Giunti al punto in cui siamo giunti, qualsiasi discorso che cerchi di fornire una lettura ragionata dei fatti può sembrare vano e inconcludente.
Civiltà
Siamo tecnicamente tutti detenuti

Renovatio 21 pubblica il testo dell’intervento di Elisabetta Frezza al convegno Sapiens^3. Superare un’antropologia disumana, Roma, 4 dicembre 2021.
Là fuori, infatti, c’è un tran tran che continua imperterrito, in apparenza sempre uguale a se stesso, e ha però i connotati di una parodia: viaggia su un piano parallelo, «sterilizzato», e ormai svuotato di ogni verità.
E noi siamo le comparse involontarie di questo teatro dell’assurdo. Per cui vien da pensare che sia proprio l’assurdo l’unica chiave per leggere infallibilmente la realtà delle cose.
Siamo condannati senza giudizio al 41 bis o, in alternativa, se muniti di tessera tecnosanitaria, alla libertà vigilata: in ogni caso, soggetti a un regime penitenziario più o meno rigido, ma siamo tecnicamente tutti dei detenuti
Basti pensare che siamo condannati senza giudizio (o con giudizio sommario, che non contempla l’esercizio del diritto di difesa) al 41 bis o, in alternativa, se muniti di tessera tecnosanitaria, alla libertà vigilata (comunque a scadenza fino a successivo rinnovo): in ogni caso, soggetti a un regime penitenziario più o meno rigido, ma siamo tecnicamente tutti dei detenuti.
Molti vengono privati addirittura del lavoro, dello studio, cioè dei mezzi di sostentamento fisico e intellettuale. E tutto sulla base di una premessa indimostrata, semplicemente perché indimostrabile.
Forse il senso di continuare ad analizzare e interpretare i fatti sta nella necessità di capire come e perché bisogna ostinatamente resistere, senza farsi inghiottire dal film – un po’ come avviene nella Rosa Purpurea del Cairo – ma di seguirne la trama con uno sguardo disincantato, il più possibile lucido, anche per disporre degli argomenti utili per sottrarre qualcun altro a un micidiale meccanismo di immedesimazione. È difficile, è logorante, perché sappiamo bene che dentro quel film non si spara a salve, ma si giocano davvero le nostre vite e, soprattutto, le vite dei nostri figli.
Fatta questa premessa, proverò ora a mettere insieme qualche riflessione sparsa, ben conscia della mia inadeguatezza a trattare di un tema, come quello della libertà, così sterminato da dare le vertigini.
La libertà è materia impastata con l’uomo, ha a che fare con la sua creaturalità e con la sua natura di essere razionale.
Fin dalle origini del pensiero, da quando, agli albori della nostra civiltà, l’uomo ha cominciato a interrogarsi su se stesso – sulle costanti e le varianti della sua natura – e sulla realtà che lo circonda, il tema della libertà è stato al centro di una speculazione – filosofica, teologica, etica e politica – mai interrotta.
La libertà appartiene all’uomo: nelle sue estrinsecazioni fondamentali – libertà personale, di pensiero e di manifestazione del pensiero, di religione, di circolazione, di associazione e di riunione, eccetera – è poi entrata nel diritto (in particolare, in età moderna, nelle Costituzioni degli Stati di diritto) essendone un antecedente; è, cioè, un a-priori della legge: fenomeno pregiuridico
La libertà appartiene all’uomo: nelle sue estrinsecazioni fondamentali – libertà personale, di pensiero e di manifestazione del pensiero, di religione, di circolazione, di associazione e di riunione, eccetera – è poi entrata nel diritto (in particolare, in età moderna, nelle Costituzioni degli Stati di diritto) essendone un antecedente; è, cioè, un a-priori della legge: fenomeno pregiuridico che il diritto positivo (lo ius positum) non fonda ex novo, ma deve semplicemente riconoscere, e quindi tutelare, anche e soprattutto contro l’arbitrio, sempre in agguato, del potere costituito.
In un ordinamento che si definisca democratico, una eventuale e per forza di cose circoscritta limitazione di questa sfera essenziale di libertà non può prescindere dalla presenza di presupposti di fatto certi, verificati e dimostrati, che la giustifichino e, in ogni caso, da uno scrupoloso bilanciamento tra esigenze e interessi concorrenti.
Sta di fatto che lo Stato di diritto è chiamato a proteggere i suoi cittadini anche da se stesso, ossia contro le proprie derive autoritarie, ogniqualvolta si affacci la tentazione di travalicare gli argini che presidiano quel nucleo inscalfibile e irriducibile che si può distillare nel concetto (atecnico, ma pregnante) di «dignità» umana.
La divisione dei poteri, l’indipendenza e il reciproco controllo tra gli organi che li impersonano, serve a rendere effettivo questo presidio e ad evitare degenerazioni liberticide.
È evidente che il diritto, lo ius – che non per nulla condivide la sua radice etimologica con quella della iustitia – deve avere un fondamento che lo trascende: un fondamento sostanziale solido e non fluttuante secondo gli estri di maggioranze estemporanee. Se così non fosse, si manifesterebbe nel mero uso della forza di cui il sovrano dispone per rendere effettivo il proprio potere.
Il buon funzionamento di qualsivoglia sistema normativo contingente dipende cioè dalla sua adesione a un riferimento esterno ad esso, un riferimento oggettivo e superiore, fatto di un novero di principi fondamentali che afferisce alla natura immutabile dell’uomo e che, proprio per questo, può e deve orientare e limitare l’esercizio del potere sovrano.
Del resto, che al di sopra della volontà del sovrano insista un modello superiore di giustizia, era chiaro già agli antichi: lo sapeva re Salomone quando invocava la grazia di essere un legislatore giusto; lo gridava Antigone quando disobbediva all’editto di Creonte per dare sepoltura al fratello Polinice, a costo della propria vita.
La produzione di norme sganciate da un criterio oggettivo di valore non può, viceversa, che generare mostri.
Ecco per esempio che, con decreto imperiale, Caligola insignì il proprio cavallo del titolo di senatore.
Ecco che il partito nazionalsocialista, a Norimberga, nel 1935, in occasione del «raduno della libertà» promulgò le leggi razziali.
In un ordinamento che si definisca democratico, una eventuale e per forza di cose circoscritta limitazione di questa sfera essenziale di libertà non può prescindere dalla presenza di presupposti di fatto certi, verificati e dimostrati, che la giustifichino e, in ogni caso, da uno scrupoloso bilanciamento tra esigenze e interessi concorrenti
Ecco che con raffiche di DPCM (fonte peraltro inventata per l’occasione, inesistente in rerum natura), di decreti-legge, e poi, a cascata, di circolari, ordinanze, protocolli e altra paccottiglia palesemente illegittima (in quanto sconta appunto un vizio di origine), i nuovi despoti grandi e piccini, centrali e periferici, tutti servi di altri padroni, praticano senza freni e in modo continuato, in danno dei cittadini, l’abuso legalizzato (e ormai normalizzato) del diritto, fingendosi tuttora al riparo di un ordinamento costituzionale che, di fatto, è stato proditoriamente sbaraccato. Ma che viene tenuto lì, esposto alla vista dei sudditi, come una mummia, come un’insegna luminosa appesa sulla facciata pericolante di un rudere diroccato.
Maestranze ottuse o ottusamente conniventi, al guinzaglio di avventurieri senza scrupoli, se ne stanno infrattate nei gangli delle burocrazie, a riprodurre in serie schemi e procedure del sistema cosiddetto democratico – inscenano i suoi riti – per instaurare un sostanziale assolutismo.
Non è un caso che la ripartizione dei poteri, di cui dicevamo poc’anzi – teorizzata a garanzia di un equilibrio necessario per salvaguardare le libertà – oggi sia appannata, se non del tutto dissolta, perché il potere, oggi, fa capo a un’unica centrale operativa, tecnocratica, occupata stabilmente sempre dalle stesse pedine, fluttuanti tra Quirinale, Consulta, Palazzo Chigi, Magistrature superiori. Mentre il Parlamento, l’organo rappresentativo, è disattivato.
Costoro eseguono i diktat che sono formulati in sede extra e sovranazionale da organismi opachi, senza volto e senza responsabilità, e che sono diramati da altri groppuscoli tecnico-scientifici dai molti nomi, apparecchiati nelle retrovie istituzionali per fare da ripetitore e da cinghia di trasmissione di quei diktat, contestualmente esautorando la politica; o meglio, ciò che resta di una politica da tempo ostaggio di personaggi per lo più privi del senso stesso del mestiere che, per grazia ricevuta, si trovano a praticare.
È una anomalia politica quella che avvolge e sconvolge il nostro presente, individuale e collettivo, facendoci affondare nelle sabbie mobili del caos mentre un potere sadico e vorace demolisce tutt’intorno, giorno dopo giorno, le regole scritte e non scritte del vivere civile, della ragione, della stessa religione
È una anomalia politica quella che avvolge e sconvolge il nostro presente, individuale e collettivo, facendoci affondare nelle sabbie mobili del caos mentre un potere sadico e vorace demolisce tutt’intorno, giorno dopo giorno, le regole scritte e non scritte del vivere civile, della ragione, della stessa religione.
Il paradosso è che lo strapotere che veste i panni liberal democratici, in questa vorticosa giostra di artifizi e raggiri, riesce nell’incantesimo di inglobare i sudditi nel proprio stesso corpo, di farli parte integrante di sé dopo averli ipnotizzati e plasmati in funzione del proprio perpetuarsi. Lo fa attraverso la torsione delle parole e lo sgretolamento dei concetti, riempiendo le une e gli altri di contenuti cangianti, strumentali ai propri obiettivi.
In tal modo gli stessi sudditi, adeguatamente addomesticati, da antagonisti genetici del potere si trasformano nel suo corpo di guardia: diventano insomma i pretoriani pronti a reprimere, e potenzialmente sopprimere, i propri simili non allineati.
Fatte salve le poche e luminose eccezioni che ormai tutti conosciamo e che ancor più brillano nella eclissi totale delle idee e delle parole sensate, ciò che più colpisce, in questa grottesca sceneggiata infarcita e ricoperta da strati di menzogna, è l’afasia di quanti dovrebbero gridare per primi alla nudità del re – soprattutto giuristi, legulei, magistrati e giusfilosofi, o sedicenti intellettuali, tutti ovviamente democraticissimi. Costoro fino a ieri pomposamente predicavano quanto oggi vedono impunemente calpestato sotto i loro occhi, e tacciono con ignominia di fronte alla normalizzazione dell’incertezza del diritto e del suo sistematico sfregio.
