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Renovatio 21 recensisce House of Gucci

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Era un film atteso, perché della sua produzione si parlava da decenni. Era atteso anche e soprattutto perché era una grande prova hollywoodiana su una vicenda tutta nostrana. Infine, nonostante gli inciampi degli ultimi tempi, non si può non aspettarsi un film rilevante da Ridley Scott.

 

La pellicola, invece, rivela tantissimo altro: dalla sciatteria all’agenda gender che oramai informano le opere anche dei maestri – quelli che, dall’alto dei loro milioni e delle loro carriere, dovrebbero essere liberi – a considerazioni più oscure riguardo alla distruzione delle imprese famigliari a vantaggio dei grandi fondi allineati, come da verbo del Grande Reset e, soprattutto, a pensieri che facciamo da queste parti riguardo la Cultura della Morte e all’innalzamento dei carnefici.

 

Andiamo con ordine.

 

House of Gucci è la storia degli ultimi tre lustri circa della famiglia Gucci, gli imprenditori della pelletteria di superlusso famosi in tutto il mondo. Il film è tratto dal libro omonimo di Sara Gay Forden. Nei 15 e passa anni da quando fu iniziato lo sviluppo, si sono altalenati una serqua di sceneggiatori nonché vari registi (il taiwanese Wong Kar-Wai, la figlia di Scott Jordan) prima che il lavoro tornasse nelle mani di Ridley Scott. Sembrava, ad un certo punto, che i protagonisti dovessero essere Angelina Jolie e Leonardo di Caprio, poi Margot Robbie – che da Lady Gaga è un bel salto.

 

Lady Gaga, vero nome Stefani  Germanotta, è quindi la scelta finale per interpretare Patrizia Reggiani, la donna che per la giustizia italiana è mandante dell’omicidio del marito Maurizio Gucci, qui interpretato dalle volto poco comprensibile di Adam Driver, che per qualche motivo è ovunque ad Hollywood.

 

La figlia Allegra Gucci, che ha pubblicato pochi mesi fa un libro con la sua verità e che per qualche motivo non è presente nel film (dove è mostrata solo la sorella Alessandra: perché? Lettera degli avvocati? Oppure strane necessità morali di sceneggiatura per mostrare un divorzio senza troppi figli?) ha messo in risalto varie incongruenze, inaccettabili per la famiglia: il padre non era un viziato inconsistente, la madre non era una che si imbucava alla feste, era una corteggiata nella Milano di quegli anni.

 

Noi aggiungiamo: a vedere le foto, non si capisce cosa c’entri la Reggiani con la bruttezza esibita dal personaggio di Lady Gaga.

 

 

È omesso pure il fatto che la Reggiani aveva subito un’operazione al cervello pochi anni prima. Una questione non di poco conto se si vuole raccontare una storia, ma forse qui prevalgono altre logiche.

 

Di nostro, abbiano notato altre cose assurde, davvero di sciatteria impensabile. Le maghe non parlavano in TV a inizio anni Ottanta, perché la diretta per le TV private sarebbe arrivata un decennio dopo. In una scena, Maurizio Gucci legge il giornale nel lussuoso salotto: è Il Foglio, giornale che sarebbe nato un decennio e passa dopo, peraltro mostrato in modo illogico (la prima pagina è una pagina centrale).

 

Sono quisquilie sì. Tuttavia c’è anche, forse, un accenno ad una piccola storia nella storia che forse in qualche modo si voleva pure significare, visto che è presente nel libro della Sara Gay Forden: il contatto con Delfo Zorzi, l’ex ordinovista lungamente indagato per Piazza Fontana ora assolto da tutte le accuse in via definitiva, poi imprenditore di estremo successo di commercio di Alta Moda in Giappone, Paese di cui è divenuto cittadino. Il Giappone ha un suo ruolo nella pellicola: vediamo Aldo Gucci (Al Pacino) che discute con il fratello Rodolfo Gucci (Jeremy Irons) l’espansione del marchio nel Sol Levante, dove sarebbe pronto ad aprire un negozio in un grande centro commerciale, dice di voler imparare la lingua, nella boutique di Nuova York saluta calorosamente clienti nipponici.

 

All’epoca dell’omicidio alcuni giornali come L’Unità scrissero che Zorzi, che allora era ancora un babau per la stampa italiana, aveva prestato a Maurizio Gucci 30 miliardi di lire. Tuttavia, nel sommario già dicevano che il PM confermava il prestito ma negava ci fosse «una pista nera nelle indagini sul delitto di via Palestro».

