarie di questo teatro dell’assurdo. Per cui vien da pensare che sia proprio l’assurdo l’unica chiave per leggere infallibilmente la realtà delle cose.

 

Siamo condannati senza giudizio al 41 bis o, in alternativa, se muniti di tessera tecnosanitaria, alla libertà vigilata: in ogni caso, soggetti a un regime penitenziario più o meno rigido, ma siamo tecnicamente tutti dei detenuti

 

 

Basti pensare che siamo condannati senza giudizio (o con giudizio sommario, che non contempla l’esercizio del diritto di difesa) al 41 bis o, in alternativa, se muniti di tessera tecnosanitaria, alla libertà vigilata (comunque a scadenza fino a successivo rinnovo): in ogni caso, soggetti a un regime penitenziario più o meno rigido, ma siamo tecnicamente tutti dei detenuti.

 

 

Molti vengono privati addirittura del lavoro, dello studio, cioè dei mezzi di sostentamento fisico e intellettuale. E tutto sulla base di una premessa indimostrata, semplicemente perché indimostrabile.

 

 

Forse il senso di continuare ad analizzare e interpretare i fatti sta nella necessità di capire come e perché bisogna ostinatamente resistere, senza farsi inghiottire dal film – un po’ come avviene nella Rosa Purpurea del Cairo – ma di seguirne la trama con uno sguardo disincantato, il più possibile lucido, anche per disporre degli argomenti utili per sottrarre qualcun altro a un micidiale meccanismo di immedesimazione. È difficile, è logorante, perché sappiamo bene che dentro quel film non si spara a salve, ma si giocano davvero le nostre vite e, soprattutto, le vite dei nostri figli.

 

 

Fatta questa premessa, proverò ora a mettere insieme qualche riflessione sparsa, ben conscia della mia inadeguatezza a trattare di un tema, come quello della libertà, così sterminato da dare le vertigini.

 

 

La libertà è materia impastata con l’uomo, ha a che fare con la sua creaturalità e con la sua natura di essere razionale.

 

 

Fin dalle origini del pensiero, da quando, agli albori della nostra civiltà, l’uomo ha cominciato a interrogarsi su se stesso – sulle costanti e le varianti della sua natura – e sulla realtà che lo circonda, il tema della libertà è stato al centro di una speculazione – filosofica, teologica, etica e politica – mai interrotta.

 

La libertà appartiene all’uomo: nelle sue estrinsecazioni fondamentali – libertà personale, di pensiero e di manifestazione del pensiero, di religione, di circolazione, di associazione e di riunione, eccetera – è poi entrata nel diritto (in particolare, in età moderna, nelle Costituzioni degli Stati di diritto) essendone un antecedente; è, cioè, un a-priori della legge: fenomeno pregiuridico

 

 

La libertà appartiene all’uomo: nelle sue estrinsecazioni fondamentali – libertà personale, di pensiero e di manifestazione del pensiero, di religione, di circolazione, di associazione e di riunione, eccetera – è poi entrata nel diritto (in particolare, in età moderna, nelle Costituzioni degli Stati di diritto) essendone un antecedente; è, cioè, un a-priori della legge: fenomeno pregiuridico che il diritto positivo (lo ius positum) non fonda ex novo, ma deve semplicemente riconoscere, e quindi tutelare, anche e soprattutto contro l’arbitrio, sempre in agguato, del potere costituito.

 

 

In un ordinamento che si definisca democratico, una eventuale e per forza di cose circoscritta limitazione di questa sfera essenziale di libertà non può prescindere dalla presenza di presupposti di fatto certi, verificati e dimostrati, che la giustifichino e, in ogni caso, da uno scrupoloso bilanciamento tra esigenze e interessi concorrenti.

 

 

 

Sta di fatto che lo Stato di diritto è chiamato a proteggere i suoi cittadini anche da se stesso, ossia contro le proprie derive autoritarie, ogniqualvolta si affacci la tentazione di travalicare gli argini che presidiano quel nucleo inscalfibile e irriducibile che si può distillare nel concetto (atecnico, ma pregnante) di «dignità» umana.

 

 

 

La divisione dei poteri, l’indipendenza e il reciproco controllo tra gli organi che li impersonano, serve a rendere effettivo questo presidio e ad evitare degenerazioni liberticide.

 

 

È evidente che il diritto, lo ius – che non per nulla condivide la sua radice etimologica con quella della iustitia – deve avere un fondamento che lo trascende: un fondamento sostanziale solido e non fluttuante secondo gli estri di maggioranze estemporanee. Se così non fosse, si manifesterebbe nel mero uso della forza di cui il sovrano dispone per rendere effettivo il proprio potere.

 

 

Il buon funzionamento di qualsivoglia sistema normativo contingente dipende cioè dalla sua adesione a un riferimento esterno ad esso, un riferimento oggettivo e superiore, fatto di un novero di principi fondamentali che afferisce alla natura immutabile dell’uomo e che, proprio per questo, può e deve orientare e limitare l’esercizio del potere sovrano.

 

Del resto, che al di sopra della volontà del sovrano insista un modello superiore di giustizia, era chiaro già agli antichi: lo sapeva re Salomone quando invocava la grazia di essere un legislatore giusto; lo gridava Antigone quando disobbediva all’editto di Creonte per dare sepoltura al fratello Polinice, a costo della propria vita.

 

La produzione di norme sganciate da un criterio oggettivo di valore non può, viceversa, che generare mostri.

 

Ecco per esempio che, con decreto imperiale, Caligola insignì il proprio cavallo del titolo di senatore.

 

Ecco che il partito nazionalsocialista, a Norimberga, nel 1935, in occasione del «raduno della libertà» promulgò le leggi razziali.

