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Scuola

La scuola italiana, sistema degenerato che si autoalimenta

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Il ministero dell’Istruzione e del Merito ha da ultimo sfoderato una norma – ora sub judice – che per le sue implicazioni, pur riguardando una fattispecie circoscritta, dice molto su quale sia la rotta segnata per la scuola italiana in generale – «rotta» in tutti i sensi, verrebbe da aggiungere.

 

Col decreto ministeriale 32/2025, in applicazione del decreto legge 71/2024 convertito nella legge 106/2024, il governo ha introdotto la possibilità per le famiglie di chiedere la conferma, per il successivo anno scolastico, del docente di sostegno (specializzato, o anche no) già assegnato in supplenza al proprio figlio nell’anno precedente.

 

Cioè: se a te genitore è piaciuta la persona che in questo giro di giostra ti è toccata in sorte per seguire tuo figlio, in presenza di certe condizioni puoi far sì che gli sia rinnovato l’incarico, sottraendolo al meccanismo delle graduatorie; il suo destino lavorativo (e non solo) dipende in sostanza da te.

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La ratio della norma viene individuata dal legislatore stesso nella esigenza di garantire la continuità educativa e didattica per gli studenti con disabilità al fine di favorire la serenità della relazione educativa tra costoro e i docenti, e di promuovere l’inclusione scolastica.

 

Il provvedimento è stato impugnato innanzi al Tribunale amministrativo del Lazio da alcuni sindacati che ne contestano la legittimità ritenendolo discriminatorio e lesivo del principio di equità nell’accesso alle supplenze, e invocando anzitutto la violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa.

 

Sul fronte opposto, a sostenere la linea ministeriale, sono schierate le associazioni delle famiglie insieme al garante per la disabilità, a tutela «del benessere e della stabilità» considerati essenziali per il successo formativo degli studenti con bisogni educativi speciali.

 

Le riviste di settore costruiscono la notizia titolando di «frattura tra scuola e famiglie», ma mica vero: magari si incrinasse qualcosa

 

In verità regna sovrana la solita, saldissima corrispondenza di amorosi sensi tra tutti gli attori istituzionali, solo condita stavolta dallo schiamazzo estemporaneo di qualche sigla di categoria mobilitata in difesa di interessi corporativi perché, evidentemente, i padroni concedono: ricordiamo bene, infatti, con quale zelo si sia manifestato l’attivismo sindacale nell’epoca in cui il lavoro e lo stipendio erano subordinati al ricatto farmaceutico, e chi non cedeva il proprio corpo alla sperimentazione coatta veniva istituzionalmente bullizzato, denigrato, emarginato, discriminato, condannato alla fame.

 

Sindacati zittissimi. Anzi, peggio: garruli sostenitori della persecuzione legalizzata.

 

Visti i precedenti, c’è da aspettarsi che pure la controversia pendente si giocherà tutta nel campo della scuola «buona»: quella del mercato, degli stakeholder e delle alleanze educative, del benessere e dell’inclusione selettiva. La scuola buonissima, che non ammette dissenso che non sia di cartapesta, controllato e organico al sistema.

 

Quella che la dialettica vera la rifiuta e la esclude. Quella che fa la guerra a chi non si conforma all’andazzo distruttivo che alla fine sta travolgendo tutti: insegnanti, scolari, famiglie, società.

 

Senza soffermarsi sui dettagli della misura in oggetto – la quale guarda caso ha le sue radici più profonde proprio nella famigerata legge 107, cosiddetta «la buona scuola»: madre, se non di tutte, della più parte delle aberrazioni scolastiche gabellate come innovazioni – vale allora la pena di discuterne il senso più lato, che trascende le diatribe interne tra singoli, fazioni e consorterie, per investire le strutture portanti di un carrozzone alla deriva.