 

Che vi fosse l’intenzione di andare lì?

 

No. L’idea alla base, che dovrebbe essere altamente offensiva per l’Italia e per la storia stessa, è quella che il cattivo nel film è il patriarcato famigliare italiano stesso. I Gucci, e Gucci come società, nella pellicola sono solo maschi. Secondo il racconto di Scott donne presenti sono o morte, o insignificanti, o sottomesse. La realtà è un’altra: il rilancio di Gucci si deve anche e soprattutto ad una donna, l’americana Dawn Mello, che fece la strategia di rebranding del gruppo.

 

Pazienza: bisogna invece far vedere Lady Gaga-Gucci trattata perennemente a pesci in faccia da questo mondo infame e maschilista (che osa pure giocare a palla in riva al Lago di Como), a suo modo viziato e infantile – perché maschio, finanche perché maschio italiano (Pacino e Jared Leto sono vere macchiette). Gli uomini le ricordano in continuazione che lei non ha voce in capitolo, che deve stare zitta e accettare quello che decidono per lei.

 

 

Non è impossibile, a questo punto, solidarizzare con la protagonista, che ricordiamolo è mandante di un assassinio. Pensiamo alla scena in cui Patrizia, abbandonata dal marito che torna endogamicamente alle amiche d’infanzia di Sankt Moritz, aspetta fuori di casa il marito e lo implora  di tornare, perché la figlia parla solo di lui, il quale risponde che l’ha vista due settimana fa…

 

Ci chiediamo, a questo punto se non fosse questo il fine di tutto: farci avanzare nella parte più oscura….

 

La presenza di Lady Gaga qui non sarebbe quindi  casuale: è la tizia dei video esoterici con sessuomania rituale; è quella che, con endorsement dell’ambasciata USA a Roma, fece, da idolo LGBT, un concertone al Gay Pride in faccia al Vaticano; è quella ripresa con Marina Abramovic in foto inquietanti dove rimira persone immerse come in vasche di sangue.

 

 

Per aver pubblicato questa foto su Facebook (allora non eravamo bannati) fummo ricoperti di insulti da parte di quelli che sembravano proprio utenti con profilo arcobalenato o vacanze a Mykonos, che copincollavano sulla nostra pagina il testo, in tedesco, di una canzone della loro beniamina, Scheise («merda» in tedesco). Con evidenza, la trovavano una cosa giusta ed interessante da fare, soprattutto ci colpì come l’attacco sembrava coordinato. Avevamo toccato la loro divina, quel ciclico simbolo di femminilità estrema (Wanda Osiris, Mina, la Bertè) e talvolta bruttina (la Callas, Madonna, Dalida, Bjork) a cui paiono volersi sottomettere generazione dopo generazione le popolazioni omosessuali.

 

Insomma, Lady Gaga è una diva ctonia, una dea della trasgressione che vira però verso il nero. Chi meglio di lei per canalizzare la storia di un’assassina nel bruto mondo patriarcale? Le speculazioni sul fatto che le due dovessero incontrarsi, come si usa tra attore e personaggio reale, furono messe a tacere dalla produzione, specie dopo che la Reggiani stessa aveva detto all’ANSA di essere «infastidita dal fatto che Lady Gaga interpreti me nel nuovo film di Ridley Scott senza aver avuto la considerazione e la sensibilità per venirmi incontro».

 

La possibilità, tuttavia, da qualche parte, pur se evitata, era contemplabile.

 

Il britannico Sunday Mirror riportò una fonte anonima che disse che «questo film è stato il progetto di passione di Gaga per molto tempo. È determinata a perfezionare il ruolo e ha lavorato tutte le ore per interpretare correttamente Patrizia (…) I produttori hanno deciso che non avrebbe incontrato Patrizia».

 

Perché: «I produttori erano molto consapevoli di non voler avallare o sostenere il terribile crimine commesso da Patrizia».

 

Tra Lady Gaga e la Reggiani poteva scattare quindi un qualcosa che, ad esempio, non scatterebbe qualora al posto della Germanotta vi fosse stata Margo Robbie, che di fatto ha interpretato in tranquillità una mandante di violenze nel film sulla pattinatrice olimpica terribile del film Tonya.

 

Questo, forse, per il carattere oscuro del personaggio della Gaga, per le immagini ricoperta di sangue, le accuse di satanismo, tali da cacciare i suoi concerti fuori dall’Indonesia?