 

In un ordinamento che si definisca democratico, una eventuale e per forza di cose circoscritta limitazione di questa sfera essenziale di libertà non può prescindere dalla presenza di presupposti di fatto certi, verificati e dimostrati, che la giustifichino e, in ogni caso, da uno scrupoloso bilanciamento tra esigenze e interessi concorrenti

 

 

Ecco che con raffiche di DPCM (fonte peraltro inventata per l’occasione, inesistente in rerum natura), di decreti-legge, e poi, a cascata, di circolari, ordinanze, protocolli e altra paccottiglia palesemente illegittima (in quanto sconta appunto un vizio di origine), i nuovi despoti grandi e piccini, centrali e periferici, tutti servi di altri padroni, praticano senza freni e in modo continuato, in danno dei cittadini, l’abuso legalizzato (e ormai normalizzato) del diritto, fingendosi tuttora al riparo di un ordinamento costituzionale che, di fatto, è stato proditoriamente sbaraccato. Ma che viene tenuto lì, esposto alla vista dei sudditi, come una mummia, come un’insegna luminosa appesa sulla facciata pericolante di un rudere diroccato.

 

 

Maestranze ottuse o ottusamente conniventi, al guinzaglio di avventurieri senza scrupoli, se ne stanno infrattate nei gangli delle burocrazie, a riprodurre in serie schemi e procedure del sistema cosiddetto democratico – inscenano i suoi riti – per instaurare un sostanziale assolutismo.

 

 

Non è un caso che la ripartizione dei poteri, di cui dicevamo poc’anzi – teorizzata a garanzia di un equilibrio necessario per salvaguardare le libertà – oggi sia appannata, se non del tutto dissolta, perché il potere, oggi, fa capo a un’unica centrale operativa, tecnocratica, occupata stabilmente sempre dalle stesse pedine, fluttuanti tra Quirinale, Consulta, Palazzo Chigi, Magistrature superiori. Mentre il Parlamento, l’organo rappresentativo, è disattivato.

 

 

Costoro eseguono i diktat che sono formulati in sede extra e sovranazionale da organismi opachi, senza volto e senza responsabilità, e che sono diramati da altri groppuscoli tecnico-scientifici dai molti nomi, apparecchiati nelle retrovie istituzionali per fare da ripetitore e da cinghia di trasmissione di quei diktat, contestualmente esautorando la politica; o meglio, ciò che resta di una politica da tempo ostaggio di personaggi per lo più privi del senso stesso del mestiere che, per grazia ricevuta, si trovano a praticare.

 

È una anomalia politica quella che avvolge e sconvolge il nostro presente, individuale e collettivo, facendoci affondare nelle sabbie mobili del caos mentre un potere sadico e vorace demolisce tutt’intorno, giorno dopo giorno, le regole scritte e non scritte del vivere civile, della ragione, della stessa religione

 

 

È una anomalia politica quella che avvolge e sconvolge il nostro presente, individuale e collettivo, facendoci affondare nelle sabbie mobili del caos mentre un potere sadico e vorace demolisce tutt’intorno, giorno dopo giorno, le regole scritte e non scritte del vivere civile, della ragione, della stessa religione.

 

 

Il paradosso è che lo strapotere che veste i panni liberal democratici, in questa vorticosa giostra di artifizi e raggiri, riesce nell’incantesimo di inglobare i sudditi nel proprio stesso corpo, di farli parte integrante di sé dopo averli ipnotizzati e plasmati in funzione del proprio perpetuarsi. Lo fa attraverso la torsione delle parole e lo sgretolamento dei concetti, riempiendo le une e gli altri di contenuti cangianti, strumentali ai propri obiettivi.

 

 

In tal modo gli stessi sudditi, adeguatamente addomesticati, da antagonisti genetici del potere si trasformano nel suo corpo di guardia: diventano insomma i pretoriani pronti a reprimere, e potenzialmente sopprimere, i propri simili non allineati.

 

 

Fatte salve le poche e luminose eccezioni che ormai tutti conosciamo e che ancor più brillano nella eclissi totale delle idee e delle parole sensate, ciò che più colpisce, in questa grottesca sceneggiata infarcita e ricoperta da strati di menzogna, è l’afasia di quanti dovrebbero gridare per primi alla nudità del re – soprattutto giuristi, legulei, magistrati e giusfilosofi, o sedicenti intellettuali, tutti ovviamente democraticissimi. Costoro fino a ieri pomposamente predicavano quanto oggi vedono impunemente calpestato sotto i loro occhi, e tacciono con ignominia di fronte alla normalizzazione dell’incertezza del diritto e del suo sistematico sfregio.

 

 

In effetti viene da domandarsi cosa mai si insegni, oggi, nelle lezioni di diritto costituzionale in Università.

 

 

Si tengono ancora, nelle aule delle facoltà di giurisprudenza, i corsi di diritto costituzionale? Se sì, con quale coraggio? Lo chiedo con sincera curiosità, da allieva, in un tempo ormai lontano, di un docente che fu anche presidente di Corte Costituzionale e che raccontava tutt’altra storia di quei 139 articoli e 18 disposizioni transitorie tuttora formalmente vigenti. Norme che, tanto più in quanto apicali nella gerarchia delle fonti, dovrebbero preservare il loro significato e la loro ratio al di là della prevalenza estemporanea dell’uno o dell’altro flusso di potere, o della linea bassamente politica del momento al cui servizio vengono invece piegate, come un ferro caldo.

 

 

In compenso, questo vuoto pneumatico e questo silenzio tombale da parte degli interpreti naturali del diritto sono stati riempiti dallo starnazzo perpetuo dei piazzisti televisivi variamente qualificati i quali, anch’essi a libro paga dei tenutari di un’agenda inflessibile nella sua mostruosità, si prestano a ruminare le battute farsesche e volgari di un copione fantascientifico e fantasanitario che, scritto da qualche sceneggiatore psicopatico, è calato sulle vite di tutti, dei volenti e dei nolenti.

 

 

A sentire Monti, nel suo recente invito a scoprire le carte, dovrebbero essere questi fenomeni pappagalleschi ad aggiudicarsi l’esclusiva dell’informazione, in regime di monopolio. «I potere è nostro e guai a chi ce lo tocca», insomma, senza più tanti giri di parole.

