Spirito
Monsignor Viganò attaccato in TV
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La trasmissione DiMartedì del canale TV La7, facente parte del gruppo Cairo (che controlla anche il Corriere della Sera) attacca frontalmente monsignor Viganò mostrando un suo video e lasciando commentare l’ospite Bruno Vespa «che Dio lo perdoni».
Durante il programma Massimo Giannini, direttore del quotidiano della famiglia Agnelli La Stampa, arriva a definire monsignor Viganò «un mascalzone».
Da quanto risulta a Renovatio 21, la trasmissione non ha contattato Monsignor Viganò per chiedere conto delle sue posizioni, preferendo mostrare lo spezzone agli ospiti (tra cui il politico Alessandro Di Battista) per ottenerne la reazione.
Un giornalista non avrebbe dovuto cercare di sentire l’interessato?
Non importa. Sono domande che, nello stato attuale, non hanno più alcun senso.
Un prelato che viene apostrofato come «mascalzone» da un giornalista in TV non lo avevamo mai visto. Anche Vespa, che le cose vaticane dovrebbe averle un po’ frequentate, dovrebbe ammetterlo.
Ma non ha importanza: gli attacchi a Sua Eminenza vengono portati ad una persona non si può nemmeno difendere.
Pensi il lettore a definire questo atto.
Geopolitica
«Dobbiamo porre fine alla guerra il prima possibile»: Zelens’kyj incontra il segretario di Stato vaticano Parolin
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L’Ucraina vorrebbe che i combattimenti con la Russia terminassero il più presto possibile per porre fine alla perdita di vite umane, ha affermato il presidente ucraino Volodyrmyr Zelens’kyj.
Il leader ucraino stava parlando con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano in visita a Kiev. Lo Zelens’kyj ha ringraziato la Santa Sede per un «forte segnale» di sostegno all’Ucraina.
Il cardinale Segretario di Stato «ha ribadito la vicinanza del Papa e l’impegno a trovare una pace giusta e duratura per la martoriata Ucraina», ha scritto la segreteria di Stato Vaticana su X.
Oggi, il Cardinale Segretario di Stato, Pietro #Parolin, ha incontrato il Presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelenskyy (@ZelenskyyUa), al quale ha ribadito la vicinanza del Papa e l’impegno a trovare una pace giusta e duratura per la martoriata #Ucraina. pic.twitter.com/I743IfeIt6
— Segreteria di Stato della Santa Sede (@TerzaLoggia) July 23, 2024
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«Penso che tutti noi capiamo che dobbiamo porre fine alla guerra, il prima possibile ovviamente, per non perdere vite umane», ha dichiarato lo Zelens’ky in lingua inglese, secondo il video pubblicato sul suo canale Telegram.
La scorsa settimana, lo Zelens’kyj ha detto alla BBC che sperava di porre fine alla «fase calda» della guerra «entro la fine di quest’anno» e che nessuno voleva che il conflitto continuasse «per altri dieci anni o più».
Nella stessa intervista, tuttavia, ha chiarito che la sua soluzione era che gli alleati dell’Ucraina in Occidente concordassero di sostenere la sua cosiddetta «formula di pace» e la presentassero alla Russia come un blocco unito.
Tale «formula di pace» è un elenco di richieste di Zelensky rivelate per la prima volta nel novembre 2022, che vanno dal ritiro della Russia da tutti i territori che l’Ucraina rivendica come propri, tra cui Crimea e Donbass, al pagamento delle riparazioni, ai processi per crimini di guerra per la leadership russa e all’adesione dell’Ucraina alla NATO. Mosca l’ha respinta come una proposta delirante.
Un mese prima di pubblicare la sua «formula», lo Zelensky aveva pure firmato un decreto che vietava qualsiasi negoziazione con la Russia finché il presidente Vladimir Putin fosse rimasto al potere.
L’improvviso interesse dello Zelens’kyj nel porre rapidamente fine al conflitto ha rappresentato un netto cambiamento di tono rispetto a marzo, quando Papa Francesco aveva esortato Kiev a mostrare «il coraggio della bandiera bianca» e a negoziare con Mosca.
«La nostra bandiera è gialla e blu», rispose allora il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. «Non innalzeremo mai altre bandiere».