 

Non lo sappiamo, ma crediamo con fermezza nella corsa del mondo moderno verso la comprensione, se non l’innalzamento morale, dei carnefici. Tanti segni ce lo fanno credere: l’enfasi assoluta sulla difesa dei condannati a morte (purché non in Arabia Saudita…), la curiosità sempre più morbosa verso i protagonisti di cronaca nera (la Franzoni, Erika e Omar, il caso di Garlasco, Amanda Knox),  le lettere d’amore, con proposta di matrimonio, che i serial killer ricevono in carcere.

 

Essendo convinti che il mondo stai andando incontro al ritorno del sacrificio umano, sappiamo che questa meccanica è inevitabile: nel rovescio della Civiltà cristiana, la vittima, l’Agnello, è dimenticata, mentre il lupo, il carnefice, il latore della morte è esaltato. Solo tramite la pubblicità dell’assassinio, la sua umanizzazione, il mondo arriverà ad uno stadio dove la dignità umana è liquefatta, e quindi l’umanità diventa spendibile, sfruttabile, controllabile e terminabile a piacimento.

 

Questo è uno dei pensieri che possiamo fare vedendo che dobbiamo empatizzare con una Lady Gaga che interpreta una vedova nera. Non possiamo vedervi un ulteriore piccolo passo degli idoli della Necrocultura e dell’insegnamento sanguinario che vogliono trasmetterci, come da ordine del loro maestro.

 

Tuttavia, aggiungiamo una considerazione di storia occulta ulteriore.

 

Il film è leggibile anche come il crepuscolo non solo di una famiglia (e già qui, ci sarebbe da dire quanto il messaggio sia chiaro), ma della stessa industria famigliare manifatturiera. L’entrata del fondo del Bahrein Investcorp, che prima rileva un ramo della famiglia e poi rileva tutto il resto, non è vista nel film come un atto soverchiante che pone fine ad una dinastia, ma come qualcosa di, in fondo, naturale. La finanziarizzazione dell’industria dei gruppi famigliari, sostituiti dal capitale globale, insomma, non è poi una così brutta cosa.

 

Ciò ha un significato preciso. Investcorp nel 1999 vendette Gucci al gruppo Kering, i parigini che hanno in mano, oltre a Gucci, Yves Saint Laurent, Balenciaga, Alexander McQueen, Bottega Veneta, Boucheron, Brioni, Pomellato, Puma.

 

Si tratta, quindi di un’altra Holding internazionale, sia pure verticalizzata sulla moda di lusso.

 

La nuora del capo del gruppo, François Pinault (il magnate che si è impadronito, fra le altre cose, di Punta della Dogana a Venezia), è nel film sui Gucci: l’attrice Salma Hayek interpreta il ruolo di Pina, la maga che avrebbe presentato alla Reggiani i sicari. Non deve sorprendere che, quindi, il film abbia scatenato le reazioni della famiglia, ma non dell’azienda che porta quel nome, la quale anzi avrebbe cooperato con la produzione dando accesso all’archivio di abiti e arredo.

 

Si tratta di quell’allineamento delle grandi aziende verso una grande, unica narrazione, la convergenza che chiamano «Grande Reset». A dispetto degli esseri umani coinvolti, l’ultima parola, grazie al megafono della comunicazione di media, cinema e arte, l’avrà sempre il grande capitale. Gucci, quindi, è la storia secondo il potere economico che detiene il marchio e secondo Hollywood – in un continuum la cui giunzione è la Salma Hayek – non di quello che dicono le famiglie.

 

Tra parentesi, non dovrebbe sorprendere nemmeno che nella pellicola alla 56enne Hayek-Pinault sia consentito di mostrare il sempre abbondante seno svestito, ricoperto appena da un sottile strato di fango.

 

Chiudiamo con un altro pezzo di storia occulta, apparentemente più leggero.

 

Ridley Scott, il regista che è stato quasi due decenni dietro a questo progetto, ha un legame preciso con la Milano di quegli anni: sua moglie, Giannina Facio.

 

Forse la ricordate come moglie del Gladiatore, o presenza in altri film di Scott come Hannibal, Black Hawk Dawn, Un’ottima annata, Prometheus.

 

In verità, i più anziani la possono ricordare come presenza nella TV commerciale italiana di quegli anni, ad esempio nella trasmissione di Italia 1 erede di Drive In chiamata Emilio (1989), dove la Facio conduceva con il commissarrio Zuzzurro e Gaspare ed Enrico Beruschi.

 

La Facio, costaricana, nella Milano dell’esplosione della TV commerciale assumeva, in quel demi-monde di star e starlette, un ruolo centrale. Uno dei suoi amici era il Lele Mora degli esordi, che molto in realtà deve alla Facio.