 

La «prevalenza» dell’interesse collettivo è il nuovo totem al quale sacrificare i diritti fondamentali dell’individuo: l’interesse collettivo si impone oggi come concetto di ordine quantitativo, avulso dallo sforzo di un giudizio di valore che investirebbe invece quel piano del dover essere su cui per definizione si muove il diritto, con le sue norme

 

 

I nuovi pensatori e le nuove pensatrici sono quelli che, al suono della parola libertà, partono in quarta a intonare i ritornelli di repertorio, il più famoso (e idiota) dei quali suona: «la tua libertà finisce dove comincia quella degli altri».

 

 

Un giochetto di parole che, per la sua orecchiabilità, piace tanto sia ai guitti sia all’uditorio belante. Nessuno di essi però – essendo tutti in vacanza cerebrale di gruppo per motivi di salute pubblica – è in grado di fare una analisi del testo e di domandarsi se la filastrocca, al di là del bel suono, voglia effettivamente dire qualcosa.

 

 

Basterebbe chiedersi: chi ha titolo per tracciare questo confine tra la mia libertà e quella altrui? Con quale criterio verrebbe definito il discrimine? Con quale metro si misura lo spazio rispettivo? Chi sarebbero gli “altri” la cui libertà per definizione limiterebbe la mia?

 

Tanto per cominciare, gli altri sono una sommatoria di enne individui, che quindi, in virtù del mero fattore numerico, appaiono ictu oculi prevalenti sul singolo, grazie alla mistica de «la maggioranza vince» e all’onnipresente equivoco democratico.

 

 

La «prevalenza» dell’interesse collettivo è il nuovo totem al quale sacrificare i diritti fondamentali dell’individuo: l’interesse collettivo si impone oggi come concetto di ordine quantitativo, avulso dallo sforzo di un giudizio di valore che investirebbe invece quel piano del dover essere su cui per definizione si muove il diritto, con le sue norme – che sono, per definizione, generali e astratte, e anche tendenzialmente stabili e dunque certe.

 

La collettività non è altro che la massa inerte a trazione mediatica nel cui nome la sedicente autorità – cioè chi detiene il potere e dispone dell’uso della forza – si appropria del titolo per diventare onnipotente e disfarsi dell’intralcio di minoranze disfunzionali alla realizzazione del proprio programma

 

 

Di fatto quindi, la collettività non è altro che la massa inerte a trazione mediatica nel cui nome la sedicente autorità – cioè chi detiene il potere e dispone dell’uso della forza – si appropria del titolo per diventare onnipotente e disfarsi dell’intralcio di minoranze disfunzionali alla realizzazione del proprio programma: e così, per esempio, può impossessarsi del mio corpo contro la mia volontà e la mia salute, può irrompere nello spazio sacro e inviolabile della mia sovranità famigliare e biologica, e ghermire i miei figli contro la mia volontà e la loro salute.

 

 

Allora, per tornare alla formuletta ebete e tralatizia sulla libertà mia e altrui, il confine tra le due, e il criterio per tracciarlo – vista la assoluta relatività dei concetti in gioco, evidentemente non oggettivizzabili – alla fine non possono essere che quelli decisi discrezionalmente dal dominus di turno, in funzione degli obiettivi prescelti.

 

 

A margine, notiamo come tra i pensatori e le pensatrici del nuovo corso diversamente democratico, pronti a invocare la tortura e l’apartheid per i refrattari alla sperimentazione di massa, spiccano quelli che fino a ieri abitavano un luogo chiamato Casa delle libertà: oggi, inebriati dal vento igienista e rigorista che soffia fuori, brandiscono baldanzosi il nuovo manganello che gli è stato dato in dotazione.

 

… Straordinario paradigma della involuzione dell’ominide neolibertario, destinato per vocazione a ricoprire lo status del più servile strumento nelle mani del tiranno

 

 

Loro non lo sanno, ma la parabola che li vede protagonisti rappresenta uno straordinario paradigma della involuzione dell’ominide neolibertario, destinato per vocazione a ricoprire lo status del più servile strumento nelle mani del tiranno.

 

 

Ma cos’ha potuto farci precipitare tanto in basso e con tanta stupefacente velocità?

 

 

La recente accelerazione ha attecchito su un terreno già reso fertile dalla progressiva inesorabile demolizione delle strutture portanti di una civiltà in seno alla quale erano stati elaborati i sistemi concettuali e le forme di pensiero capaci tanto di ordinare e regolare il vivere comune, quanto di rispondere alle esigenze spirituali profonde dell’uomo di ogni tempo; in seno a questa civiltà erano fioriti la filosofia, l’arte, il diritto e la politica, l’etica e l’estetica, la poesia e la letteratura, la scienza e l’economia, e la fede cristiana: tutto quel patrimonio di bellezza e di senso che ha innervato nei secoli il tessuto sociale della nostra terra, e che l’onda montante della demenza globalizzata e della barbarie travestita da progresso ha calpestato assieme alla identità e alla memoria di un popolo.

 

 

Di questa vertiginosa involuzione ci ha regalato una sintesi folgorante Cingolani, tenutario di un dicastero di cui non sentivamo la mancanza, che ha esposto la propria ricetta risolutiva per l’istruzione d’avanguardia: «non serve studiare quattro volte le guerre puniche, servono più digital manager». E a noi non servono i commenti.

 

 

Ma quel terreno era stato reso fertile, per paradosso, anche dalla ipostatizzazione dello stesso concetto di libertà, previamente contraffatto per funzionare da arma di distrazione e distruzione di massa.

 

 

La libertà (quella vera) ha potuto essere soppressa impunemente proprio nel nome di tutte le libertà (false) che sono state innalzate una dopo l’altra sull’altare della cosiddetta autodeterminazione.

 

Con pagamento anticipato, in cambio della nostra libertà, ci avevano già elargita l’illusione di poterci autodeterminare senza limiti nel disporre della nostra vita, e di decidere anche della nostra morte

 

 

Con pagamento anticipato, in cambio della nostra libertà, ci avevano già elargita l’illusione di poterci autodeterminare senza limiti nel disporre della nostra vita, e di decidere anche della nostra morte.