In effetti viene da domandarsi cosa mai si insegni, oggi, nelle lezioni di diritto costituzionale in Università.
Si tengono ancora, nelle aule delle facoltà di giurisprudenza, i corsi di diritto costituzionale? Se sì, con quale coraggio? Lo chiedo con sincera curiosità, da allieva, in un tempo ormai lontano, di un docente che fu anche presidente di Corte Costituzionale e che raccontava tutt’altra storia di quei 139 articoli e 18 disposizioni transitorie tuttora formalmente vigenti. Norme che, tanto più in quanto apicali nella gerarchia delle fonti, dovrebbero preservare il loro significato e la loro ratio al di là della prevalenza estemporanea dell’uno o dell’altro flusso di potere, o della linea bassamente politica del momento al cui servizio vengono invece piegate, come un ferro caldo.
In compenso, questo vuoto pneumatico e questo silenzio tombale da parte degli interpreti naturali del diritto sono stati riempiti dallo starnazzo perpetuo dei piazzisti televisivi variamente qualificati i quali, anch’essi a libro paga dei tenutari di un’agenda inflessibile nella sua mostruosità, si prestano a ruminare le battute farsesche e volgari di un copione fantascientifico e fantasanitario che, scritto da qualche sceneggiatore psicopatico, è calato sulle vite di tutti, dei volenti e dei nolenti.
A sentire Monti, nel suo recente invito a scoprire le carte, dovrebbero essere questi fenomeni pappagalleschi ad aggiudicarsi l’esclusiva dell’informazione, in regime di monopolio. «I potere è nostro e guai a chi ce lo tocca», insomma, senza più tanti giri di parole.
La «prevalenza» dell’interesse collettivo è il nuovo totem al quale sacrificare i diritti fondamentali dell’individuo: l’interesse collettivo si impone oggi come concetto di ordine quantitativo, avulso dallo sforzo di un giudizio di valore che investirebbe invece quel piano del dover essere su cui per definizione si muove il diritto, con le sue norme
I nuovi pensatori e le nuove pensatrici sono quelli che, al suono della parola libertà, partono in quarta a intonare i ritornelli di repertorio, il più famoso (e idiota) dei quali suona: «la tua libertà finisce dove comincia quella degli altri».
Un giochetto di parole che, per la sua orecchiabilità, piace tanto sia ai guitti sia all’uditorio belante. Nessuno di essi però – essendo tutti in vacanza cerebrale di gruppo per motivi di salute pubblica – è in grado di fare una analisi del testo e di domandarsi se la filastrocca, al di là del bel suono, voglia effettivamente dire qualcosa.
Basterebbe chiedersi: chi ha titolo per tracciare questo confine tra la mia libertà e quella altrui? Con quale criterio verrebbe definito il discrimine? Con quale metro si misura lo spazio rispettivo? Chi sarebbero gli “altri” la cui libertà per definizione limiterebbe la mia?
Tanto per cominciare, gli altri sono una sommatoria di enne individui, che quindi, in virtù del mero fattore numerico, appaiono ictu oculi prevalenti sul singolo, grazie alla mistica de «la maggioranza vince» e all’onnipresente equivoco democratico.
La «prevalenza» dell’interesse collettivo è il nuovo totem al quale sacrificare i diritti fondamentali dell’individuo: l’interesse collettivo si impone oggi come concetto di ordine quantitativo, avulso dallo sforzo di un giudizio di valore che investirebbe invece quel piano del dover essere su cui per definizione si muove il diritto, con le sue norme – che sono, per definizione, generali e astratte, e anche tendenzialmente stabili e dunque certe.
La collettività non è altro che la massa inerte a trazione mediatica nel cui nome la sedicente autorità – cioè chi detiene il potere e dispone dell’uso della forza – si appropria del titolo per diventare onnipotente e disfarsi dell’intralcio di minoranze disfunzionali alla realizzazione del proprio programma
Di fatto quindi, la collettività non è altro che la massa inerte a trazione mediatica nel cui nome la sedicente autorità – cioè chi detiene il potere e dispone dell’uso della forza – si appropria del titolo per diventare onnipotente e disfarsi dell’intralcio di minoranze disfunzionali alla realizzazione del proprio programma: e così, per esempio, può impossessarsi del mio corpo contro la mia volontà e la mia salute, può irrompere nello spazio sacro e inviolabile della mia sovranità famigliare e biologica, e ghermire i miei figli contro la mia volontà e la loro salute.
Allora, per tornare alla formuletta ebete e tralatizia sulla libertà mia e altrui, il confine tra le due, e il criterio per tracciarlo – vista la assoluta relatività dei concetti in gioco, evidentemente non oggettivizzabili – alla fine non possono essere che quelli decisi discrezionalmente dal dominus di turno, in funzione degli obiettivi prescelti.
A margine, notiamo come tra i pensatori e le pensatrici del nuovo corso diversamente democratico, pronti a invocare la tortura e l’apartheid per i refrattari alla sperimentazione di massa, spiccano quelli che fino a ieri abitavano un luogo chiamato Casa delle libertà: oggi, inebriati dal vento igienista e rigorista che soffia fuori, brandiscono baldanzosi il nuovo manganello che gli è stato dato in dotazione.
… Straordinario paradigma della involuzione dell’ominide neolibertario, destinato per vocazione a ricoprire lo status del più servile strumento nelle mani del tiranno
Loro non lo sanno, ma la parabola che li vede protagonisti rappresenta uno straordinario paradigma della involuzione dell’ominide neolibertario, destinato per vocazione a ricoprire lo status del più servile strumento nelle mani del tiranno.
Ma cos’ha potuto farci precipitare tanto in basso e con tanta stupefacente velocità?
La recente accelerazione ha attecchito su un terreno già reso fertile dalla progressiva inesorabile demolizione delle strutture portanti di una civiltà in seno alla quale erano stati elaborati i sistemi concettuali e le forme di pensiero capaci tanto di ordinare e regolare il vivere comune, quanto di rispondere alle esigenze spirituali profonde dell’uomo di ogni tempo; in seno a questa civiltà erano fioriti la filosofia, l’arte, il diritto e la politica, l’etica e l’estetica, la poesia e la letteratura, la scienza e l’economia, e la fede cristiana: tutto quel patrimonio di bellezza e di senso che ha innervato nei secoli il tessuto sociale della nostra terra, e che l’onda montante della demenza globalizzata e della barbarie travestita da progresso ha calpestato assieme alla identità e alla memoria di un popolo.
Di questa vertiginosa involuzione ci ha regalato una sintesi folgorante Cingolani, tenutario di un dicastero di cui non sentivamo la mancanza, che ha esposto la propria ricetta risolutiva per l’istruzione d’avanguardia: «non serve studiare quattro volte le guerre puniche, servono più digital manager». E a noi non servono i commenti.
Ma quel terreno era stato reso fertile, per paradosso, anche dalla ipostatizzazione dello stesso concetto di libertà, previamente contraffatto per funzionare da arma di distrazione e distruzione di massa.
La libertà (quella vera) ha potuto essere soppressa impunemente proprio nel nome di tutte le libertà (false) che sono state innalzate una dopo l’altra sull’altare della cosiddetta autodeterminazione.
Con pagamento anticipato, in cambio della nostra libertà, ci avevano già elargita l’illusione di poterci autodeterminare senza limiti nel disporre della nostra vita, e di decidere anche della nostra morte
Con pagamento anticipato, in cambio della nostra libertà, ci avevano già elargita l’illusione di poterci autodeterminare senza limiti nel disporre della nostra vita, e di decidere anche della nostra morte.
E ci avevano già convinti che questa sbornia libertaria fosse cosa buona e giusta, attraverso il suo graduale assorbimento nella legge. La legittimazione giuridica di una condotta è capace, infatti, di far evaporare pian piano la percezione del suo disvalore intrinseco: perché tutto ciò che viene reso giuridicamente lecito, nell’immaginario collettivo diventa anche moralmente accettabile; in altri termini, viene istintivo identificare il bene e il male con ciò che la legge consente e non consente.
E così ci hanno convinti di poter decidere – liberamente, è chiaro – di sopprimere la vita nascente; di interrompere quella già nata, ma fragile, giudicata non all’altezza di fluttuanti standard di qualità; di poter decidere di traslocare da un sesso all’altro e ritorno, portandoci dietro, o anche no, i pezzi in dotazione e quelli di ricambio; di assemblare nuovi agglomerati diversamente assortiti, e chiamarli famiglia; di fabbricare esseri umani in provetta, manipolarli e programmarli geneticamente, e di chiamarli figli; di consumare liberamente la pornografia e di praticarla anche, con esemplari di tutte le età.
Insomma, nel fantastico mondo delle finte libertà legalizzate, l’uomo misura di tutte le cose, ubriacato dal proprio delirio di onnipotenza (la hybris antica), sobbollendo nel brodo edonistico ed egoistico preparato per lui, è arrivato fino al punto di sbarazzarsi della realtà, della natura e della stessa fisiologia. Fieramente persuaso della propria sconfinata facoltà di autodeterminarsi, non si accorge di essere in realtà sommamente eterodiretto, e scagliato a tutta velocità verso il proprio annientamento programmato.
Non possiamo dire che non ci avessero avvisati per tempo dei prevedibili esiti di questa degenerazione, che è poi la somma di tante degenerazioni.
Nel fantastico mondo delle finte libertà legalizzate, l’uomo misura di tutte le cose, ubriacato dal proprio delirio di onnipotenza (la hybris antica), sobbollendo nel brodo edonistico ed egoistico preparato per lui, è arrivato fino al punto di sbarazzarsi della realtà, della natura e della stessa fisiologia
Alcuni fatti, per chi si è preso la briga di osservarli, di capirli e necessariamente di patirli, erano stati esibiti al pubblico quasi a mo’ di esplicito avvertimento; di sicuro hanno rappresentato uno spartiacque nel processo di dissoluzione.
La storia di Alfie Evans, per esempio, il piccolo inglese (ma che, ricordiamolo, ottenne anche la cittadinanza italiana in un tentativo estremo di sottrarlo ai suoi carnefici) che fu ammazzato per il suo «miglior interesse» dalle istituzioni, laiche e religiose insieme, alleate nella missione diabolica di sacrificare l’innocente in mondovisione, letteralmente strappandolo alle braccia dei suoi genitori, sotto lo sguardo sgomento di tante persone di buona volontà.
Come dire (ed ecco l’avvertimento): non decidi tu, caro cittadino, caro genitore, del bene di tuo figlio; se il potere stabilisce che è fragile, imperfetto e, in previsione futura, la sua vita non raggiungerà una qualità soddisfacente, può prendertelo e sopprimerlo.