 

«Come riusciva ad attovagliare così tante vedette?» ha chiesto Stefano Lorenzetto in un’intervista a Mora due anni fa. «Me le portava una cara amica, Giannina Facio, la ex di Julio Iglesias, attuale compagna di Ridley Scott, il regista di Blade Runner e Il gladiatore. Aveva addirittura preso il domicilio fiscale a casa mia».

 

Secondo un libro di Fabrizio Corona, fu Mora in versione «cupido» a fare incontrare il cineasta – tra i massimi viventi – e la Facio, ora produttrice di House of Gucci.

 

Scott, insomma, ha in casa un po’ di Milano di quegli anni, tuttavia  è più vicino alla Milano di Lele Mora che a quella della dinastia Gucci. Non crediamo siano la stessa cosa, anche se una delle cose non espresse bene nel film è che dall’alta società al mondo più basso del crimine le distanze si possono annullare in un baleno.

 

Renovatio 21 dà tutta la sua solidarietà alla famiglia Gucci. La produzione di kolossal per celebrare la fine delle imprese famigliari è un orrore che dovrebbe offendere tutti noi.

 

Come ci offende anche qui la bruttezza cinematica di Lady Gaga, che giustamente ha cantato all’inaugurazione della presidenza Biden, che è la presidenza del mondo della menzogna, della decadenza, della corruzione, della perversione e della demenza.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Immagine promozionale dal sito MGM pubblicata secondo Fair Use.

 

 

 

 

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Microsoft vuole bandire le donne formose dai videogiuochi?

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Il colosso tecnologico statunitense Microsoft scoraggia l’utilizzo di figure  femminili eccessivamente formose nei videogiochi, secondo le linee guida aggiornate pubblicate martedì dalla società.

 

Nell’ambito della sua iniziativa di inclusività, Microsoft ha offerto agli sviluppatori un elenco di domande da considerare mentre lavorano sui loro prodotti per verificare se stanno rafforzando eventuali stereotipi di genere negativi.

 

La guida, denominata «Azione per l’inclusione del prodotto: aiutare i clienti a sentirsi visti», include vari stereotipi che il gigante dei giochi ritiene sia meglio tralasciare.

 

Secondo la guida, i progettisti di giochi dovrebbero verificare se non stanno introducendo inutilmente barriere di genere e dovrebbero assicurarsi di creare personaggi femminili giocabili che siano uguali in abilità e capacità ai loro coetanei maschi, e dotarli di abiti e armature adatti ai compiti.

 

«Hanno proporzioni corporee esagerate?» chiede la linea guida.

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I personaggi femminili svolgono un ruolo significativo nell’industria dei giochi e sono diventati i preferiti dai fan nel corso degli anni. Il capostipite della genìa è sicuramente Lara Croft, protagonista della fortunata serie Tomb Raider, che iniziò a spopolare negli anni Novanta sulla piattaforma della Playstation 1.

 

Il personaggio aveva come caratteristica fisica incontrovertibile seni straripanti, che la grafica dell’epoca rendeva grottescamente attraverso poligoni piramidali. Secondo un meme che circola su internet, tale grafica potrebbe essere alla base dell’enigmatico, estremista design della nuova automobile di Tesla, il Cybertruckko.

 

 

 

Di recente è emerso che esistono società di consulenza che portano le case produttrici di videogiochi a inserire elementi politicamente corretti nelle loro storie: più personaggi non-bianchi, gay, trans, più lotta agli stereotipi maschili – un vasto programma nel mondo dell’intrattenimento giovanile.

 

In un recente videogioco sono arrivati a dipingere una criminale parafemminista uccidere Batman.

 

 

L’incredibile sviluppo, lesivo non solo delle passioni dei fan ma propriamente del valore dell’IP (la proprietà intellettuale; i personaggi di film, fumetti e videogiochi questo sono, in termini legali ed economici) è stato letto come una dichiarazione di guerra del sentire comune, con l’esecuzione del Batmanno come chiaro emblema del patriarcato e della concezione del crimine come qualcosa da punire.

 

Sorveglia e punire: non l’agenda portata avanti negli USA dai procuratori distrettuali eletti con finanziamenti di George Soros, nelle cui città, oramai zombificate, ora governa il caos sanguinario e il disordine più tossico.

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No al Jazz. Sì al Dark Jazz

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In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.   Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.   A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.   I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.

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A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.   Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.   Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.   A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.     Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».   Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.