 

 

E ci avevano già convinti che questa sbornia libertaria fosse cosa buona e giusta, attraverso il suo graduale assorbimento nella legge. La legittimazione giuridica di una condotta è capace, infatti, di far evaporare pian piano la percezione del suo disvalore intrinseco: perché tutto ciò che viene reso giuridicamente lecito, nell’immaginario collettivo diventa anche moralmente accettabile; in altri termini, viene istintivo identificare il bene e il male con ciò che la legge consente e non consente.

 

E così ci hanno convinti di poter decidere – liberamente, è chiaro – di sopprimere la vita nascente; di interrompere quella già nata, ma fragile, giudicata non all’altezza di fluttuanti standard di qualità; di poter decidere di traslocare da un sesso all’altro e ritorno, portandoci dietro, o anche no, i pezzi in dotazione e quelli di ricambio; di assemblare nuovi agglomerati diversamente assortiti, e chiamarli famiglia; di fabbricare esseri umani in provetta, manipolarli e programmarli geneticamente, e di chiamarli figli; di consumare liberamente la pornografia e di praticarla anche, con esemplari di tutte le età.

 

 

Insomma, nel fantastico mondo delle finte libertà legalizzate, l’uomo misura di tutte le cose, ubriacato dal proprio delirio di onnipotenza (la hybris antica), sobbollendo nel brodo edonistico ed egoistico preparato per lui, è arrivato fino al punto di sbarazzarsi della realtà, della natura e della stessa fisiologia. Fieramente persuaso della propria sconfinata facoltà di autodeterminarsi, non si accorge di essere in realtà sommamente eterodiretto, e scagliato a tutta velocità verso il proprio annientamento programmato.

 

 

Non possiamo dire che non ci avessero avvisati per tempo dei prevedibili esiti di questa degenerazione, che è poi la somma di tante degenerazioni.

 

Nel fantastico mondo delle finte libertà legalizzate, l’uomo misura di tutte le cose, ubriacato dal proprio delirio di onnipotenza (la hybris antica), sobbollendo nel brodo edonistico ed egoistico preparato per lui, è arrivato fino al punto di sbarazzarsi della realtà, della natura e della stessa fisiologia

 

 

Alcuni fatti, per chi si è preso la briga di osservarli, di capirli e necessariamente di patirli, erano stati esibiti al pubblico quasi a mo’ di esplicito avvertimento; di sicuro hanno rappresentato uno spartiacque nel processo di dissoluzione.

 

 

La storia di Alfie Evans, per esempio, il piccolo inglese (ma che, ricordiamolo, ottenne anche la cittadinanza italiana in un tentativo estremo di sottrarlo ai suoi carnefici) che fu ammazzato per il suo «miglior interesse» dalle istituzioni, laiche e religiose insieme, alleate nella missione diabolica di sacrificare l’innocente in mondovisione, letteralmente strappandolo alle braccia dei suoi genitori, sotto lo sguardo sgomento di tante persone di buona volontà.

 

 

Come dire (ed ecco l’avvertimento): non decidi tu, caro cittadino, caro genitore, del bene di tuo figlio; se il potere stabilisce che è fragile, imperfetto e, in previsione futura, la sua vita non raggiungerà una qualità soddisfacente, può prendertelo e sopprimerlo.

 

 

Così la prossima volta tu magari impari a pensarci prima e a programmarlo senza vizi di fabbricazione, come la biotecnologia di Big Pharma oggi consente; e tu genitore, se ti ostini a prescindere da queste meraviglie del progresso, beh, sei un egoista che gioca alla roulette russa della natura contro il “best interest” della progenie.

 

 

La stella polare del best interest risorge ora in tema di vaccini. Il tribunale di Milano ha stabilito che un quattordicenne dovrà vaccinarsi contro il COVID nonostante non lo vogliano né lui né sua madre: dovrà farlo nel suo miglior interesse, che tanto lui quanto sua madre secondo i giudici non sono in grado di discernere perché assestati su «posizioni aprioristiche che trascurano gli approdi della scienza internazionale». E poi anche perché lo ha detto Mattarella (in motivazione si legge infatti che va considerato «il monito del PdR che il 28 luglio ha detto che la vaccinazione è un dovere morale e civico»). Bergoglio invece, per stavolta, non è diventato fonte di diritto. Quindi: la tanto pompata volontà del minore viene valorizzata solo se va nella direzione conveniente alla regia.

 

 

Il quadro, agghiacciante, si completa considerando come, pressoché contemporaneamente, si sia pronunciato il presidente della società italiana di pediatria dicendo che i bambini devono essere vaccinati per il loro miglior interesse: «per i bimbi è fondamentale la qualità della vita, che è un bene supremo, necessario per crescere in salute» (il metro di misura della qualità la decidono loro, ovviamente); «la vaccinazione, oltre ad essere una straordinaria opportunità, è un diritto per i bambini».

 

 

Tradotto: tu genitore, che eserciti cautela e applichi il principio di precauzione, sei inadeguato, egoista e anche pericoloso perché cresci come disadattati sociali i tuoi figli, che invece devono vivere marchiati, iperconnessi e contenti. Felici di ottenere il Natale-premio per buona condotta. E questo anche se il mistero, o il segreto, intorno agli effetti delle pozioni magiche, del pharmakon universale, verrà svelato nel 2076, come ci dice la Pizia di Big Pharma.

 

La stella polare del best interest risorge ora in tema di vaccini

 

 

Come sempre dunque, a coprire le peggiori nefandezze, è invocato il motivo umanitario (il bene della vittima). Insomma, sopra tutto ci sta sempre l’amore. Che è un’arma impropria micidiale perché, inteso come mero moto emozionale svincolato da ogni criterio superiore di giudizio, è capace di servire qualunque causa e mascherare ogni azione intrinsecamente malvagia.

 

 

Il passaggio dalla libertà alla tanto invocata autodeterminazione non è stata una operazione meramente cosmetica. È stata una metamorfosi di senso, perché sottintende l’adesione a una concezione dell’individuo come arbitro incontrastato del bene e del male e, in apparenza, del proprio destino (quando in realtà, per paradosso, è ridotto a schiavo delle superstizioni spacciate dall’alto).