Papa Francesco aveva fatto due offerte per mediare nel conflitto con la Russia l’anno scorso, solo per essere respinte da Kiev entrambe le volte. L’ultimo rifiuto è arrivato a giugno, appena prima della grande offensiva ucraina che si è rivelata un fallimento totale e ha causato vittime ingenti.
Poi nel giugno 2023 ci fu inflitto lo spettacolo disarmante della visita, fatta con espressione timida e testa un po’ china, del cardinale Zuppi a Kiev, dove si è trovato di fronte la faccia di bronzo di Zelens’kyj – il cui Paese perseguita i monaci ortodossi e mette a tacere i sacerdoti cattolici che osano pregare per la pace – che non è, come dire, intenzionato a servirsi del canale della Santa Sede, e nemmeno vede nella religione uno strumento necessario al potere.
Lo Zelens’kyj potrebbe cambiare la sua retorica a causa del timore che l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump possa tornare alla Casa Bianca e modificare la politica di Washington di sostegno incondizionato a Kiev, ha affermato lunedì l’esperto polacco di relazioni internazionali Witold Sokala.
La Russia ha ripetutamente affermato di essere disposta a negoziare la fine delle ostilità con l’Ucraina. Il mese scorso, Putin ha elencato una serie di termini per un cessate il fuoco, tra cui la rinuncia ufficiale di Kiev alle aspirazioni NATO, il ritiro dalle regioni russe e la revoca di tutte le sanzioni occidentali alla Russia.
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Lo scorso settembre Mikhailo Podolyak, uno dei principali consiglieri del presidente Zelens’kyj, aveva dichiarato che Kiev non avrebbe accettato la mediazione di Papa Francesco nel conflitto con Mosca, perché il pontefice «filo-russo» tradirebbe l’Ucraina. Lo stesso, in una focosa intervista al Corriere della Sera, aveva definito il Papa uno «strumento della propaganda russa» a causa delle affermazioni del pontefice secondo cui i cattolici in Russia sono eredi di una grande tradizione storica.
Sempre secondo il controverso Podolyak, il papa «ha dimostrato di non essere un esperto di politica e continua a ridurre a zero l’influenza del cattolicesimo nel mondo».
Si tenga presente che a inizio conflitto Bergoglio aveva pure baciato pubblicamente, durante un’udienza dello scorso anno, la bandiera di una «centuria» del golpe di Maidan. A sua volta, il patriarca greco-cattolico ucraino, in comunione con Roma, si è scagliato, come altri prelati ucraini, contro il documento filo-omosessualista Bergogliano Fiducia Supplicans.
Lo scorso maggio lo Zelens’kyj, che ha spinto per la persecuzione della Chiesa Ortodossa d’Ucraina (UOC), aveva proclamato che gli ucraini sono il popolo eletto di Dio. La portavoce degli Esteri del Cremlino Maria Zakharova aveva replicando parlando di «overdose di droga».
La repressione dalla chiesa ortodossa potrebbe essersi spostata a quella cattolica: come riporta Renovatio 21, un sacerdote greco-cattolico (cioè in comunione con il papa, ma di rito bizantino) della diocesi della città dell’Ucraina occidentale Uzhgorod è stato costretto a scusarsi dopo un’omelia in cui invocava il Signore per avere la pace tra il popolo russo e quello ucraino.
Come riportato da Renovatio 21, i sacerdoti cattolici – come le donne, i malati di mente e i sieropositivi HIV – non sono risparmiati dalla leva militare obbligatoria nella guerra contro la Russia, mentre i circensi sono esentati.
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Politica
La conversione di JD Vance al cattolicesimo
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Politica
Il ministro sionista Ben Gvir infiamma i religiosi: «ho pregato sulla Spianata, lo status quo è cambiato»
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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Proprio mentre Netanyahu è a Washington il ministro della Sicurezza leader dell’ultradestra incoraggia i nazionalisti israeliani a recarsi a pregare pubblicamente al «monte del Tempio», dove oggi sorge la moschea di al Aqsa. La polizia: «Nessuna autorizzazione». Gli stessi leader religiosi ultra-ortodossi contrari. Sullo sfondo le pressioni per entrare nel gabinetto di guerra.