 

Ché, infatti, non sono in gioco soltanto la trasparenza e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Senz’altro c’è giuridicamente qualcosa che non va se dei genitori, investiti del potere di trattenere in una determinata sede un lavoratore che non ne avrebbe diritto in base alle graduatorie ufficiali, diventano di fatto arbitri delle nomine annuali dei docenti, così interferendo con le complesse dinamiche dei conferimenti delle cattedre e dei trasferimenti.

 

Ma questa anomalia non spunta dal nulla come un fungo: nasce e trova terreno fertile nel ventre di un sistema degenerato che si autoalimenta, prolifera di organismi patogeni e genera mostri per partenogenesi. La ratio legis che, come si è visto, fa appello alla continuità educativa e didattica, alla serenità della relazione educativa, all’inclusione scolastica – fornisce più di qualche indizio alla comprensione del fenomeno.

 

Infatti, se certamente la continuità rappresenta un obiettivo da perseguire – per tutti gli studenti, non solo per quelli disabili – la scuola pubblica dovrebbe favorirla attraverso modalità congrue al ruolo e alla fisionomia dell’istituzione, e non ricorrere a squallidi stratagemmi che, mentre accarezzano le corde della emotività più irrazionale, puntano a procacciarsi supporter politici a buon mercato.

 

Le famiglie dal canto loro, rintronate da anni e anni di pubblicità progresso sulla scuola del benessere, del successo formativo, di alleanze e di patti, dell’accoglienza, di cammini e relazioni, di programmi personalizzati, di comunità educanti, di sinergie e percorsi condivisi, e di partecipazione democratica, tendono a considerare non solo logica ma persino doverosa la commistione tra interesse pubblico e favore privato, specie se il tutto è sublimato dal sacro crisma dell’inclusione.

 

L’inclusione appartiene ormai alla metafisica della scuola, e sta lì, nell’iperuranio, a colorare ogni pezzo di questa giostra impazzita con una patina autoprodotta di alto valore morale e sociale.

 

Nella scuola del mercato, dove il cliente ha sempre ragione, va da sé che sia lecito pretendere, oltre al bel voto, alla promozione, all’interrogazione programmata, al piano personalizzato, anche l’insegnante on demand. Così il riformatore compulsivo prende due piccioni con una fava: fidelizza la clientela assicurandosene l’appoggio incondizionato e, al contempo, corre indisturbato sulla via della demolizione delle ultime vestigia dell’edificio che gli è affidato in custodia.

 

E a nessuno viene in mente come questo bizzarro sistema di reclutamento possa incoraggiare un commercio implicito o esplicito di favori, l’instaurarsi di rapporti più amicali che professionali, forme varie di captatio benevolentiae tali da mettere in secondo piano i doveri primari del docente nei confronti dell’allievo. Il docente, stipendiato dal ministero, diventa di fatto un precettore privato alle dipendenze della famiglia, perdendo fatalmente la propria autonomia e la propria libertà: perché prima dovrà prodigarsi per conquistare il gradimento di studente e genitori; poi, se confermato per loro gentile intercessione, dovrà pure sdebitarsi.

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Insomma, a prescindere dall’esito del contenzioso amministrativo – che si celebrerà girando dentro la ruota del metamondo della metascuola, con le sue categorie distorte e le sue melense formule magiche – il solo fatto che una norma come questa sia stata concepita e approvata, e sia pervicacemente sostenuta, costituisce un ulteriore segno, e grave, del degrado che travolge una scuola del cui senso e del cui decoro si è perduta ogni consapevolezza, tanto ai vertici quanto alla base.

 

Il trionfo del paradigma soggettivistico fondato su emozioni e sentimenti – dove il benessere si è definitivamente inghiottito il bene, comune e individuale – impedisce di ritrovare il vero perché di un’istituzione irrinunciabile, di recuperare il suo prestigio, di ricostruirne le mura. E intanto ruba con destrezza alle nuove generazioni, insieme al volto e alla voce di veri maestri, la luce della conoscenza e la forza della ragione. Ma è tutto bellissimo. Perché bastano le parole.

