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Martiri del ritorno del matriarcato

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La linea rossa, per quanto mi riguarda, è stata passata ieri, quando ho appreso che mio figlio, come i bambini di tutta Italia, a scuola ha osservato un minuto di silenzio per il caso di Giulia Cecchettin.

 

Lui, ovviamente, non ha capito bene di cosa si trattava. Ma è proprio così che deve andare. È così che funziona l’indottrinamento – specie nelle menti più giovani. Inserisci un’idea, per quanto non pienamente comprensibile, nella mente di qualcuno, con la forza della peer pressure, la pressione sociale della collettività. E non importa l’assimilazione, conta solo l’immissione del concetto. Il resto si vedrà dopo, il tempo per la coltivazione del seme ficcato dentro c’è tutto.

 

Quindi, i bambini a scuola sono obbligati (perché, hanno scelta?) a interessarsi di un fatto di un sanguinario fatto di cronaca, sposando poi una sua lettura precisa – il femminicidio… Nota bene: siamo ancora un pochino lontani dai tre gradi di giudizio previsti dalla legge, come dicono (dicevano) i garantisti di destra e sinistra. Di fatto, la magistratura tedesca ha firmato l’estradizione del sospetto poco fa.

 

Epperò, i bimbi devono contemplare la questione nel profondo, devono schierare il proprio essere riguardo la faccenda, il minuto di silenzio – il triste surrogato laico della preghiera (peraltro rivelatore: invece che connetterti al divino, di attacchi al niente) – serve proprio a questo.

 

Devo dedurne, quindi, che se a scuola perfino chi ha otto anni si deve occupare della cosa, essa è giocoforza un affare di Stato.

 

Parrebbe proprio così. Vale la pena, allora, guardare davvero lo scenario che ci si para innanzi, e nel profondo.

 

Innanzitutto, notate: la parola «femminicidio» – grande ottenimento dell’era delle pari opportunità, anzi impari: perché mai, si chiede qualche giurista rimasto tale – uccidere una donna dovrebbe essere meno grave di uccidere un uomo? – pian piano sta scemando. Si parla meno di femminicidio, stavolta, e si comincia ad usare, con voce tonante, un altro vocabolo fino a poco fa non usualissimo nella lingua comune: «patriarcato».

 

La parola campeggia ovunque. Manifestazioni con cori e striscioni sul patriarcato, tirate infinite nei talk show, lanci sui social dei politici, conferenze, programmi governativi.

 

A Padova si è vista una manifestazione a seguito della morte della ragazza di Saonara, si è visto un gonfalone chiarissimo: «Basta femminicidi e stupri! Violenza di genere: il problema è il patriarcato».

 

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A Firenze, stesse scritte, stessi concetti.

 

 

Lili Gruber definisce la premier Meloni «espressione della cultura patriarcale». Elly Schlein parla di «sradicare la tossica cultura patriarcale del possesso e del controllo sul corpo e sulla vita delle donne».

 

In TV mi è capitato vedere un sedicente scrittore (davvero, non sappiamo davvero che lavoro faccia, né ricordiamo come si chiamasse) che faceva, in stile rivoluzione culturale maoista, autocritica: davanti ad una serqua di volti televisivi femminili che annuivano, diceva, con avvilito accento meridionale, che sì, bisogna cambiare le cose, perché anche lui, una volta, era stato con una ragazza a cui voleva bene, ma ad un certo punto aveva pensato dentro di sé che il fatto che guadagnava più di lui – capita, se si dice che si lavora come «scrittori» – forse poteva inficiare il loro rapporto. Peccato gravissimo di patriarcato interiore, vero psicoreato confessato in pubblica piazza, e non si sa se davvero perdonato.

 

Ma mica c’è solo la sinistra: i ministri Sangiuliano, Valditara, Roccella – espressioni del primo partito di governo –presentano istantaneamente un nuovo protocollo per la prevenzione della violenza sulle donne, e la Roccella (eccerto) ne approfitta: « Tutte noi sappiamo che il patriarcato esiste, eccome se esiste (…) gli uomini devono essere protagonisti nel modificare la cultura patriarcale».

 

La stura l’ha data certamente la sorella minore della ragazza morta, quella che ha inquietato molto per la mise scelta per andare in TV: una felpa della rivista di skateboard Thrasher, dove però il logo è accompagnato da una bella stella a cinque punte rovesciata, quella in cui di solito iscrivono l’immagine della testa del caprone, l’iconografia satanica nota a tutti quanti. (Di nostro, abbiamo cercato di immaginarci il ragionamento intimo: viene Rete 4 a riprendermi, cosa mi metto? Ma certo, la felpa col pentacolo…)

 

La ragazza, e non solo lei, ha impressionato molti che l’anno trovata fuori dall’emotività che ci si aspetta per un lutto. Un caro amico mi ha chiamato, mi ha chiesto di essere confortato: riportarmi a terra, mi stanno venendo strani pensieri… Sono quelli che sono probabilmente venuti al consigliere regionale della Lega che ha postato sui social le sue perplessità, ottenendo la reazione di Luca Zaia (eccerto), che si dissocia. Si dissocia da che? Da una persona, pure votata dal popolo, che esprime il suo pensiero?