Punta tutto sul discorso di questa sera al Congresso Benjamin Netanyahu, che si trova a Washington per il viaggio da lui tanto agognato durante il quale difenderà le proprie posizioni sulla guerra a Gaza davanti al presidente Joe Biden, ma anche a Kamala Harris e a Donald Trump.
Intanto, però, in queste ore da Gerusalemme l’ennesima sfida alla portata reale della sua leadership in Israele arriva da Itamar Ben Gvir, il ministro della Sicurezza interna, leader dell’ultradestra nella fragile coalizione di governo.
In un post pubblicato su X e in un discorso a un gruppo di sostenitori, Ben Gvir ha dichiarato pubblicamente di aver pregato durante una visita compiuta la scorsa settimana (scortato dalla polizia) al «monte del Tempio», la spianata nel cuore di Gerusalemme dove un tempo sorgeva il luogo più sacro degli ebrei e che oggi è dominata dalla moschea di al Aqsa, il sito islamico più venerato della Città Santa.
Nel delicatissimo gioco di equilibri su cui si fonda la convivenza a Gerusalemme da quando nel 1967 Israele ne ha assunto il controllo pieno, le regole dello «status quo» – che fu Moshe Dayan stesso a prescrivere di rispettare – prevedono che gli ebrei che lo desiderano possano visitare in alcuni orari la spianata, ma senza compiere nessun gesto ostentato di preghiera. Proprio questa prescrizione, dunque, viene messa nel mirino da Ben Gvir con una nuova prova di forza.
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Già il mese scorso, il ministro della Sicurezza pubblica aveva dichiarato che, per quanto lo riguardava, la preghiera ebraica era ora consentita sul «monte del Tempio», provocando una rapida reazione da parte dell’ufficio di Netanyahu, che si era affrettato a dichiarare che lo status quo era invariato. Ben Gvir, però, va avanti per la sua strada: «Ho pregato sul monte del Tempio e stiamo pregando sul monte del Tempio» ha ribadito oggi. «Io faccio parte della classe politica e la classe politica permette la preghiera ebraica sul monte del Tempio».
Una prospettiva del genere sarebbe un ulteriore cerino nella polveriera delle relazioni con la popolazione musulmana di Gerusalemme. Ma le reazioni più sdegnate alle dichiarazioni del ministro che guida l’ala più oltranzista del governo Netanyahu, sono arrivate dallo stesso mondo religioso ebraico.
A differenza da quanto sostengono i nazionalisti, infatti, il Gran Rabbinato ortodosso dice che gli ebrei non dovrebbero affatto entrare nel complesso, per non correre il rischio di calpestare il «Santo dei Santi», la parte più sacra del Tempio, le cui rovine potrebbero trovarsi sotto la spianata.
Il ministro degli Interni Moshe Arbel – che è un politico ultra-ortodosso – ha dichiarato oggi alla Knesset che «la grande blasfemia che è stata commessa non può passare sotto silenzio», esprimendo «protesta» per il comportamento di Ben Gvir.
«Chiedo al primo ministro di non permettere che lo status quo cambi sul monte del Tempio e, se ci saranno cambiamenti, di chiudere il monte del Tempio agli ebrei», ha dichiarato Moshe Gafni, il presidente di Degel Hatorah, un altro dei partiti religiosi ebraici.
Da parte sua anche Eyal Avraham, il comandante dell’Unità per i siti sacri della Polizia israeliana (che pur dipende da Ben Gvir), in un video pubblicato sul sito di informazione israeliano Walla ha ribadito che «la preghiera ebraica non è consentita sul monte del Tempio».
La fiammata religiosa di Ben Gvir arriva – non a caso – mentre nel governo Netanyahu è in corso uno scontro politico acceso sul gabinetto di guerra, nel quale il ministro della Sicurezza interna preme per entrare dopo l’uscita dall’esecutivo di Benny Gantz.
A quest’eventualità si oppone fermamente il ministro della Difesa Yoav Gallant. La mossa sul monte del Tempio sembrerebbe, dunque, l’ennesimo segnale identitario in un governo scosso da profonde tensioni. Dove con il sostegno di soli 64 deputati su 120 alla Knesset, ormai ogni forza politica può tenere sotto scacco il premier.
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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.
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Immagine di Shay Kendler via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication
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