 

 

La libertà senza limiti coincide infatti con la subalternità più totale, perché interiorizzata, perché inconsapevole e dunque consenziente. Non per nulla oggi, dietro l’emancipazione di facciata, domina l’obbedienza cadaverica a ogni genere di sopruso e prevaricazione.

 

 

È su questo terreno che negli ultimi tempi hanno potuto smantellare definitivamente e senza sforzo lo Stato di diritto, con tutti i suoi ammennicoli. E sarà impossibile riesumarne il cadavere: lo Stato di diritto appare infatti come un modello ormai sfibrato ed esaurito.

 

 

Insieme allo Stato di diritto, viene meno anche la fictio dei diritti umani, altra conquista dello Stato moderno.

 

 

I diritti c.d. innati, poi ribattezzati umani, sono entrati in scena quando particolari contingenze storiche hanno suggerito l’utilità di assicurare una specifica tutela al suddito nei confronti del potere sovrano, conferendo veste giuridica, anche nominale, a valori ritenuti fondamentali perché appartenenti all’uomo in quanto tale. Ma i c.d. diritti umani restano una emanazione (id est: una elargizione) del sovrano, che può toglierne o annetterne a piacimento alla lista. La loro apparente e originaria consonanza con i principi della legge naturale ha creato l’utile equivoco della loro sovrapponibilità a quest’ultima.

 

La libertà senza limiti coincide infatti con la subalternità più totale, perché interiorizzata, perché inconsapevole e dunque consenziente. Non per nulla oggi, dietro l’emancipazione di facciata, domina l’obbedienza cadaverica a ogni genere di sopruso e prevaricazione

 

 

In realtà, sono diritto positivo e, quando salta il patto sociale, cioè la tendenziale convergenza della legge scritta con la legge non scritta, diventano un grimaldello privilegiato perché, dietro una etichetta inattaccabile, scardinano proprio quella legge naturale sulla cui scia si erano trionfalmente aperti la strada conquistando referenze invincibili.

 

 

Torniamo dunque alla libertà. La libertà, che appartiene all’uomo e che, come abbiamo detto, precede il diritto, non ha più ragion d’essere quando l’uomo non è più uomo, ma è ridotto ad automa mercificato, animale globale, robot antropomorfo, codice informatico. A questa nuova entità non si addice la libertà, per essa tutto ruota intorno alla categoria del controllo, che è l’antitesi della libertà e le cui funzioni vengono appaltate alla macchina. Alla fine, infatti, proprio la macchina è chiamata a prendere il sopravvento sull’uomo, prima ibridandolo, poi telepilotandolo, infine sostituendolo.

 

 

Insomma, il tempo della libertà codificata e dei diritti c.d. umani codificati è giunto al capolinea perché l’obiettivo dello Stato, e del Superstato a cui lo Stato risponde, è quello di cancellare l’uomo al quale la libertà è connaturata. Cancellazione che avviene sia brutalmente attraverso il sacrificio umano, sia attraverso lo snaturamento dell’uomo, via via trasformato in qualcosa di ontologicamente altro da sé, in un cyborg senza senz’anima e senza sentimenti, in un OGM, e comunque in una merce come un’altra, inserita all’interno di una filiera produttiva che risponde alle dinamiche del mercato e alla logica del profitto, in balìa delle industrie biotecnologiche e delle multinazionali del farmaco.

 

 

Come un dispositivo elettronico qualsiasi, dovrà scaricare, a scadenze comandate, gli aggiornamenti implementati dalla casa madre, altrimenti questa gli blocca il funzionamento: la seconda, la terza, la quarta, la ennesima dose, non sono altro che l’ennesimo aggiornamento farmaco-genetico.

 

 

Ecco quindi che al post-umano, che è trans-umano e intrinsecamente dis-umano, servono altre categorie di riferimento.

 

 

Non c’è posto per la libertà laddove l’uomo non è più creatura, ma è manufatto ingegnerizzato. Non c’è più spazio per l’empatia, per la pietas, per la ragione, per la parola: il cinismo cui abbiamo assistito con orrore verso la sofferenza e la malattia, la perversione verso i più piccoli e indifesi, il disprezzo per la morte e il suo mistero, l’abdicazione violenta a tutti quei riti, fisici e carnali, che da sempre hanno connotato la civiltà umana, tutto questo segna indiscutibilmente la sua fine definitiva e l’avvento del mondo nuovo sterilizzato, informatizzato, snaturalizzato.

 

Non c’è più nulla di umano in una società che prescrive e istituzionalizza la fabbrica della vita negli alambicchi di laboratorio, la sua conservazione nei congelatori, la manomissione del codice genetico, la produzione seriale di ibridi e chimere, l’eugenetica e l’eutanasia, e ancora la morte in solitudine, la distruzione dei corpi, il divieto del culto ai propri defunti

 

 

Non c’è più nulla di umano in una società che prescrive e istituzionalizza la fabbrica della vita negli alambicchi di laboratorio, la sua conservazione nei congelatori, la manomissione del codice genetico, la produzione seriale di ibridi e chimere, l’eugenetica e l’eutanasia, e ancora la morte in solitudine, la distruzione dei corpi, il divieto del culto ai propri defunti.

 

Non c’è più nulla di umano in una società che, a colpi di decreti, pretende di manipolare e sacrificare i suoi figli.

 

 

Dunque, non ha più senso agitarsi per cercare di ripristinare, erga omnes, un assetto politico e giuridico che è già spazzato via da forze ben più grandi di noi. La libertà non è più di questo mondo qui, semplicemente perché la libertà è prerogativa dell’uomo, e questo mondo non vuole più essere umano.

 

 

La libertà deve essere recuperata altrove, al di fuori della struttura sociale e istituzionale dentro la quale eravamo abituati a considerarla incapsulata, tanto da ritenerla pacifica, scontata e definitivamente al sicuro. Deve essere innanzitutto ritrovata nel suo significato più profondo e vero. Deve essere poi custodita e coltivata, con rinnovata cura, da coloro che desiderino ostinatamente rimanere uomini, e che proprio per questo, incompatibili con un sistema irreversibilmente corrotto perché disumanizzato e disumanizzante, saranno segregati e perseguitati.