Così la prossima volta tu magari impari a pensarci prima e a programmarlo senza vizi di fabbricazione, come la biotecnologia di Big Pharma oggi consente; e tu genitore, se ti ostini a prescindere da queste meraviglie del progresso, beh, sei un egoista che gioca alla roulette russa della natura contro il “best interest” della progenie.
La stella polare del best interest risorge ora in tema di vaccini. Il tribunale di Milano ha stabilito che un quattordicenne dovrà vaccinarsi contro il COVID nonostante non lo vogliano né lui né sua madre: dovrà farlo nel suo miglior interesse, che tanto lui quanto sua madre secondo i giudici non sono in grado di discernere perché assestati su «posizioni aprioristiche che trascurano gli approdi della scienza internazionale». E poi anche perché lo ha detto Mattarella (in motivazione si legge infatti che va considerato «il monito del PdR che il 28 luglio ha detto che la vaccinazione è un dovere morale e civico»). Bergoglio invece, per stavolta, non è diventato fonte di diritto. Quindi: la tanto pompata volontà del minore viene valorizzata solo se va nella direzione conveniente alla regia.
Il quadro, agghiacciante, si completa considerando come, pressoché contemporaneamente, si sia pronunciato il presidente della società italiana di pediatria dicendo che i bambini devono essere vaccinati per il loro miglior interesse: «per i bimbi è fondamentale la qualità della vita, che è un bene supremo, necessario per crescere in salute» (il metro di misura della qualità la decidono loro, ovviamente); «la vaccinazione, oltre ad essere una straordinaria opportunità, è un diritto per i bambini».
Tradotto: tu genitore, che eserciti cautela e applichi il principio di precauzione, sei inadeguato, egoista e anche pericoloso perché cresci come disadattati sociali i tuoi figli, che invece devono vivere marchiati, iperconnessi e contenti. Felici di ottenere il Natale-premio per buona condotta. E questo anche se il mistero, o il segreto, intorno agli effetti delle pozioni magiche, del pharmakon universale, verrà svelato nel 2076, come ci dice la Pizia di Big Pharma.
La stella polare del best interest risorge ora in tema di vaccini
Come sempre dunque, a coprire le peggiori nefandezze, è invocato il motivo umanitario (il bene della vittima). Insomma, sopra tutto ci sta sempre l’amore. Che è un’arma impropria micidiale perché, inteso come mero moto emozionale svincolato da ogni criterio superiore di giudizio, è capace di servire qualunque causa e mascherare ogni azione intrinsecamente malvagia.
Il passaggio dalla libertà alla tanto invocata autodeterminazione non è stata una operazione meramente cosmetica. È stata una metamorfosi di senso, perché sottintende l’adesione a una concezione dell’individuo come arbitro incontrastato del bene e del male e, in apparenza, del proprio destino (quando in realtà, per paradosso, è ridotto a schiavo delle superstizioni spacciate dall’alto).
La libertà senza limiti coincide infatti con la subalternità più totale, perché interiorizzata, perché inconsapevole e dunque consenziente. Non per nulla oggi, dietro l’emancipazione di facciata, domina l’obbedienza cadaverica a ogni genere di sopruso e prevaricazione.
È su questo terreno che negli ultimi tempi hanno potuto smantellare definitivamente e senza sforzo lo Stato di diritto, con tutti i suoi ammennicoli. E sarà impossibile riesumarne il cadavere: lo Stato di diritto appare infatti come un modello ormai sfibrato ed esaurito.
Insieme allo Stato di diritto, viene meno anche la fictio dei diritti umani, altra conquista dello Stato moderno.
I diritti c.d. innati, poi ribattezzati umani, sono entrati in scena quando particolari contingenze storiche hanno suggerito l’utilità di assicurare una specifica tutela al suddito nei confronti del potere sovrano, conferendo veste giuridica, anche nominale, a valori ritenuti fondamentali perché appartenenti all’uomo in quanto tale. Ma i c.d. diritti umani restano una emanazione (id est: una elargizione) del sovrano, che può toglierne o annetterne a piacimento alla lista. La loro apparente e originaria consonanza con i principi della legge naturale ha creato l’utile equivoco della loro sovrapponibilità a quest’ultima.
La libertà senza limiti coincide infatti con la subalternità più totale, perché interiorizzata, perché inconsapevole e dunque consenziente. Non per nulla oggi, dietro l’emancipazione di facciata, domina l’obbedienza cadaverica a ogni genere di sopruso e prevaricazione
In realtà, sono diritto positivo e, quando salta il patto sociale, cioè la tendenziale convergenza della legge scritta con la legge non scritta, diventano un grimaldello privilegiato perché, dietro una etichetta inattaccabile, scardinano proprio quella legge naturale sulla cui scia si erano trionfalmente aperti la strada conquistando referenze invincibili.
Torniamo dunque alla libertà. La libertà, che appartiene all’uomo e che, come abbiamo detto, precede il diritto, non ha più ragion d’essere quando l’uomo non è più uomo, ma è ridotto ad automa mercificato, animale globale, robot antropomorfo, codice informatico. A questa nuova entità non si addice la libertà, per essa tutto ruota intorno alla categoria del controllo, che è l’antitesi della libertà e le cui funzioni vengono appaltate alla macchina. Alla fine, infatti, proprio la macchina è chiamata a prendere il sopravvento sull’uomo, prima ibridandolo, poi telepilotandolo, infine sostituendolo.
Insomma, il tempo della libertà codificata e dei diritti c.d. umani codificati è giunto al capolinea perché l’obiettivo dello Stato, e del Superstato a cui lo Stato risponde, è quello di cancellare l’uomo al quale la libertà è connaturata. Cancellazione che avviene sia brutalmente attraverso il sacrificio umano, sia attraverso lo snaturamento dell’uomo, via via trasformato in qualcosa di ontologicamente altro da sé, in un cyborg senza senz’anima e senza sentimenti, in un OGM, e comunque in una merce come un’altra, inserita all’interno di una filiera produttiva che risponde alle dinamiche del mercato e alla logica del profitto, in balìa delle industrie biotecnologiche e delle multinazionali del farmaco.
Come un dispositivo elettronico qualsiasi, dovrà scaricare, a scadenze comandate, gli aggiornamenti implementati dalla casa madre, altrimenti questa gli blocca il funzionamento: la seconda, la terza, la quarta, la ennesima dose, non sono altro che l’ennesimo aggiornamento farmaco-genetico.
Ecco quindi che al post-umano, che è trans-umano e intrinsecamente dis-umano, servono altre categorie di riferimento.
Non c’è posto per la libertà laddove l’uomo non è più creatura, ma è manufatto ingegnerizzato. Non c’è più spazio per l’empatia, per la pietas, per la ragione, per la parola: il cinismo cui abbiamo assistito con orrore verso la sofferenza e la malattia, la perversione verso i più piccoli e indifesi, il disprezzo per la morte e il suo mistero, l’abdicazione violenta a tutti quei riti, fisici e carnali, che da sempre hanno connotato la civiltà umana, tutto questo segna indiscutibilmente la sua fine definitiva e l’avvento del mondo nuovo sterilizzato, informatizzato, snaturalizzato.
Non c’è più nulla di umano in una società che prescrive e istituzionalizza la fabbrica della vita negli alambicchi di laboratorio, la sua conservazione nei congelatori, la manomissione del codice genetico, la produzione seriale di ibridi e chimere, l’eugenetica e l’eutanasia, e ancora la morte in solitudine, la distruzione dei corpi, il divieto del culto ai propri defunti
Non c’è più nulla di umano in una società che prescrive e istituzionalizza la fabbrica della vita negli alambicchi di laboratorio, la sua conservazione nei congelatori, la manomissione del codice genetico, la produzione seriale di ibridi e chimere, l’eugenetica e l’eutanasia, e ancora la morte in solitudine, la distruzione dei corpi, il divieto del culto ai propri defunti.
Non c’è più nulla di umano in una società che, a colpi di decreti, pretende di manipolare e sacrificare i suoi figli.
Dunque, non ha più senso agitarsi per cercare di ripristinare, erga omnes, un assetto politico e giuridico che è già spazzato via da forze ben più grandi di noi. La libertà non è più di questo mondo qui, semplicemente perché la libertà è prerogativa dell’uomo, e questo mondo non vuole più essere umano.
La libertà deve essere recuperata altrove, al di fuori della struttura sociale e istituzionale dentro la quale eravamo abituati a considerarla incapsulata, tanto da ritenerla pacifica, scontata e definitivamente al sicuro. Deve essere innanzitutto ritrovata nel suo significato più profondo e vero. Deve essere poi custodita e coltivata, con rinnovata cura, da coloro che desiderino ostinatamente rimanere uomini, e che proprio per questo, incompatibili con un sistema irreversibilmente corrotto perché disumanizzato e disumanizzante, saranno segregati e perseguitati.
Diario Clandestino è l’opera di Giovannino Guareschi sull’esperienza della prigionia vissuta in Polonia tra il 1943 e il 1945. Dedicata «ai miei compagni che non tornarono».
Guareschi racconta una storia «dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie, ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso».
Tra le pagine, scritte nel lager e per il lager, in quanto lette passando di baracca in baracca per regalare un sorriso o un motivo di riflessione, una distrazione, un conforto, ai suoi compagni di sventura, quella che segue racchiude il cuore di questo libro.
Qualcuno diceva che è la verità che ci rende liberi. Di certo non ci rende liberi l’ubriacatura degli istinti, che azzera le facoltà mentali e ci riduce a terra di facile conquista da parte di chi ci vuole schiavi obbedienti, uguali, invertebrati
«Mi volsi e vidi che ero uscito da me stesso, mi ero sfilato dal mio involucro di carne. Ero libero. Vidi l’altro me stesso allontanarsi, e con lui si allontanavano tutti i miei affetti, e di essi mi rimaneva solo l’essenza (…). Ritroverò l’altro me stesso? Mi aspetta forse fuori del reticolato per riprendermi ancora? Ritornerò laggiù oppresso sempre dal mio involucro di carne e di abitudini? Buon Dio, se dev’essere così, prolunga all’infinito la mia prigionia. Non togliermi la mia libertà».
Guareschi ci dimostra come sia possibile essere liberi anche all’interno di un campo di prigionia, perché la radice della libertà non sta nel poter fare quello che si vuole, ma nell’avere fiducia in qualcosa di più grande di noi, che ci sovrasta e ci resiste, perché è stabile e vero.