 

Non abbiamo pensieri da fare sui vestiti e gli umori televisivi della ragazza, né sulle altre foto non verificate che circolano sulle app di messaggistica.

 

Tuttavia, le sue parole sono chiarissime.

 

La ragazza aveva iniziato col ministro Salvini che riguardo al Turetta, si era permesso di scrivere su Twitter «se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita». «Ministro dei trasporti che dubita della colpevolezza di Turetta. Perché bianco, perché di “buona famiglia”. Anche questa è violenza, violenza di Stato». Poi rilanciava un tweet che richiamava il rifiuto della Lega (e l’opposizione di due dei suoi eurodeputati) riguardo alla risoluzione che sollecitava l’adesione dell’Unione Europea alla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.

 

Di lì è stata una discesa in abissi politici e filosofici.

 

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«I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro» ha scritto la ragazza sui social, ribadendo un pensiero raccontato alle telecamere. «La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene data importanza come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. Viene spesso detto “non tutti gli uomini”. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini».

 

L’intera specie maschile è sotto accusa. C’è quindi da attuare una ribellione contro lo status quo, una rivolta contro il patriarcato moderno.

 

«Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio – conclude la sorella di Giulia – Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere».

 

Il discorso della ragazza ha quindi assunto un carattere politico, programmatico, dalle tinte incendiarie.

 

«Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto».

 

Bruciare tutto. L’immagine non è sbagliata: bruciare il patriarcato significa, di fatto, rovesciare la società nella sua interezza, resettare il consorzio umano, demolendone le fondamenta. Quando parlano del patriarcato, femministe e quanti ne ripetono a pappagallo i concetti (come i gay organizzati, apparentemente…) intendono semplicemente la radicale disintegrazione del sistema sociale vigente.

 

O forse c’è dell’altro?

 

Ci sarebbe da considerare, cosa che mi pare pochi hanno fatto in queste ore, che il patriarcato ha un suo contrario esatto, ma il termine non ancora lo si è sentito proferire: il matriarcato. Già, per qualche ragione, chi parla di distruzione del patriarcato, non ha ancora iniziato a generare slogan sul ritorno del matriarcato.

 

Posso capirlo. Il matriarcato è un concetto potente, ma altrettanto oscuro. Chi se ne è occupato, leggendo qualche cosa sull’argomento, lo sa. Una finestra di Overton sulla reintroduzione, dopo millenni, del matriarcato nella società umana forse è partita, ma si muove molto, molto lentamente.

 

Fondamentalmente, gli studi sul matriarcato risalgono ad un ricco uomo di Basilea, Johann Jacob Bachofen (1815-1887). Giurista e filologo, fece per tutta la vita il giudice, perché si irritò quando, divenuto professore di diritto romano, si sparse la voce che era stato cooptato a causa della facoltosa famiglia (la sua e della moglie, la cui collezione di arte, tra Cranach e Memling, è ora uno dei principali tesori artistici museali dello Stato elvetico). In verità, l’uomo era un appassionato di antichità, e lo era in maniera irrefrenabile, al punto da accumulare un’erudizione spaventosa, rinforzata da molteplici viaggi di studio a Roma e in Grecia.

 

Le sue conoscenze sul mondo arcaico crebbero fino a portarlo a concepire una visione complessa, e in parte inedita, dell’evoluzione della società umana.

 

Secondo la sua visione storica, i primi sviluppi della storia umana seguono una successione di fasi in cui inizialmente prevale l’elemento materno, accompagnato da simbolismi legati alla terra e all’acqua, al diritto naturale, alla promiscuità sessuale e alla comunanza dei beni.

 

Successivamente, emerge l’elemento paterno con i suoi simbolismi celesti, il diritto positivo, la monogamia e la proprietà privata. Il passaggio tra queste fasi sarebbe avvenuto attraverso momenti di potere violento delle donne, manifestatosi prima come una ribellione alla supremazia fisica del maschio nei primi stadi della civiltà e successivamente come una degenerazione della fase classica del matriarcato, noto come «demetrico», da Demetra, la dea che presiedeva la natura, i raccolti e le messi. Quest’ultimo periodo è descritto da Bachofen come una «poesia della storia», ordinato secondo le leggi pacifiche ed equitative della madre terra. (Quando sentite parlare di Gaia, o della Pachamama, di fatto vi stanno cercando di infliggere la nostalgia di quell’arcaica età pagana).