 

 

Diario Clandestino è l’opera di Giovannino Guareschi sull’esperienza della prigionia vissuta in Polonia tra il 1943 e il 1945. Dedicata «ai miei compagni che non tornarono».

 

 

Guareschi racconta una storia «dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie, ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso».

 

 

Tra le pagine, scritte nel lager e per il lager, in quanto lette passando di baracca in baracca per regalare un sorriso o un motivo di riflessione, una distrazione, un conforto, ai suoi compagni di sventura, quella che segue racchiude il cuore di questo libro.

 

Qualcuno diceva che è la verità che ci rende liberi. Di certo non ci rende liberi l’ubriacatura degli istinti, che azzera le facoltà mentali e ci riduce a terra di facile conquista da parte di chi ci vuole schiavi obbedienti, uguali, invertebrati

 

 

«Mi volsi e vidi che ero uscito da me stesso, mi ero sfilato dal mio involucro di carne. Ero libero. Vidi l’altro me stesso allontanarsi, e con lui si allontanavano tutti i miei affetti, e di essi mi rimaneva solo l’essenza (…). Ritroverò l’altro me stesso? Mi aspetta forse fuori del reticolato per riprendermi ancora? Ritornerò laggiù oppresso sempre dal mio involucro di carne e di abitudini? Buon Dio, se dev’essere così, prolunga all’infinito la mia prigionia. Non togliermi la mia libertà».

 

 

Guareschi ci dimostra come sia possibile essere liberi anche all’interno di un campo di prigionia, perché la radice della libertà non sta nel poter fare quello che si vuole, ma nell’avere fiducia in qualcosa di più grande di noi, che ci sovrasta e ci resiste, perché è stabile e vero.

 

 

Solo in questo modo è possibile che un prigioniero privato di tutto, invece che inveire contro il proprio aguzzino, sia felice di ritrovare se stesso e, con se stesso, gli altri che condividono con lui un’esperienza tanto estrema da ricondurre all’essenziale. Infatti, una volta rimasto solo «con le cose che aveva dentro», egli trova l’occasione per scavare a fondo, fino incontrare la sua anima. Questa, una volta liberata, è capace di volare alta anche sopra i reticolati (che non sono necessariamente quelli fatti di filo spinato).

 

 

Qualcuno diceva che è la verità che ci rende liberi. Di certo non ci rende liberi l’ubriacatura degli istinti, che azzera le facoltà mentali e ci riduce a terra di facile conquista da parte di chi ci vuole schiavi obbedienti, uguali, invertebrati.

 

 

C’è qualcosa, insomma, che fa parte di noi e che nessuno potrà mai aggredire o portarci via. Qualcosa le cui frequenze risuonano in altri che, invece di accomodarsi nella confortevole poltrona allestita dalla propaganda, fanno lo sforzo di mettersi a cercare la verità delle cose.

 

 

In questo fecondo incontro di anime libere che si riconoscono e si ritrovano – ed è un fenomeno ormai tanto reale e palpabile, quanto temuto – si annida il germe della rinascita, che deve indurci oggi a sperare contro ogni speranza.

 

 

Da quel seme – che tutti noi, consci di ciò che sta davvero accadendo, abbiamo il dovere morale di conservare integro, ad ogni costo – si potrà pian piano cominciare a ricostruire sulle macerie del diritto, della logica, del buon senso, delle più elementari leggi del buon governo.

 

Ci serve più che mai una «generazione fertile, perché dovrà ripopolare la storia di uomini e non di macchine»

 

 

Per fare questo, servono ora coesione, responsabilità, determinazione e coraggio; servono la pazienza e l’umiltà necessarie per rimettere insieme i frammenti di un patrimonio dissipato e prezioso, quello che ai Cingolani e ai Bianchi preme distruggere in fretta, perché non ne sono all’altezza; serve recuperare la forza del pensiero e della parola, sconosciuta anch’essa ai Cingolani, ai Draghi e a quanti come loro sragionano e straparlano, travolti dal proprio delirio di onnipotenza.

 

 

Soprattutto, serve una nuova generazione consapevole dello stato delle cose e del suo perché, capace di decifrare e interpretare i fatti e i loro nessi causali: una generazione forte, pronta a sacrificare tanto di ciò che si dava ormai per acquisito, in previsione però di un traguardo enormemente più grande; come hanno scritto proprio questi studenti di Roma, ci serve più che mai una «generazione fertile, perché dovrà ripopolare la storia di uomini e non di macchine».

 

 

E allora sì dobbiamo essere certi che, nonostante la sproporzione delle forze in campo, con l’aiuto della Provvidenza torneremo a riveder le stelle.

 

 

Elisabetta Frezza

 

 

Articolo previamente pubblicato sul sito dell’autrice.

 

 

 

Immagine di ptitvinc via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-ND 3.0)

Civiltà

Gli Stati Uniti mettono in guardia l’Europa dalla «cancellazione della civiltà»

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L’Europa rischia la «cancellazione della civiltà», in quanto i leader del continente promuovono la censura, soffocano le voci dissidenti e ignorano gli effetti dell’immigrazione incontrollata, avverte la nuova Strategia per la sicurezza nazionale diffusa dall’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump.

 

Il testo, dal tono aspro e innovativo, reso pubblico venerdì, rileva che, sebbene l’Unione Europea mostri chiari segnali di stagnazione economica, è il suo deterioramento culturale e politico a costituire una minaccia ben più grave.

 

La strategia denuncia le scelte migratorie dell’UE, la repressione dell’opposizione, i vincoli alla libertà di espressione, il crollo della natalità e la «perdita di identità nazionali e di autostima», ammonendo che il Vecchio Continente potrebbe risultare «irriconoscibile entro 20 anni o anche meno».