Solo in questo modo è possibile che un prigioniero privato di tutto, invece che inveire contro il proprio aguzzino, sia felice di ritrovare se stesso e, con se stesso, gli altri che condividono con lui un’esperienza tanto estrema da ricondurre all’essenziale. Infatti, una volta rimasto solo «con le cose che aveva dentro», egli trova l’occasione per scavare a fondo, fino incontrare la sua anima. Questa, una volta liberata, è capace di volare alta anche sopra i reticolati (che non sono necessariamente quelli fatti di filo spinato).
Qualcuno diceva che è la verità che ci rende liberi. Di certo non ci rende liberi l’ubriacatura degli istinti, che azzera le facoltà mentali e ci riduce a terra di facile conquista da parte di chi ci vuole schiavi obbedienti, uguali, invertebrati.
C’è qualcosa, insomma, che fa parte di noi e che nessuno potrà mai aggredire o portarci via. Qualcosa le cui frequenze risuonano in altri che, invece di accomodarsi nella confortevole poltrona allestita dalla propaganda, fanno lo sforzo di mettersi a cercare la verità delle cose.
In questo fecondo incontro di anime libere che si riconoscono e si ritrovano – ed è un fenomeno ormai tanto reale e palpabile, quanto temuto – si annida il germe della rinascita, che deve indurci oggi a sperare contro ogni speranza.
Da quel seme – che tutti noi, consci di ciò che sta davvero accadendo, abbiamo il dovere morale di conservare integro, ad ogni costo – si potrà pian piano cominciare a ricostruire sulle macerie del diritto, della logica, del buon senso, delle più elementari leggi del buon governo.
Ci serve più che mai una «generazione fertile, perché dovrà ripopolare la storia di uomini e non di macchine»
Per fare questo, servono ora coesione, responsabilità, determinazione e coraggio; servono la pazienza e l’umiltà necessarie per rimettere insieme i frammenti di un patrimonio dissipato e prezioso, quello che ai Cingolani e ai Bianchi preme distruggere in fretta, perché non ne sono all’altezza; serve recuperare la forza del pensiero e della parola, sconosciuta anch’essa ai Cingolani, ai Draghi e a quanti come loro sragionano e straparlano, travolti dal proprio delirio di onnipotenza.
Soprattutto, serve una nuova generazione consapevole dello stato delle cose e del suo perché, capace di decifrare e interpretare i fatti e i loro nessi causali: una generazione forte, pronta a sacrificare tanto di ciò che si dava ormai per acquisito, in previsione però di un traguardo enormemente più grande; come hanno scritto proprio questi studenti di Roma, ci serve più che mai una «generazione fertile, perché dovrà ripopolare la storia di uomini e non di macchine».
E allora sì dobbiamo essere certi che, nonostante la sproporzione delle forze in campo, con l’aiuto della Provvidenza torneremo a riveder le stelle.
Elisabetta Frezza
Articolo previamente pubblicato sul sito dell’autrice.
Immagine di ptitvinc via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-ND 3.0)
Civiltà
«Pragmatismo e realismo, rifiuto della filosofia dei blocchi». Il discorso di Putin a Valdai 2025: «la Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione»

Renovatio 21 pubblica il discorso del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin all’edizione 2025 del Club Valdai.
È improbabile che io possa formulare linee guida o istruzioni, e non è questo il punto, perché spesso le persone chiedono istruzioni o consigli solo per poi non seguirli. Questa formula è ben nota.
Vorrei esprimere la mia opinione su ciò che sta accadendo nel mondo, sul ruolo del nostro Paese in tutto questo e su come ne vediamo le prospettive di sviluppo.
Il Valdai International Discussion Club si è riunito per la 22a volta e questi incontri sono diventati più di una semplice tradizione. Le discussioni sulle piattaforme Valdai offrono un’opportunità unica per valutare la situazione globale in modo imparziale e completo, per individuare i cambiamenti e comprenderli.
Indubbiamente, la forza unica del Club risiede nella determinazione e nella capacità dei suoi partecipanti di guardare oltre il banale e l’ovvio. Non si limitano a seguire l’agenda imposta dallo spazio informativo globale, dove internet fornisce il suo contributo – sia positivo che negativo, spesso difficile da discernere – ma pongono domande non convenzionali, offrono la propria visione dei processi in corso, cercando di sollevare il velo che nasconde il futuro. Non è un compito facile, ma qui a Valdai ci si riesce spesso.
Abbiamo ripetutamente notato che viviamo in un’epoca in cui tutto sta cambiando, e molto rapidamente; direi addirittura radicalmente. Naturalmente, nessuno di noi può prevedere appieno il futuro. Tuttavia, questo non ci esonera dalla responsabilità di essere preparati. Come il tempo e gli eventi recenti hanno dimostrato, dobbiamo essere pronti a tutto. In tali periodi storici, ognuno ha una responsabilità speciale per il proprio destino, per il destino del proprio Paese e per quello del mondo in generale. La posta in gioco oggi è estremamente alta.
Come già accennato, il rapporto del Valdai Club di quest’anno è dedicato a un mondo multipolare e policentrico. Il tema è da tempo all’ordine del giorno, ma ora richiede un’attenzione particolare; su questo punto concordo pienamente con gli organizzatori. La multipolarità che di fatto è già emersa sta plasmando il quadro entro cui agiscono gli Stati. Vorrei provare a spiegare cosa rende unica la situazione attuale.
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In primo luogo, il mondo odierno offre uno spazio molto più aperto – anzi, si potrebbe dire creativo – per la politica estera. Nulla è predeterminato; gli sviluppi possono prendere direzioni diverse. Molto dipende dalla precisione, dall’accuratezza, dalla coerenza e dalla ponderatezza delle azioni di ciascun partecipante alla comunicazione internazionale. Eppure, in questo vasto spazio è anche facile perdersi e perdere l’orientamento, cosa che, come possiamo vedere, accade piuttosto spesso.
In secondo luogo, lo spazio multipolare è altamente dinamico. Come ho detto, il cambiamento avviene rapidamente, a volte all’improvviso, quasi da un giorno all’altro. È difficile prepararsi e spesso impossibile prevederlo. Bisogna essere pronti a reagire immediatamente, in tempo reale, come si dice.
In terzo luogo, e di particolare importanza, è il fatto che questo nuovo spazio è più democratico. Apre opportunità e percorsi per un’ampia gamma di attori politici ed economici. Forse mai prima d’ora così tanti Paesi hanno avuto la capacità o l’ambizione di influenzare i processi regionali e globali più significativi.
Poi. Le specificità culturali, storiche e di civiltà dei diversi Paesi giocano oggi un ruolo più importante che mai. È necessario cercare punti di contatto e convergenza di interessi. Nessuno è disposto a giocare secondo le regole stabilite da qualcun altro, da qualche parte lontano – come cantava un chansonnier molto noto nel nostro Paese, «al di là delle nebbie», o al di là degli oceani, per così dire.
A questo proposito, il quinto punto: qualsiasi decisione è possibile solo sulla base di accordi che soddisfino tutte le parti interessate o la stragrande maggioranza. Altrimenti, non ci sarà alcuna soluzione praticabile, ma solo frasi ad alta voce e un infruttuoso gioco di ambizioni. Pertanto, per ottenere risultati, armonia ed equilibrio sono essenziali.
Infine, le opportunità e i pericoli di un mondo multipolare sono inscindibili l’uno dall’altro. Naturalmente, l’indebolimento del diktat che ha caratterizzato il periodo precedente e l’espansione della libertà per tutti rappresentano innegabilmente uno sviluppo positivo. Allo stesso tempo, in tali condizioni, è molto più difficile trovare e stabilire questo solido equilibrio, il che rappresenta di per sé un rischio evidente ed estremo.
Questa situazione sul pianeta, che ho cercato di delineare brevemente, è un fenomeno qualitativamente nuovo. Le relazioni internazionali stanno subendo una trasformazione radicale. Paradossalmente, la multipolarità è diventata una conseguenza diretta dei tentativi di stabilire e preservare l’egemonia globale, una risposta del sistema internazionale e della storia stessa al desiderio ossessivo di organizzare tutti in un’unica gerarchia, con i paesi occidentali al vertice. Il fallimento di un simile tentativo era solo questione di tempo, qualcosa di cui, tra l’altro, abbiamo sempre parlato. E, per gli standard storici, è avvenuto piuttosto rapidamente.
Trentacinque anni fa, quando il confronto della Guerra Fredda sembrava volgere al termine, speravamo nell’alba di un’era di autentica cooperazione. Sembrava che non ci fossero più ostacoli ideologici o di altra natura che potessero impedire la risoluzione congiunta dei problemi comuni all’umanità o la regolazione e la risoluzione di inevitabili controversie e conflitti sulla base del rispetto reciproco e della considerazione dei reciproci interessi.
Concedetemi qui una breve digressione storica. Il nostro Paese, nel tentativo di eliminare i motivi di scontro di blocco e di creare uno spazio comune di sicurezza, ha dichiarato due volte la propria disponibilità ad aderire alla NATO. La prima volta nel 1954, durante l’era sovietica. La seconda volta durante la visita del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a Mosca nel 2000 – ne ho già parlato – quando abbiamo discusso anche di questo argomento con lui.
In entrambe le occasioni, abbiamo ricevuto un rifiuto netto e netto. Lo ripeto: eravamo pronti a un lavoro congiunto, a passi non lineari nell’ambito della sicurezza e della stabilità globale. Ma i nostri colleghi occidentali non erano disposti a liberarsi dalle catene degli stereotipi geopolitici e storici, da una visione semplificata e schematica del mondo.
Ne ho parlato pubblicamente anche quando ne ho discusso con il signor Clinton, con il presidente Clinton. Lui ha detto: «sai, è interessante. Penso che sia possibile». E poi la sera ha detto: «mi sono consultato con i miei collaboratori: non è fattibile, non è fattibile ora». «Quando sarà fattibile?» E questo è tutto, è svanito tutto.
In breve, avevamo una reale opportunità di orientare le relazioni internazionali in una direzione diversa e più positiva. Eppure, ahimè, prevalse un approccio diverso. I paesi occidentali cedettero alla tentazione del potere assoluto. Era davvero una tentazione potente, e resistervi avrebbe richiesto una visione storica e una solida preparazione, intellettuale e storica. Sembra che coloro che presero le decisioni in quel momento semplicemente non avessero entrambe le caratteristiche.
In effetti, il potere degli Stati Uniti e dei suoi alleati raggiunse l’apice alla fine del XX secolo. Ma non c’è mai stata, né ci sarà mai, una forza in grado di governare il mondo, dettando a tutti come agire, come vivere, persino come respirare. Tentativi del genere sono stati fatti, ma sono tutti falliti.