 

La storia altro non è se non la dialettica di questi principi sociali, quello ctonio, lunare della donna, legato alla materia e alla terra, e quello solare, astratto dell’uomo, legato alla mente e al cielo. La spiegazione che si tende a dare è che la donna ha un rapporto viscerale con l’esistenza, perché genera fisicamente la prole, e subisce il processo ciclico temporale-materiale del mestruo. Secondo tale teoria, l’uomo invece ha con la prole un rapporto puramente ideale, basato su convenzioni e leggi.

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«Negli stadi più profondi e oscuri dell’esistenza umana l’amore tra la madre e il nato dal suo corpo rappresenta il punto luminoso della vita, il solo chiarore nella tenebra morale, la sola beatitudine nella profonda miseria» scrive Bachofen. «L’intima relazione del figlio con il padre e il sacrificio del figlio per il genitore implicano un grado molto più alto di sviluppo morale che l’amore materno, forza piena di mistero che penetra ugualmente tutte le creature terrestri. Essa appare più tardi, e più tardi rivela la sua forza».

 

«Nella cura per il frutto del proprio corpo, la donna impara prima dell’uomo a spingere la propria preoccupazione amorosa oltre i confini dell’io individuale, verso un altro essere (…) Il legame della madre col bambino poggia su un rapporto materiale, è accessibile alla percezione dei sensi e resta una verità di natura; all’opposto la paternità generatrice presenta in tutti i suoi elementi caratteristiche diversissime, priva di qualsiasi rapporto visibile con il bambino essa non può perdere mai del tutto, neppure nel vincolo matrimoniale, la sua natura del tutto puramente fittizia».

 

«La legge materna viene dal basso, origina dalla realtà più ctonia del mondo naturale; il Dio padre, invece, viene dall’alto e origina dall’idea di una natura/realtà celeste» scrive Bachofen.

 

Un tempo, agli albori del mondo, regnava la «Ginecocrazia», il puro governo della femmina. Bachofen sviluppò una concezione della storia divisa in quattro fasi.

 

Una prima fase, chiamata «Eterismo», dove il matriarcato non era ancora regolamentato, e il concetto di paternità del tutto sconosciuto. Nella fase eterica vigeva il sesso libero e l’assenza totale di proprietà privata. In quest’era, tuttavia, era già diffusa nell’umanità la concezione della Dea Madre.

 

Una seconda fase, chiamata «Amazzonismo», dove le donne avrebbero utilizzato vari strumenti, compresi quelli di natura militare, per continuare a sottomettere l’uomo anche se fisicamente di forza superiore: tale periodo è contenuto in vari miti come quello della donna guerriera, da Artemide e Pentesilea.

 

Nella terza fase, si ha il Matriarcato vero e proprio, considerabile come «l’età dell’oro del genere umano». Durante l’era del matriarcato, la preminenza sociale corrisponde alla sola madre, l’eredità è riservata alle figlie, per l’uomo vi è al massimo il riconoscimento di un ruolo speciale al fratello della madre. Qui la donna gode del pieno diritto di scegliere autonomamente i propri partner sessuali.

 

Nella sfera religiosa, si sostiene che nel matriarcato il potere sia stato assunto dalle divinità femminili, iniziando con una «dea della terra» come Gea. Il culto di questa divinità è considerato all’origine di tutte le religioni successive, con le sacerdotesse occupanti una posizione superiore.

 

Dal punto di vista economico, la società era altamente avanzata nell’ambito dell’agricoltura, un’attività svolta in collaborazione principalmente dalle donne. Gli uomini, d’altra parte, erano dedicati principalmente alla caccia, il che spesso li rendeva assenti e lontani dalla comunità.

 

Dal punto di vista politico, la società seguiva i principi di uguaglianza universale e libertà. Le donne assumevano il ruolo di capo dello stato, detenendo il potere, mentre alcuni compiti venivano successivamente delegati agli uomini.

 

Poi venne la rivolta degli uomini, che riuscirono a sovvertire il dominio matriarcale, come testimoniato nella battaglia tra le Amazzoni e il mondo degli eroi ellenici.

 

Tale transizione, secondo Bachofen, è avvenuta in conformità con le regole della cosmologia. La Grande Dea è divenuta il «mistero della religione ctonia» conservando il carattere che aveva durante la fase primordiale dell’eterismo e del matriarcato, in cui la Luna è apparsa come rappresentazione simbolica del principio femminile. Questo principio si connette poi al Sole, simbolo della mascolinità e della linea di discendenza maschile. Il Sole scaccia la luna; la civiltà umana si stabilisce e prospera sotto la sua luce, e non al chiarore dell’astro notturno.

 

La Grande Dea, quindi, non è morta: semplicemente, vive di notte, vive sotto la terra, pronta a tornare a reclamare l’universo.