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Secondo il documento, numerosi governi europei stanno «intensificando i loro sforzi lungo la traiettoria attuale», mentre Washington auspica che l’Europa «rimanga europea» e si liberi dal «soffocamento regolatorio», un’allusione evidente alle tensioni transatlantiche sulle norme digitali dell’UE, accusate di penalizzare colossi tech americani come Microsoft, Google e Meta.

 

Tra le priorità degli Stati Uniti figura il «coltivare la resistenza alla traiettoria odierna dell’Europa all’interno delle nazioni europee», precisa il testo.

 

La strategia trumpiana esalta inoltre l’emergere dei «partiti patriottici europei» come fonte di «grande ottimismo», alludendo al boom di consensi per le formazioni euroscettiche di destra che invocano restrizioni ferree ai flussi migratori in tutto il blocco.

 

Il documento sentenzia che «l’era delle migrazioni di massa è conclusa». Sostiene che questi flussi massicci abbiano prosciugato le risorse, alimentato la criminalità e minato la coesione sociale, con l’obiettivo americano di un ordine globale in cui gli Stati sovrani «collaborino per bloccare anziché solo gestire» i movimenti migratori.

 

Tale posizione si inserisce nel contesto delle spinte di Trump affinché i partner europei della NATO incrementino le spese per la difesa. In passato, il presidente aveva ventilato di non tutelare i «paesi inadempienti» in caso di aggressioni, qualora non avessero accolto le sue istanze. Durante un summit europeo all’inizio dell’anno, l’alleanza ha approvato un piano per elevare la spesa complessiva in difesa fino al 5% del PIL, superando di gran lunga la soglia del 2% a lungo stabilita dalla NATO.

 

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Civiltà

Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica

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Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.   Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.   Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.

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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.   Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.   Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.   Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.   Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.   O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.   Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.   Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.   Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».   Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.

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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.   Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.   Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.   Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.   Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.   Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.   la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.   La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.   Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.   Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.   Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.   Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.

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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.   Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.   Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.   Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».   E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.   Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.   Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.   Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.

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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.   Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.   Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.   Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.   Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.   Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.   Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.   Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.   Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.   Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.   Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.   Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».   Patrizia Fermani

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Civiltà

Chiediamo l’abolizione degli assessorati al traffico

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Renovatio 21 propone una soluzione apparentemente drastica, ma invero assai realistica, ad uno dei problemi che affligge l’uomo moderno: il traffico.

 

Non si parla di una questione da niente, e ci rendiamo conto che essa pertiene propriamente alla catastrofe del mondo odierno, e proprio per questo serve una modifica radicale di carattere, soprattutto, istituzionale.

 

Lo aveva capito il genio di Marshall McLuhan: «La strada è la fase comica dell’era meccanica (…) Il traffico è l’aspetto comico della città» (Gli Strumenti del comunicare, 1964). Il culmine comico dell’era dell’industria: la civiltà costruisce strade ed automobili per muoversi in libertà e rapidità, e si ritrova imbottigliata per ore, innervosita, massacrata da miriadi di leggi, restrizioni, multe.

 

Il traffico è un fenomeno generatore di caos e dolore, di isterie e sprechi – il tutto subito sulla nostra pelle, ogni singolo giorno – al quale nessuno sembra trovare soluzione, soprattutto quanti sarebbero preposti a risolverlo. Costoro sembrano invece, consapevoli o no, impegnati nell’aggravarsi del dramma.

 

Davanti a noi abbiamo la degradazione continua, inarrestabile della mobilità urbana. È difficile trovare qualcuno che possa dire che il traffico è migliorato, o che una soluzione azzeccata adottata su una qualche strada non sia stata poi azzerata da una scelta successiva, calata, come tutte, dall’alto, sul cittadino schiavo inerme.

 

Crediamo che uno dei motivi di tale regressione diacronica ed ubiqua sua l’esistenza dei cosiddetti assessorati al traffico, che si chiamano in vari modi (uffici mobilità, dipartimento dei trasporti, direzione viabilità), ma che sono tutti costruiti attorno ad uno assunto semplice: spendere un determinato budget per cambiare le strade.

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Probabilmente la questione è davvero così semplice: nell’impossibilità di non spendere l’ammontare di danaro assegnato (grande tabù per qualsiasi ente pubblico: i soldi che risparmi non generano un premio, ma una diminuzione della cifra che arriva l’anno dopo) gli assessori e i loro scherani non possono che mettere mano ovunque, con decisioni a volte incomprensibili, a volte ideologiche, e quasi sempre dannosissime.

 

Ecco che, perché l’assessorato deve fare qualcosa, invertono un senso unico, cagionando il disorientamento totale del cittadino automunito, che d’un tratto si trova non solo multato, ma anche al centro di un pericolo per sé e per gli altri. Ricordiamo le tecniche dei missionari: cambiare la forma del villaggio è aprire la mente dell’indigeno all’altro, qui tuttavia non c’è il Vangelo a dover essere diffuso, ma il nulla di una decisione burocratica stupida e gratuita – gratuita per modo di dire, perché anche per un’inezia del genere vi è un costo non indifferente per il contribuente.

 

Ecco che, perché l’assessore deve finire sui giornali, l’area viene pedonalizzata: ZTL laddove prima potevi passare per portare i figli a scuola o fermarti nel negozietto (che ne patirà, ovvio, le conseguenze). Sempre considerando che le ZTL sono da vedersi come riserve indiane degli elettori dei partiti di sinistra, gli unici che possono permettersi di vivere in centro.

 

Ecco che, perché l’assessore deve far carriere nel partitello con le fisime ecologiche, laddove c’erano due corsie ce ne troviamo una sola, con una, perennemente vuota, riservata ad autobus che fuori dalle ore di scuola sono oramai solo utilizzati da immigrati che con grande probabilità non pagano il biglietto e in caso potrebbero pure picchiare il controllore (succede, lo sapete). Il risultato è, giocoforza, un imbottigliamento ancora più ferale, un’eterogenesi dei fini per politica ecofascista che è, in ultima analisi, solo una mossa di PR inutile quanto oscena.