Tuttavia, dobbiamo riconoscere che molti trovavano accettabile e persino conveniente il cosiddetto ordine mondiale liberale. È vero, una gerarchia limita fortemente le opportunità per coloro che non si trovavano in cima alla piramide, o, se preferite, in cima alla catena alimentare. Ma coloro che si trovavano in fondo erano sollevati da ogni responsabilità: le regole erano semplici: accettare i termini, inserirsi nel sistema, ricevere la propria quota, per quanto modesta, ed essere contenti. Altri avrebbero pensato e deciso per noi.
E non importa cosa si dica ora, non importa quanto si cerchi di mascherare la realtà: è andata così. Gli esperti qui riuniti lo ricordano e lo capiscono perfettamente.
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Alcuni, nella loro arroganza, si ritenevano autorizzati a fare la predica al resto del mondo. Altri si accontentavano di assecondare i potenti come obbedienti pedine di scambio, desiderosi di evitare inutili problemi in cambio di un bonus modesto ma garantito. Ci sono ancora molti politici di questo tipo nella parte vecchia del mondo, in Europa.
Coloro che osavano opporsi e cercavano di difendere i propri interessi, diritti e opinioni, venivano, nella migliore delle ipotesi, liquidati come eccentrici e, in pratica, veniva loro detto: «non ce la farete, quindi arrendetevi e accettate che, in confronto al nostro potere, siete una nullità». Quanto ai veri testardi, venivano «educati» dai sedicenti leader globali, che non si prendevano nemmeno più la briga di nascondere le loro intenzioni. Il messaggio era chiaro: resistere era inutile.
Ma questo non ha portato nulla di buono. Nessun problema globale è stato risolto. Al contrario, se ne moltiplicano costantemente di nuovi. Le istituzioni di governance globale create in un’epoca precedente hanno cessato di funzionare o hanno perso gran parte della loro efficacia. E non importa quanta forza o risorse uno Stato, o anche un gruppo di Stati, possa accumulare, il potere ha sempre i suoi limiti.
Come sa il pubblico russo, in Russia esiste un detto: «non c’è risposta a un piede di porco, se non un altro piede di porco», ovvero non si porta un coltello a una sparatoria, ma un’altra pistola. E in effetti, quell’«altra pistola» si può sempre trovare. Questa è l’essenza stessa degli affari mondiali: emerge sempre una controforza. E i tentativi di controllare tutto generano inevitabilmente tensione, minando la stabilità interna e spingendo la gente comune a porre una domanda molto legittima ai propri governi: «perché abbiamo bisogno di tutto questo?»
Una volta ho sentito qualcosa di simile dai nostri colleghi americani, che dicevano: «abbiamo guadagnato il mondo intero, ma abbiamo perso l’America». Posso solo chiedere: ne è valsa la pena? E avete davvero guadagnato qualcosa?
È emerso un netto rifiuto delle eccessive ambizioni dell’élite politica delle principali nazioni dell’Europa occidentale, che si sta diffondendo sempre più nelle società di quei paesi. Il barometro dell’opinione pubblica lo indica in modo generalizzato. L’establishment non vuole cedere il potere, osa ingannare direttamente i propri cittadini, aggrava la situazione a livello internazionale, ricorre a ogni sorta di stratagemmi all’interno dei propri paesi, sempre più spesso ai margini della legge o addirittura oltre.
Tuttavia, trasformare continuamente le procedure democratiche ed elettorali in una farsa e manipolare la volontà dei popoli non funzionerà. Come è successo in Romania, ad esempio, ma non entreremo nei dettagli. Questo sta accadendo in molti paesi. In alcuni di essi, le autorità stanno cercando di mettere al bando i loro oppositori politici che stanno guadagnando maggiore legittimità e maggiore fiducia da parte degli elettori. Lo sappiamo per esperienza personale, in Unione Sovietica. Ricordate le canzoni di Vladimir Vysotskij: «Anche la parata militare è stata cancellata! Presto metteranno al bando tutti e tutti!». Ma non funziona, i divieti non funzionano.
Nel frattempo, la volontà del popolo, la volontà dei cittadini di quei Paesi è chiara e semplice: lasciare che i leader di quei Paesi si occupino dei problemi dei cittadini, si prendano cura della loro sicurezza e della loro qualità di vita, e non inseguire chimere. Gli Stati Uniti, dove le richieste della gente hanno portato a un cambiamento sufficientemente radicale nel vettore politico, ne sono un esempio lampante. E possiamo dire che è noto che questi esempi sono contagiosi per altri Paesi.
La subordinazione della maggioranza alla minoranza, insita nelle relazioni internazionali durante il periodo della dominazione occidentale, sta cedendo il passo a un approccio multilaterale e più cooperativo. Esso si basa su accordi tra i principali attori e sulla considerazione degli interessi di tutti. Ciò non garantisce certamente armonia e assoluta assenza di conflitti. Gli interessi dei Paesi non si sovrappongono mai completamente e l’intera storia delle relazioni internazionali è, ovviamente, una lotta per il loro raggiungimento.
Tuttavia, il clima globale fondamentalmente nuovo in cui i paesi della Maggioranza Globale stanno sempre più imponendo il loro tono, promette che tutti gli attori dovranno in qualche modo tenere conto degli interessi reciproci nella ricerca di soluzioni alle questioni regionali e globali. Dopotutto, nessuno può raggiungere i propri obiettivi da solo, isolato dagli altri. Nonostante l’escalation dei conflitti, la crisi del precedente modello di globalizzazione e la frammentazione dell’economia globale, il mondo rimane integrato, interconnesso e interdipendente.
Lo sappiamo per esperienza personale. Sapete quanti sforzi i nostri oppositori abbiano profuso negli ultimi anni per, diciamolo apertamente, estromettere la Russia dal sistema globale e spingerci verso l’isolamento politico, culturale, informativo e l’autarchia economica. Per numero e portata delle misure punitive imposteci, che vergognosamente chiamano «sanzioni», la Russia è diventata il detentore del record assoluto nella storia mondiale: 30.000, o forse anche di più, restrizioni di ogni tipo immaginabile.
E allora? Hanno raggiunto il loro obiettivo? Credo sia ovvio per tutti i presenti: questi sforzi sono completamente falliti. La Russia ha dimostrato al mondo il massimo grado di resilienza, la capacità di resistere alla più potente pressione esterna che avrebbe potuto spezzare non un solo Paese, ma un’intera coalizione di Stati. E a questo proposito, proviamo un legittimo orgoglio. Orgoglio per la Russia, per i nostri cittadini e per le nostre Forze Armate.
Ma vorrei parlare di qualcosa di più profondo. A quanto pare, lo stesso sistema globale da cui volevano espellerci si rifiuta semplicemente di lasciar andare la Russia. Perché ha bisogno della Russia come parte essenziale dell’equilibrio globale: non solo per il nostro territorio, la nostra popolazione, la nostra difesa, il nostro potenziale tecnologico e industriale o la nostra ricchezza mineraria – sebbene, ovviamente, tutti questi siano fattori di fondamentale importanza.
Ma soprattutto, l’equilibrio globale non può essere costruito senza la Russia: né l’equilibrio economico, né quello strategico, né quello culturale o logistico. Nessuno. Credo che coloro che hanno cercato di distruggere tutto questo abbiano iniziato a rendersene conto. Alcuni, tuttavia, cercano ancora ostinatamente di raggiungere il loro obiettivo: infliggere, come si dice, una «sconfitta strategica» alla Russia.
Ebbene, se non riescono a vedere che questo piano è destinato a fallire e a persistere, spero ancora che la vita stessa dia una lezione anche al più testardo di loro. Hanno fatto molto rumore molte volte, minacciandoci con un blocco totale. Hanno persino detto apertamente, senza esitazione, di voler far soffrire il popolo russo. Questa è la parola che hanno scelto. Hanno elaborato piani, uno più fantasioso dell’altro. Credo che sia giunto il momento di calmarsi, di guardarsi intorno, di orientarsi e di iniziare a costruire relazioni in un modo completamente diverso.
Sappiamo anche che il mondo policentrico è altamente dinamico. Appare fragile e instabile perché è impossibile correggere in modo permanente lo stato delle cose o determinare l’equilibrio di potere a lungo termine. Dopotutto, i partecipanti a questi processi sono molteplici e le loro forze sono asimmetriche e complesse. Ciascuno ha i suoi aspetti vantaggiosi e punti di forza competitivi, che in ogni caso creano una combinazione e una composizione uniche.
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Il mondo odierno è un sistema eccezionalmente complesso e sfaccettato. Per descriverlo e comprenderlo correttamente, le semplici leggi della logica, le relazioni di causa ed effetto e i modelli che ne derivano non sono sufficienti. Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia della complessità, qualcosa di simile alla meccanica quantistica, più saggia e, per certi versi, più complessa della fisica classica.
Eppure è proprio a causa di questa complessità del mondo che la capacità complessiva di accordo, a mio avviso, tende comunque ad aumentare. Dopotutto, le soluzioni unilaterali lineari sono impossibili, mentre le soluzioni non lineari e multilaterali richiedono una diplomazia molto seria, professionale, imparziale, creativa e a volte non convenzionale.
Sono quindi convinto che assisteremo a una sorta di rinascita, a una rinascita dell’alta arte diplomatica. La sua essenza risiede nella capacità di dialogare e raggiungere accordi, sia con i vicini e i partner che condividono gli stessi ideali, sia – non meno importante ma più impegnativo – con gli avversari.
È proprio in questo spirito – lo spirito della diplomazia del XXI secolo – che si stanno sviluppando nuove istituzioni. Tra queste, la comunità BRICS in espansione, organizzazioni di grandi regioni come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, organizzazioni eurasiatiche e associazioni regionali più compatte ma non meno importanti. Molti di questi gruppi stanno emergendo in tutto il mondo – non li elencherò tutti, poiché li conoscete già.
Tutte queste nuove strutture sono diverse, ma sono unite da una qualità cruciale: non operano secondo il principio di gerarchia o subordinazione a un singolo potere dominante. Non sono contro nessuno; sono per se stesse. Vorrei ribadirlo: il mondo moderno ha bisogno di accordi, non dell’imposizione della volontà di qualcuno. L’egemonia – di qualsiasi tipo – semplicemente non può e non vuole far fronte alla portata delle sfide.
Garantire la sicurezza internazionale in queste circostanze è una questione estremamente urgente, con numerose variabili. Il crescente numero di attori con obiettivi, culture politiche e tradizioni distintive crea un contesto globale complesso che rende lo sviluppo di approcci per garantire la sicurezza un compito molto più intricato e difficile da affrontare. Allo stesso tempo, apre nuove opportunità per tutti noi.