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Il Mutterecht (parola in realtà mai usata direttamente dal Bachofen, che preferiva Frauenherrschaft) o «diritto materno», fu pubblicato nel 1861. In Italia ne esistono diverse edizioni, la maggior parte parziali, perché solo l’Einaudi se l’è sentita di stampare le più di 1200 pagine in due volumi, qualcosa che il traduttore Furio Jesi definì «opera dagli infiniti recessi», con «proporzioni ipertrofiche, maniacali, raggiunte da alcuni temi».

 

Le teorie di Bachofen, che tendevano a considerare i miti come fatti storici, o come rispecchiamenti letterali di dinamiche sociale reali, furono dapprima aborrite dagli studiosi dell’epoca, che tentarono di guardare al personaggio come al classico principiante con troppi mezzi, un po’ come, immaginiamo, cercarono di fare con Heinrich Schliemann e la sua pretesa di trovare per davvero i resti della città di Troia.

 

Più tardi invece il pensiero di Bachofen trovò pubblici, fra loro diversissimi, pronti ad ascoltare e ad agire politicamente l’idea del matriarcato. Il Mutterrecht affascinò il filosofo conservatore Ludwig Klages come lo scrittore esoterico-tradizionalista Julius Evola, considerato il maitre à penser del neofascismo italiano. Anche la sinistra si abbeverò al pensiero del matriarcato, il particolare lo studioso suicida Walter Benjamin e, decenni prima, il socio di Karl Marx, Friedrich Engels (che parlò di «schiavitù domestica della donna»). La prima ondata della psicanalisi (Freud, Jung soprattutto) si dimostrò interessata, così come la seconda (Wilhelm Reich, Eric Fromm e Erich Von Neumann, che studiò direttamente il tema della Grande Madre).

 

Non sorprende che ad interessarsi della teoria del matriarcato siano state le femministe. Se Bachofen è stato tradotto in inglese si deve allo sforzo, fatto a fine degli anni Sessanta, di gruppi femministi statunitensi. Si può andare perfino oltre: chi scrive decenni fa ha intravisto a Londra come le idee di Bachofen circolassero in circoli omosessuali di carattere para-esoterico, ossia di quelli che non dissimulano il loro disprezzo (cioè, la loro totale paura) della donna.

 

Una quantità di persone, di tutte le risme, sognano il ritorno della Dea. È un richiamo interiore, o forse, più concretamente è l’orizzonte che si pone loro innanzi nel momento in cui si innesta il desiderio della distruzione del mondo, la voglia di «bruciare tutto».

 

Chi vuole cambiare e riprogrammare il mondo, può realizzare che non si tratta di sovvertire, ma di invertire. Laddove è il Sole, far vincere la Luna. Laddove il giorno, la tenebra. Laddove l’idea, l’emozione. Laddove lo spirito, la materia. Laddove la legge, la natura. Laddove l’ordine, il caos. Laddove il diritto, la crudeltà.

 

Ecco, possiamo spiegarci i simboli ctoni che sono rimbalzati anche in questa storia: quando dicono che vogliono far finire il patriarcato, vogliono intendere, consapevoli o meno, il parricidio finale, ossia l’uccisione del padre in senso teologico – cioè, l’uccisione di Dio. Capite da dove vengono in pentacoli e i simboli satanici?

 

Un mondo libero dal padre, è un mondo sprotetto: pensate alle famiglie, magari a quelle in cui manca grandemente la figura paterna, e realizzate di cosa stiamo parlando. Una famiglia senza padre espone i figli ai predatori: bisogna essere tanto in malafede per non ammetterlo.

 

Allo stesso mondo, un universo privo di Dio padre, quali predatori vede avvicinarsi ai suoi figli? Ancora, rimbalzano nella mente le teste di caprone, le stelle a cinque punte – le stesse, sì, che si vedono in certe logge massoniche, le stesse delle bandiere dei Paesi comunisti, le stesse del drappo degli Stati Uniti, le stesse dei valori bollati e dei passaporti della Repubblica Italiana….

 

L’impulso al ritorno del matriarcato potrebbe quindi essere più radicato, più complesso, più antico del previsto. Non viene dagli slogan femminista buono per le ragazzine che vivono sui social, viene da un progetto cosmico e preternaturale.

 

È difficile: il matriarcato porta seco un blocco di materia oscura non ancora digeribile per tutti. Ma ci stanno lavorando, il culto, pare ci vogliano dire, ha ufficialmente già le sue martiri.

 

Il mitologo Robert Graves (1895-1985), che tanto si dedicò al tema della Dea Madre, in una intervista con Malcolm Muggeridge profetizzò che il matriarcato sarebbe tornato entro il XX secolo. Potrebbe non aver sbagliato di molto.

 

La Grande Dea è pronta a ritornare. Per divorare il Sole, e tutti noi, per farci vivere una nuova era di tenebra.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Gm.mairo via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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