 

Ecco la sparizione di parcheggi gratuiti – grande segno della fine della Civiltà – così da scoraggiare, come da comandamento di Aurelio Peccei, l’uso dell’auto che produce anidride carbonica, orrenda sostanza per qualche ragione alla base della chimica organica e quindi della vita stessa, soprattutto quella umana. Chi va all’Estero – non in Giappone, ma in un Paese limitrofo come l’Austria – sogna vedendo la quantità di parcheggi sotterranei creati attorno alle cittadine, senza tanti problemi per gli scavi al punto che, con recente politica, il rampollo Porsche si è fatto il suo tunnel che lo porta da casa al centro di Salisburgo in un batter d’occhio.

 

Il superamento del traffico attraverso la dimensione infera è stato compreso, con la solita mistura di genio e concretezza, da Elon Musk con la sua Boring Company: se vuoi migliorare la tragedia del traffico l’unico modo di farlo è andando verso il basso, anche se sembrerebbe che il prossimo misterioso modello di Tesla, la Roadster, potrebbe poter operare verso l’alto. Noi, tuttavia, non abbiamo Elone, abbiamo gli assessori al traffico.

 

E poi, i capolavori – sempre trainati da ideologia verde, interessi cinesi impliciti e tagli di nastro sul giornale – della «micromobilità», con i monopattini e le bici «free-floating» rovinate, abbandonate e utilizzate, in larghissima parte, dalle masse di eleganti africani, che magari con esse si spostano con più agilità per certe loro attività, come lo spaccio di droga: massì, vuoi non pagargli, oltre che vitto-alloggio-acqua-gas elettricità-internet-telefonino-avvocato-sanità-bei vestiti alla moda anche dei mezzi di trasporto con cui, appunto, possono evitare il traffico? Tipo: un inseguimento di una gazzella della Polizia nel traffico contro un criminale in monopattino, come finisce? L’eterogenesi dei fini qui non è nemmeno comica, è tragicomica, o tragica e basta.

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Potremmo continuare con la lista. Laddove c’era una rotonda che funzionava meglio di un semaforo (ogni tanto, qualcuna la devono azzeccare, ma non dura) ecco che te la cancellano e ci mettono cordoli, fiori, pianticelle, magari perfino un monumento orrendo o una fontana lercia.

 

Laddove c’era una strada larga, eccotela divorata da un nuovo mega-marciapiede che non usa nessuno, se non i ciclofascisti zeloti, i quali tuttavia divengono presto vittime della follia viabilitaria, con sensi unici e corsie di trenta centimentri anche per i velocipedi.

 

Laddove c’era una strada dritta che in 50-100 metri ti portava allo snodo, loro, per farti arrivare al medesimo punto, ti costruiscono una deviazione di mezzo chilometro che ti manda sotto un supermercato, un tribunale, una palestra, una pizzeria, appartamenti di lusso e uffici pubblici – insomma un bel progetto di complessone che qualcuno deve aver costruito e in qualche modo venduto, con tutti incuranti del fatto che se all’esame di urbanistica all’Università proponevi una cosa del genere venivi bocciato seduta stante.

 

Laddove devono costruire una tangenziale, magari con decenni di ritardo, ti rendi conto che si dimenticano di fare le uscite nei comuni che attraversa e ci fanno l’immissione con uno stop invece di una corsia di accelerazione, con il risultato che entri a 0 km/h in una strada dove da sinistra ti arriva uno che viaggia ufficialmente a 70-90 km/h, che poi divengono sempre 100-120 km/h se non, nel caso del tizio con l’Audi in leasing, cinque vaccini e chissà cos’altro in corpo, perfino di più.

 

E non parliamo dei casi di corruzione che saltano fuori in quegli uffici – dove ci sono appalti, ci sono mazzette, uno pensa. Ma non è nemmeno questo il punto: nel disastro, gli effetti della malizia possono essere indistinguibili da quelli dell’ebetudine conclamata dei soggetti e del sistema.

 

È difficile, davvero, trovare qualcosa di positivo in quello che fanno quanti sono politicamente preposti al miglioramento della mobilità – cioè dell’esistenza – dei cittadini. Il motivo, lo ripetiamo, è strutturale: gli assessorati sono macchine strutturate per modificare, cioè complicare, le cose. In pratica, sono l’essenza stessa della burocrazia, con effetti fisici però immediati e devastanti.

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La soluzione a tutto questo potrebbe essere davvero facile-facile: abolizione completa degli assessorati al traffico. Con essa, si perderebbe l’incentivo strutturale a cambiare sempre e comunque tutto, e a valutare con più responsabilità le innovazioni.

 

Immaginiamo che se la viabilità fosse fra le mansioni dirette del sindaco, cioè se la responsabilità fosse la sua, le decisioni sulla mobilità sarebbero più dosate e sensate, perché esposte al popolo con il quale il primo cittadino ha certo un rapporto più diretto, nonché mediato dal voto, passato e soprattutto futuro.

 

È una proposta che non sappiamo se sia già stata fatta. Certo si possono valutare cose anche più radicali: come la punizione per quanti complicano e distruggono la viabilità delle nostre città. Lo sappiamo, è la mancanza di castigo che crea aberrazioni ed orrori, con la devastazione di tanta parte d’Italia dovuta a questo principio di irresponsabilità della casta politico-burocratica.

 

La realtà è che, per ottenere qualcosa, il cittadino sincero-democratico automunito deve arrabbiarsi molto di più. Non basta ringhiare al bar, o imprecare dentro l’abitacolo, magari pure, a certe latitudini, suonando il clacsone. Non serve alimentare un sistema che, alla fine, continua a produrre assessori al traffico, e traffico.

 

No, serve davvero di più. Perché l’auto è davvero un mezzo di libertà, e aggiungiamo, di vita – l’auto è uno strumento della famiglia. Chi vuole togliervela – come quelli di Davos, le cui idee percolano poi giù giù fino al vostro assessorino – odia la vita, odia voi e i vostri figli.

 

Chiedere l’abolizione degli assessorati al traffico ci sembra il minimo che possiamo fare se vogliamo sul serio lottare per la Civiltà.

 

Roberto Dal Bosco

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