Le ambizioni basate su blocchi pre-programmati per esacerbare il confronto sono diventate, senza dubbio, un anacronismo privo di senso. Vediamo, ad esempio, con quanta diligenza i nostri vicini europei stiano cercando di rattoppare e stuccare le crepe che attraversano la costruzione dell’Europa. Eppure, vogliono superare le divisioni e consolidare la traballante unità di cui un tempo si vantavano, non affrontando efficacemente le questioni interne, ma gonfiando l’immagine di un nemico. È un vecchio trucco, ma il punto è che la gente in quei paesi vede e capisce tutto. Ecco perché scendono in piazza nonostante l’escalation esterna e la continua ricerca di un nemico, come ho detto prima.
Stanno ricreando l’immagine di un vecchio nemico, quello che hanno creato secoli fa, ovvero la Russia. La maggior parte delle persone in Europa fa fatica a capire perché debba avere così tanta paura della Russia da dover stringere ulteriormente la cinghia, abbandonare i propri interessi, semplicemente rinunciarvi, e perseguire politiche chiaramente dannose per loro stesse. Eppure, le élite al potere nell’Europa unita continuano a fomentare l’isteria. Affermano che la guerra con i russi è quasi alle porte. Ripetono questa assurdità, questo mantra, ancora e ancora.
Francamente, quando a volte li guardo e li ascolto, penso che non possano crederci. Non possono crederci quando dicono che la Russia sta per attaccare la NATO. È semplicemente impossibile crederci. Eppure lo stanno facendo credere al loro stesso popolo. Quindi, che tipo di persone sono? O sono completamente incompetenti, se ci credono davvero, perché credere a simili assurdità è semplicemente inconcepibile, o semplicemente disonesti, perché non ci credono loro stessi ma stanno cercando di convincere i loro cittadini che è vero. Quali altre opzioni ci sono?
Francamente, sarei tentato di dire: calmatevi, dormite sonni tranquilli e affrontate i vostri problemi. Guardate cosa sta succedendo nelle strade delle città europee, cosa sta succedendo all’economia, all’industria, alla cultura e all’identità europea, agli enormi debiti e alla crescente crisi dei sistemi di sicurezza sociale, alle migrazioni incontrollate e alla violenza dilagante – inclusa la violenza politica – alla radicalizzazione di gruppi di sinistra, ultraliberali, razzisti e altri gruppi marginali.
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Prendete nota di come l’Europa stia scivolando ai margini della competizione globale. Sappiamo perfettamente quanto siano infondate le minacce sui cosiddetti piani aggressivi della Russia, con cui l’Europa si spaventa. L’ho appena accennato. Ma l’autosuggestione è pericolosa. E semplicemente non possiamo ignorare ciò che sta accadendo; non abbiamo il diritto di farlo, per il bene della nostra sicurezza, per ribadirlo, per il bene della nostra difesa e incolumità.
Ecco perché stiamo monitorando attentamente la crescente militarizzazione dell’Europa. È solo retorica o è giunto il momento di reagire? Abbiamo sentito, e anche voi lo sapete, che la Repubblica Federale di Germania afferma che il suo esercito deve tornare a essere il più forte d’Europa. Bene, stiamo ascoltando attentamente e seguendo attentamente tutto per capire cosa si intenda esattamente con questo.
Credo che nessuno abbia dubbi sul fatto che la risposta della Russia non tarderà ad arrivare. Per usare un eufemismo, la risposta a queste minacce sarà estremamente convincente. E sarà davvero una risposta: noi stessi non abbiamo mai avviato uno scontro militare. È insensato, superfluo e semplicemente assurdo; distrae dai problemi e dalle sfide reali. Prima o poi, le società chiederanno inevitabilmente conto ai loro leader e alle loro élite di ignorare le loro speranze, aspirazioni e bisogni.
Tuttavia, se qualcuno si sente ancora tentato di sfidarci militarmente – come diciamo in Russia, la libertà è per chi è libero – provi pure. La Russia ha dimostrato più volte che quando sorgono minacce alla nostra sicurezza, alla pace e alla tranquillità dei nostri cittadini, alla nostra sovranità e ai fondamenti stessi del nostro Stato, reagiamo prontamente.
Non c’è bisogno di provocazioni. Non c’è stato un solo caso in cui la situazione si sia conclusa positivamente per il provocatore. E non ci si dovrebbero aspettare eccezioni in futuro: non ce ne saranno.
La nostra storia ha dimostrato che la debolezza è inaccettabile, poiché crea tentazione: l’illusione che si possa usare la forza per risolvere qualsiasi questione con noi. La Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione. Che questo sia ricordato da coloro che si risentono del fatto stesso della nostra esistenza, da coloro che coltivano sogni di infliggerci questa cosiddetta sconfitta strategica. A proposito, molti di coloro che ne hanno parlato attivamente, come diciamo in Russia, «Alcuni non ci sono più, altri sono lontani». Dove sono ora queste cifre?
Ci sono così tanti problemi oggettivi nel mondo, derivanti da fattori naturali, tecnologici o sociali, che spendere energie e risorse in contraddizioni artificiali, spesso inventate, è inammissibile, uno spreco e semplicemente sciocco.
La sicurezza internazionale è ormai diventata un fenomeno così sfaccettato e indivisibile che nessuna divisione geopolitica basata sui valori può frammentarlo. Solo un lavoro meticoloso e completo, che coinvolga partner diversi e si basi su approcci creativi, può risolvere le complesse equazioni della sicurezza del XXI secolo. In questo quadro, non ci sono elementi più o meno importanti o cruciali: tutto deve essere affrontato in modo olistico.
Il nostro Paese ha costantemente sostenuto – e continua a sostenere – il principio della sicurezza indivisibile. L’ho detto molte volte: la sicurezza di alcuni non può essere garantita a scapito di quella di altri. Altrimenti, non c’è alcuna sicurezza – per nessuno. L’affermazione di questo principio si è rivelata infruttuosa. L’euforia e la sfrenata sete di potere tra coloro che si consideravano vincitori dopo la Guerra Fredda – come ho ripetutamente affermato – hanno portato a tentativi di imporre a tutti nozioni unilaterali e soggettive di sicurezza.
Questa, di fatto, è diventata la vera causa principale non solo del conflitto ucraino, ma anche di molte altre gravi crisi della fine del XX secolo e del primo decennio del XXI secolo. Di conseguenza, proprio come avevamo avvertito, oggi nessuno si sente veramente al sicuro. È tempo di tornare alle basi e correggere gli errori del passato.
Tuttavia, la sicurezza indivisibile oggi, rispetto alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, è un fenomeno ancora più complesso. Non si tratta più solo di equilibrio militare e politico e di considerazioni di interesse reciproco.
La sicurezza dell’umanità dipende dalla sua capacità di rispondere alle sfide poste dai disastri naturali, dalle catastrofi provocate dall’uomo, dallo sviluppo tecnologico e dai rapidi processi sociali, demografici e informativi.
Tutto questo è interconnesso e i cambiamenti avvengono in gran parte da soli, spesso, l’ho già detto, in modo imprevedibile, seguendo una propria logica e regole interne e, a volte, oserei dire, persino al di là della volontà e delle aspettative delle persone.
In una situazione del genere, l’umanità rischia di diventare superflua, un semplice osservatore di processi che non sarà mai in grado di controllare. Cos’è questa se non una sfida sistemica per tutti noi e un’opportunità per tutti noi di lavorare insieme in modo costruttivo?
Non ci sono risposte pronte, ma credo che la soluzione alle sfide globali richieda, in primo luogo, un approccio libero da pregiudizi ideologici e da pathos didascalici, del tipo «Ora ti dico cosa fare». In secondo luogo, è importante capire che si tratta di una questione veramente comune e indivisibile, che richiede sforzi congiunti di tutti i paesi e le nazioni.
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Ogni cultura e civiltà dovrebbe dare il suo contributo perché, ripeto, nessuno conosce la risposta giusta separatamente. Questa può essere generata solo attraverso una ricerca costruttiva congiunta, combinando – non separando – gli sforzi e le esperienze nazionali dei vari Paesi.
Vorrei ripeterlo ancora una volta: conflitti e collisioni di interessi sono esistiti e, naturalmente, rimarranno per sempre: la questione è come risolverli. Un mondo policentrico, come ho già detto oggi, è un ritorno alla diplomazia classica, quando la risoluzione richiede attenzione, rispetto reciproco, ma non coercizione.
La diplomazia classica era in grado di tenere conto delle posizioni dei diversi attori internazionali, della complessità del «concerto» composto dalle voci di diverse potenze. Tuttavia, a un certo punto, è stata sostituita dalla diplomazia di stampo occidentale, fatta di monologhi, interminabili prediche e ordini. Invece di risolvere i conflitti, alcune parti hanno iniziato a far prevalere i propri interessi egoistici, considerando gli interessi di tutti gli altri indegni di attenzione.
Non c’è da stupirsi che, invece di trovare una soluzione, i conflitti siano stati ulteriormente esacerbati, fino a trasformarsi in una sanguinosa fase armata che ha portato a un disastro umanitario. Agire in questo modo significa non riuscire a risolvere alcun conflitto. Gli esempi degli ultimi 30 anni sono innumerevoli.
Uno di questi è il conflitto palestinese-israeliano, che non può essere risolto seguendo le ricette di una diplomazia occidentale sbilanciata, che ignora grossolanamente la storia, le tradizioni, l’identità e la cultura dei popoli che vi abitano. Né contribuisce a stabilizzare la situazione in Medio Oriente in generale, che anzi sta rapidamente peggiorando. Ora stiamo conoscendo più approfonditamente le iniziative del Presidente Trump. Mi sembra che in questo caso si possa ancora intravedere una luce in fondo al tunnel.
Anche la tragedia ucraina ne è un esempio orribile. È un dolore per gli ucraini e i russi, per tutti noi. Le ragioni del conflitto ucraino sono note a chiunque si sia preso la briga di approfondire i retroscena della sua attuale, più acuta fase. Non le ripeterò. Sono certo che tutti in questo pubblico le conoscano bene, così come la mia posizione su questo tema, che ho già espresso più volte.
Anche un’altra cosa è ben nota. Coloro che hanno incoraggiato, incitato e armato l’Ucraina, che l’hanno spinta a inimicarsi la Russia, che per decenni hanno alimentato un nazionalismo dilagante e un neonazismo in quel Paese, francamente – mi si perdoni la franchezza – se ne sono fregati degli interessi della Russia o, se è per questo, dell’Ucraina. Non provano nulla per il popolo ucraino. Per loro – globalisti ed espansionisti in Occidente e i loro tirapiedi a Kiev – sono materiale sacrificabile. I risultati di un simile avventurismo sconsiderato sono sotto gli occhi di tutti, e non c’è nulla da discutere.