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È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.   Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.     Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.   O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?   Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.   Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…

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Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.   Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.     Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.  

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Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.       Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.   Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.   C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.   No?   Roberto Dal Bosco

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Nella nuova Notre Dame vi saranno molte vetrate «contemporanee»

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È stato appena insediato dal Ministro della Cultura il comitato incaricato di selezionare i progetti delle sei vetrate d’arte contemporanea che orneranno le cappelle laterali della Cattedrale di Parigi. Un «gesto contemporaneo» imposto dal capo dello Stato e sostenuto dall’arcidiocesi.

 

George Braque amava dire che «il progresso nell’arte non consiste nell’estendere i propri limiti ma nel conoscerli meglio». La saggezza del pittore non è propriamente quella di un capo di Stato, e l’identico restauro di Notre-Dame de Paris non dovrebbe prescindere dal «gesto contemporaneo» promesso da Emmanuel Macron nel dicembre 2023.

 

È questo da parte dell’inquilino dell’Eliseo il segno di un desiderio di vendetta, un po’ ferito dalla sua incapacità di imporre l’idea di costruire una guglia contemporanea per sostituire quella costruita da Viollet-le-Duc? O l’ansia di passare di lì a pochi anni nell’oblio della Storia senza aver potuto lasciare un segno del suo tempo alla guida del Paese?

 

In ogni caso, è stato con grande clamore che l’8 marzo 2024 è stato lanciato il progetto volto a progettare le sei vetrate contemporanee che saranno inflitte a Notre-Dame. Il ministro della Cultura, Rachida Dati, ha insediato dal Salon des Maréchaux, un comitato «artistico» composto da venti membri e presieduto dall’ex direttore del Centre Pompidou, Bernard Blistène.

 

Questo paladino del lavoro applicato all’arte avrà il compito di lanciare un bando, per poi designare la coppia vincitrice (un artista e un laboratorio di vetro), nel novembre 2024. Per dare una panoramica dell’uomo, ha firmato una rubrica su Le Soir de Bruxelles nel 2018, dal titolo «Non c’è niente di peggio del nazionalismo, niente di peggio del ritiro nell’identità».

 

Infine, il successivo 7 dicembre, il prototipo delle future vetrate verrà presentato ai visitatori che entreranno per la prima volta nella navata della cattedrale restaurata e restituita al culto. Questo giorno vedrà la riapertura della cattedrale al pubblico (il giorno successivo sarà un momento dedicato) e il prototipo delle vetrate colorate dovrebbe essere presentato nella cattedrale.

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Dal 2020, alcuni pensavano che il «gesto contemporaneo» sarebbe stato risparmiato a Notre-Dame: un primo progetto di installazione di vetrate ha suscitato la vigorosa reazione dell’ex ministro della Cultura: «La Francia è firmataria della Carta di Venezia, che ha stabilito dal 1962 l’etica dei restauri e delle creazioni nei monumenti storici e vieta la sostituzione di un elemento esistente con un altro», ha indicato a Le Figaro.

 

«In ogni caso, le vetrate delle cappelle sono classificate come monumenti storici e parte integrante del monumento. Sembra impossibile sostituirli», ha avvertito Roselyne Bachelot.

 

Ma l’attuale capo dello Stato, non estraneo alle retromarce ed esperto nell’arte di far convivere gli opposti, non intendeva fermarsi qui. Avrà tuttavia contro di sé l’intera schiera di curatori e storici dell’arte, con forti venti contrari a un progetto che, secondo loro, ignora l’eredità di Viollet-le-Duc.

 

«Perché sostituire le sue vetrate, se non per disprezzo verso l’artista? Non solo non stiamo sostituendo un’opera esistente, ma il restauro dell’architetto, durato decenni davanti agli occhi dell’Europa, è stato un’opera totale», spiega Maryvonne de Saint Pulgent, saggista ed ex alta funzionaria.

 

Stessa storia con Alain Finkielkraut che critica su France Culture le creazioni «artistiche» imposte alla cattedrale per «cattivo gusto». Ma il progetto sembra davvero sulla buona strada: «C’è un tempo per il restauro, che dopo i dibattiti, è stato portato avanti in modo identico, e un tempo per la creazione, l’incarnazione della traccia del 21° secolo», avverte al Ministero della Cultura.

 

Inoltre, l’esecutivo può contare su un forte alleato nella persona dell’arcivescovo di Parigi, che sostiene un «gesto contemporaneo» che, possiamo scommetterci, sarà all’altezza della liturgia contemporanea…

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Lorenzo3003 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 

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