Sorge un’altra domanda: le cose sarebbero potute andare diversamente? Lo sappiamo anche noi, e torno a ciò che disse una volta il Presidente Trump. Disse che se fosse stato in carica allora, questo si sarebbe potuto evitare. Sono d’accordo. Anzi, si sarebbe potuto evitare se il nostro lavoro con l’amministrazione Biden fosse stato organizzato diversamente; se l’Ucraina non fosse stata trasformata in un’arma distruttiva nelle mani di qualcun altro; se la NATO non fosse stata usata a questo scopo mentre avanzava verso i nostri confini; e se l’Ucraina avesse infine preservato la sua indipendenza, la sua autentica sovranità.
C’è un’altra domanda. Come avrebbero dovuto essere risolte le questioni bilaterali russo-ucraine, che erano la naturale conseguenza della disgregazione di un vasto paese e di complesse trasformazioni geopolitiche? A proposito, credo che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fosse legata alla posizione dell’allora leadership russa, che cercava di liberarsi dal confronto ideologico nella speranza che ora, con la fine del comunismo, saremmo diventati fratelli. Non è successo nulla del genere. Sono entrati in gioco altri fattori, sotto forma di interessi geopolitici. Si è scoperto che le differenze ideologiche non erano il vero problema.
Quindi, come si dovrebbero risolvere questi problemi in un mondo policentrico? Come si sarebbe affrontata la situazione in Ucraina? Credo che se ci fosse stata multipolarità, i diversi poli avrebbero, per così dire, messo alla prova il conflitto ucraino. Lo avrebbero misurato in base ai potenziali focolai di tensione e fratture nelle proprie regioni. In tal caso, una soluzione collettiva sarebbe stata molto più responsabile ed equilibrata.
L’accordo si sarebbe basato sulla consapevolezza che tutti i partecipanti a questa difficile situazione hanno interessi propri, fondati su circostanze oggettive e soggettive che semplicemente non possono essere ignorate. Il desiderio di tutti i Paesi di garantire sicurezza e progresso è legittimo. Senza dubbio, questo vale per l’Ucraina, la Russia e tutti i nostri vicini. I Paesi della regione dovrebbero avere un ruolo guida nella definizione di un sistema regionale. Hanno le maggiori possibilità di concordare un modello di interazione accettabile per tutti, perché la questione li riguarda direttamente. Rappresenta il loro interesse vitale.
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Per altri Paesi, la situazione in Ucraina è solo una carta da gioco in un gioco diverso, molto più ampio, un gioco a sé stante, che di solito ha poco a che fare con i problemi reali dei paesi coinvolti, incluso questo in particolare. È solo una scusa e un mezzo per raggiungere i propri obiettivi geopolitici, per espandere la propria area di controllo e per trarre profitti dalla guerra. Ecco perché hanno portato le infrastrutture della NATO fino alla nostra porta, e da anni guardano con faccia seria alla tragedia del Donbass e a quello che è stato essenzialmente un genocidio e uno sterminio del popolo russo sulla nostra terra storica, un processo iniziato nel 2014 sulla scia di un sanguinoso colpo di stato in Ucraina.
In contrasto con tale condotta dimostrata dall’Europa e, fino a poco tempo fa, dagli Stati Uniti sotto la precedente amministrazione, si distinguono le azioni dei paesi appartenenti alla maggioranza mondiale. Si rifiutano di schierarsi e si impegnano sinceramente per contribuire a stabilire una pace giusta. Siamo grati a tutti gli stati che negli ultimi anni si sono sinceramente impegnati per trovare una via d’uscita dalla situazione.
Tra questi figurano i nostri partner, i fondatori dei BRICS: Cina, India, Brasile e Sudafrica. Tra questi rientrano anche la Bielorussia e, tra l’altro, la Corea del Nord. Sono nostri amici nel mondo arabo e islamico, soprattutto Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Turchia e Iran. In Europa, tra questi figurano Serbia, Ungheria e Slovacchia. E molti altri paesi simili si trovano in Africa e America Latina.
Purtroppo, le ostilità non sono ancora cessate. Tuttavia, la responsabilità non ricade sulla maggioranza per non essere riuscita a fermarle, bensì sulla minoranza, in primo luogo l’Europa, che continua ad aggravare il conflitto – e a mio avviso, oggi non si intravede alcun altro obiettivo. Ciononostante, credo che la buona volontà prevarrà e, a questo proposito, non c’è il minimo dubbio: credo che anche in Ucraina si stiano verificando dei cambiamenti, seppur graduali – lo stiamo vedendo. Per quanto le menti delle persone possano essere state manipolate, si stanno comunque verificando dei cambiamenti nella coscienza pubblica, e in effetti nella stragrande maggioranza delle nazioni del mondo.
In effetti, il fenomeno della maggioranza globale rappresenta una novità negli affari internazionali. Vorrei spendere qualche parola anche su questo argomento. Qual è la sua essenza? La stragrande maggioranza degli Stati in tutto il mondo è orientata al perseguimento dei propri interessi di civiltà, tra cui spicca il loro sviluppo equilibrato e progressivo. Sembrerebbe naturale: è sempre stato così. Ma in epoche precedenti, la comprensione di questi stessi interessi è stata spesso distorta da ambizioni malsane, egoismo e dall’influenza di un’ideologia espansionistica.
Oggi, la maggior parte dei Paesi e dei popoli – proprio questa maggioranza globale – riconosce i propri veri interessi. Fondamentalmente, ora sentono la forza e la fiducia necessarie per difenderli dalle pressioni esterne – e aggiungerò che, nel promuovere e difendere i propri interessi, sono pronti a collaborare con i partner, trasformando così le relazioni internazionali, la diplomazia e l’integrazione in fonti di crescita, progresso e sviluppo. Le relazioni all’interno della maggioranza globale rappresentano un prototipo delle pratiche politiche essenziali ed efficaci in un mondo policentrico.
Questo è pragmatismo e realismo: un rifiuto della filosofia dei blocchi, un’assenza di obblighi rigidi, imposti dall’esterno, o di modelli che prevedano partner senior e junior. Infine, è la capacità di conciliare interessi che raramente si allineano completamente, ma che raramente si contraddicono fondamentalmente. L’assenza di antagonismo diventa il principio guida.
Ora sta sorgendo una nuova ondata di decolonizzazione, poiché le ex colonie stanno acquisendo, oltre alla sovranità statale, anche quella politica, economica, culturale e di visione del mondo.
Un’altra data è importante a questo proposito. Abbiamo recentemente celebrato l’80° anniversario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Non è solo un’organizzazione politica universale e la più rappresentativa al mondo, ma anche un simbolo dello spirito di cooperazione, alleanza e persino fratellanza combattiva, che ci ha aiutato a unire le forze nella prima metà del secolo scorso nella lotta contro il peggior male della storia: una spietata macchina di sterminio e schiavitù.
Il ruolo decisivo nella nostra comune vittoria sul nazismo, di cui andiamo fieri, è stato ovviamente svolto dall’Unione Sovietica. Basta dare un’occhiata al numero di vittime per ciascun membro della coalizione anti-Hitler per capirlo.
L’ONU è l’eredità della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale e, finora, l’esperienza di maggior successo nella creazione di un’organizzazione internazionale volta a risolvere gli attuali problemi globali.
Si dice spesso, ormai, che il sistema delle Nazioni Unite sia paralizzato e stia attraversando una crisi. È diventato un luogo comune. Alcuni sostengono addirittura che sia ormai superato e che dovrebbe essere quantomeno radicalmente riformato. Sì, ci sono molte, moltissime carenze nelle operazioni delle Nazioni Unite. Eppure, finora non c’è stato nulla di meglio delle Nazioni Unite, e dobbiamo ammetterlo.
In realtà, il problema non è l’ONU, che ha un potenziale immenso. Il problema sta nel modo in cui noi, le Nazioni Unite che si sono disunite, stiamo utilizzando questo potenziale.
Non c’è dubbio che l’ONU debba affrontare delle sfide. Come qualsiasi altra organizzazione, dovrebbe adattarsi alle mutevoli realtà. Tuttavia, è estremamente importante preservare l’essenza fondamentale dell’ONU durante la sua riforma e il suo ammodernamento, non solo l’essenza che era insita in essa fin dalla sua nascita, ma anche l’essenza che ha acquisito nel complesso processo del suo sviluppo.
Vale la pena ricordare a questo proposito che il numero degli Stati membri delle Nazioni Unite è quasi quadruplicato dal 1945. Negli ultimi decenni, l’organizzazione, istituita su iniziativa di diversi grandi Paesi, non solo si è ampliata, ma ha anche assorbito numerose culture e tradizioni politiche diverse, acquisendo diversità e diventando una struttura realmente multipolare molto prima che il mondo diventasse multipolare. Il potenziale del sistema delle Nazioni Unite ha appena iniziato a manifestarsi e sono fiducioso che questo processo si completerà molto rapidamente nella nuova era che si sta delineando.
In altre parole, i paesi della maggioranza globale costituiscono ormai una maggioranza schiacciante presso l’ONU e la sua struttura e i suoi organi di governo dovrebbero quindi essere adattati a questo fatto, il che sarebbe anche molto più in linea con i principi fondamentali della democrazia.
Non lo nego: oggi non esiste un consenso unanime su come il mondo dovrebbe essere organizzato, su quali principi dovrebbe basarsi negli anni e nei decenni a venire. Siamo entrati in un lungo periodo di ricerca, spesso procedendo per tentativi ed errori. Quando un nuovo sistema stabile prenderà finalmente forma – e quale sarà la sua struttura – rimane un mistero. Dobbiamo essere pronti al fatto che, per un periodo considerevole, lo sviluppo sociale, politico ed economico sarà imprevedibile, a volte persino turbolento.
Per rimanere sulla rotta giusta e non perdere l’orientamento, tutti hanno bisogno di solide basi. A nostro avviso, queste basi sono, soprattutto, i valori maturati nel corso dei secoli all’interno delle culture nazionali. Cultura e storia, norme etiche e religiose, geografia e spazio: questi sono gli elementi chiave che plasmano civiltà e comunità durature. Definiscono l’identità nazionale, i valori e le tradizioni, fornendoci la bussola che ci aiuta a resistere alle tempeste della vita internazionale.
Le tradizioni sono sempre uniche; ogni nazione ha le sue. Il rispetto delle tradizioni è la prima e più importante condizione per relazioni internazionali stabili e per risolvere le sfide emergenti.
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Il mondo ha già vissuto tentativi di unificazione, di imporre modelli cosiddetti universali che si scontravano con le tradizioni culturali ed etiche della maggior parte dei popoli. L’Unione Sovietica una volta commise questo errore imponendo il suo sistema politico – lo sappiamo e, francamente, non credo che nessuno lo contesterebbe. In seguito gli Stati Uniti raccolsero il testimone, e anche l’Europa ci provò. In entrambi i casi, fallì. Ciò che è superficiale, artificiale, imposto dall’esterno non può durare. E chi rispetta le proprie tradizioni, di regola, non invade quelle degli altri.
Oggi, sullo sfondo dell’instabilità internazionale, si attribuisce particolare importanza alle fondamenta dello sviluppo di ogni nazione: quelle che non dipendono dalle turbolenze esterne. Vediamo paesi e popoli rivolgersi a queste radici. E questo sta accadendo non solo nella maggioranza globale, ma anche nelle società occidentali. Quando ognuno si concentra sul proprio sviluppo senza inseguire ambizioni inutili, diventa molto più facile trovare un terreno comune con gli altri.
Ad esempio, possiamo guardare alla recente esperienza di interazione tra Russia e Stati Uniti. Come sapete, i nostri Paesi hanno molti disaccordi; le nostre opinioni su molti dei problemi mondiali differiscono. Ma questo non è insolito per le grandi potenze; anzi, è assolutamente naturale. Ciò che conta è come risolvere questi disaccordi e se riusciremo a risolverli pacificamente.
L’attuale amministrazione della Casa Bianca è molto schietta riguardo ai propri interessi, dichiarando ciò che vuole direttamente – a volte anche bruscamente, come sono certo concorderete – ma senza inutili ipocrisie. È sempre preferibile essere chiari su ciò che l’altra parte vuole e cosa sta cercando di ottenere. È meglio che cercare di indovinare il vero significato dietro una lunga serie di equivoci, linguaggio ambiguo e vaghi accenni.
Possiamo constatare che l’attuale amministrazione statunitense è guidata principalmente dai propri interessi nazionali, così come li intende. E credo che questo sia un approccio razionale.
Ma poi, se mi permettete, la Russia ha anche il diritto di essere guidata dai propri interessi nazionali. Uno dei quali, tra l’altro, è il ripristino di relazioni pienamente consolidate con gli Stati Uniti. A prescindere dai nostri disaccordi, se due parti si trattano con rispetto, i loro negoziati – anche quelli più difficili e ostinati – saranno comunque volti a trovare un terreno comune. E questo significa che alla fine si potranno raggiungere soluzioni reciprocamente accettabili.
Multipolarità e policentrismo non sono solo concetti; sono una realtà destinata a durare. Quanto presto e con quanta efficacia potremo costruire un sistema mondiale sostenibile in questo contesto dipende ora da ciascuno di noi. Questo nuovo ordine internazionale, questo nuovo modello, può essere costruito solo attraverso sforzi universali, un’impresa collettiva a cui tutti partecipano. Voglio essere chiaro: l’era in cui un gruppo selezionato di potenze più forti poteva decidere per il resto del mondo è finita, ed è finita per sempre.
Questo è un punto che ricorderanno soprattutto coloro che provano nostalgia per l’epoca coloniale, quando era consuetudine dividere i popoli tra coloro che erano uguali e coloro che erano, per usare la famosa frase di Orwell, «più uguali degli altri». Conosciamo tutti questa citazione.
La Russia non ha mai preso in considerazione questa teoria razzista, non ha mai condiviso questo atteggiamento nei confronti di altri popoli e culture, e non lo faremo mai.
Noi rappresentiamo la diversità, la polifonia, una vera sinfonia di valori umani. Il mondo, come sono certo concorderete, è un luogo noioso e incolore quando è monotono. La Russia ha avuto un passato molto turbolento e difficile. La nostra stessa statualità è stata forgiata attraverso il continuo superamento di colossali sfide storiche.
Non intendo insinuare che altri Stati si siano sviluppati in condizioni di serra – ovviamente no. Eppure, l’esperienza della Russia è unica sotto molti aspetti, così come lo è il paese che ha creato. Sia chiaro: questa non è una pretesa di eccezionalità o superiorità; è semplicemente una constatazione di fatto. La Russia è un Paese unico.
Abbiamo attraversato numerosi sconvolgimenti tumultuosi, ognuno dei quali ha offerto al mondo spunti di riflessione su una vasta gamma di questioni, sia negative che positive. Ma è proprio questo bagaglio storico che ci ha preparati meglio alla situazione globale complessa, non lineare e ambigua in cui ci troviamo tutti ora.
Attraverso tutte le sue prove, la Russia ha dimostrato una cosa: è stata, è e sarà sempre. Sappiamo che il suo ruolo nel mondo sta cambiando, ma rimane invariabilmente una forza senza la quale la vera armonia e il vero equilibrio sono difficili – e spesso impossibili – da raggiungere. Questo è un fatto provato, confermato dalla storia e dal tempo. È un fatto incondizionato.
Nel mondo multipolare odierno, questa stessa armonia ed equilibrio possono essere raggiunti solo attraverso uno sforzo comune e congiunto. E voglio assicurarvi oggi che la Russia è pronta per questo compito.
Grazie mille. Grazie.
Vladimir Vladimirovich Putin
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Civiltà
La lingua russa, l’amicizia fra i popoli, la civiltà



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Civiltà
Charlie Kirk e la barbarie social

Charlie Kirk è stato brutalmente ammazzato durante uno dei suoi comizi in un campus universitario. Le immagini del momento in cui il proiettile gli ha perforato la gola hanno fatto il giro del mondo e sono raccapriccianti.
Questo assassinio porterà con sé implicazioni politiche enormi e imprevedibili. Kirk è uno dei principali artefici della vittoria elettorale di Trump, era in grado di spostare valanghe di voti perché in qualche suo modo calamitava e trascinava i più giovani, era un fenomeno generazionale imponente. Tant’è che la notizia dell’attentato ha colpito in primo luogo i ragazzi: i boomer delle colonie non lo conoscevano nemmeno, era fuori dal loro radar e lambiva solo tangenzialmente le loro stupide bolle algoritmiche.
Al di là di tutte le analisi che ora si ricameranno sul fatto, qui si vuole soltanto mettere in luce una cosa. Preme segnalare il punto di non ritorno a cui è giunta la fu-civiltà occidentale, intesa non nel senso dei Grandi Cattivi accomodati nella cabina di regia a godersi lo spettacolo di cui essi stessi muovono i fili, ma nel senso del resto del mondo: della moltitudine di comparse che quello spettacolo inscenano ogni giorno, per lo più inconsapevoli, obbedienti, passivi, acefali, rimbambiti.
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Tra loro, svettano sì gli scribacchini servi, coi loro inestirpabili automatismi verbali, che si precipitano a descrivere la vittima come putiniano, negazionista climatico, sostenitore della disinformazione sul COVID. Giusto per far intendere al lettore diffuso, già indottrinato a puntino, che quella fatta fuori, in fondo, non era una gran bella persona e dunque pazienza.
E il bravo cittadino progressista, russofobo, superinoculato, raccoglitore differenziato e guidatore di auto elettriche, recepisce la notizia e la archivia senza soverchi traumi.
Ma svettano ancor più quelli che si sentono in dovere di esprimere sui social la propria esultanza, protetti dallo scudo dell’anonimato di qualche nickname improbabile. Sono parecchi gli ellegibittì a fare festa, anche perché guarda caso la pallottola è andata a segno proprio quando Kirk aveva appena finito di rispondere a una domanda sugli stragisti trans.
Subito dietro, i pro-pal pavloviani, che saltellano felici per la morte violenta di un filoisraeliano. Ce ne sono tanti, tantissimi, a commentare in modo indicibile. Da quello che «uno sporco sionista in meno, avanti così»; a quell’altro che si guarderebbe «all’infinito in loop il video dell’attentato». Fino alla maestrina finto-moderata che spiega come Kirk ritenesse che i bambini palestinesi sono massacrati da Hamas e che Israele ha il diritto di difendersi. E dunque – ipertesto – tutto sommato questa morte ci sta, a parziale compensazione della strage della Striscia.
Ecco emergere dall’etere il sottoprodotto deteriore della polarizzazione ideologica indotta. Scatta in automatico la furia disumana e codarda dei tastieranti compulsivi, parassiti attempati con voluttà di orrore praticato per interposta persona. Schiumano rabbia e se ne vantano, sghignazzano e gioiscono alla vista di un giovane uomo che muore. Nessuna differenza dai soldati israeliani che riprendono le torture ai palestinesi e gli spari alla folla, e ridono roboticamente dei propri misfatti.
Tutto questo fa veramente orrore. Vedere i pochi secondi in cui da un ragazzo, padre di famiglia, fluisce via la vita, senza scampo, in un fiotto inarrestabile di sangue, evoca alla mente la morte di Ettore, colpito alla gola, «mortalissima parte», dalla lancia di Achille.
Ma lì c’era il combattimento, il corpo a corpo della battaglia finale tra uomo e uomo narrata dal bardo antico e tramandata ai posteri con la forza didascalica dell’epos: qui, nella confusione ormai piena tra il virtuale e il reale, il vile attacco a una persona inerme schizza in mondovisione come un qualsiasi trailer hollywoodiano.
E, barbarie nella barbarie, quell’atto infame scatena l’esaltazione isterica dei belluini sedentari, pronti ad applaudire la soppressione di un proprio simile che non la pensa come loro. Homo homini lupus, i barbari del terzo millennio vogliono così, sostenuti dalla potenza di fuoco dell’intermediario informatico che sa moltiplicare all’infinito e senza rete l’ebbrezza della ferocia più abietta e sanguinaria.
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La sparata assassina non la fai più al bar, dove qualcuno ti vede in faccia, la butti in pasto al popolo smanettatore e perdigiorno, e ti godi l’approvazione dei compagni d’asilo e del suo gestore, che ti premia perché la violenza tira.
Sarebbero dunque questi, i saggissimi antisistema? Quelli che dovrebbero insegnare alle nuove generazioni a pensare con la propria testa e a vivere da persone libere?
Sono relitti senza pietas, senza onore, senza dignità. Liquidatori delle ultime vestigia di una civiltà.
L’assassinio di Charlie Kirk sta aprendo un altro abisso di male, e di vergogna. Forse era proprio quello l’intento di chi lo ha voluto.
Elisabetta Frezza
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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
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