 

P.S. Nel frattempo il TAR del Lazio ha rigettato l’istanza cautelare dei ricorrenti per ritenuta mancanza dei presupposti (fumus boni juris e periculum in mora), in attesa dell’esito del giudizio di merito.

 

 

Elisabetta Frezza

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni

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Pensiero

Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

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Stiamo assistendo a una operazione, tanto patente quanto capillare, di rimozione e mistificazione pilotata della realtà con tutti i suoi esiti distruttivi. Va di conserva alla edificazione di un immaginario collettivo capace di riassorbire in una visione (in apparenza) coerente le rovine causate.   Un grande lavacro mediatico, insomma, che consente di depistare le responsabilità e mandare assolti i colpevoli, di cancellare tante vergogne contando sulla memoria corta dello spettatore passivo: quello stesso che canta in coro il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito perché si beve sereno la storia che la storia del mondo inizia precisamente da lì, non un istante prima.   Ecco allora fioccare articoli e servizi su scala più o meno vasta i quali, strumentalizzando fatti e atti del vivere quotidiano, li distorcono per costruirci sopra casi esemplari e nuovi paradigmi: dal cilindro spuntano i nuovi totem da adorare, le nuove streghe da bruciare a favore di masse rimbambite chiamate a raccolta intorno a una metafisica prêt-à-porter fatta di pseudovalori da strapazzo, perché c’è pur bisogno di credere in qualcosa se questo qualcosa non è più un dio.

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Che l’operazione comporti l’effetto collaterale di stritolare persone per bene, o sacrificarne altre al monolite ideologico, pazienza. L’importante è non intralciare il flusso inebriante del progresso, tenere fede al copione e, in omaggio alla sua trama, lanciare progetti, costruire culti e altarini, inventare molte «educazioni» in grado di fabbricare ominidi di serie bravi a pappagallare a vita slogan di ordinanza.   Come sempre accade, i primi destinatari della fiction sono le nuove generazioni: del resto, i grandi laboratori a cielo aperto, come quello della pandemia, sono apparecchiati soprattutto per loro.   E come per magia si scopre d’improvviso che oggi i ragazzini sono quasi tutti stressati, sofferenti, fragilissimi. Vegetano, stanno male sia nel fisico sia nell’anima.   Giornaloni, giornaletti e rotocalchi emanano i bollettini di guerra dell’ultimo terribile contagio: parlano di impennata di suicidi e di atti di autolesionismo, di reparti di neuropsichiatria intasati, di sindromi post traumatiche dalle mille manifestazioni, di disturbi alimentari fuori controllo, di manie ossessivo-compulsive, di dipendenze, di distacco dalla realtà, di ansia e depressione, di difficoltà di socializzare, di frustrazione e incertezza verso il futuro, di disturbi del sonno, di aggressività, di solitudine siderale senza vie d’uscita, di psicofarmaci come se piovesse.   Dolori proteiformi e senza confini, e incapacità di esprimerli per incapacità di comunicare e quindi di compatire, ovvero di sciogliere il male interiore in un bacino un po’ più ampio del proprio cuore ferito.   In parallelo, si registra un crollo delle facoltà cognitive, espressive, logiche, speculative; della capacità di concentrazione, di memorizzazione, elaborazione, calcolo; l’inabilità diffusa a scrivere in modo intelligibile persino a se stessi, e in generale a interagire con i propri simili attraverso un linguaggio appena articolato; l’inettitudine a comprendere la propria lingua madre, coi suoi lemmi, la sua grammatica, la sua sintassi, e di analizzare un testo, e di afferrarne il senso.   Di fatto, mutismo e sordità sono diventate piaghe endemiche e ingravescenti: circostanza di cui la scuola che non è più scuola prende atto, compiacente.   Ora, una persona normale che abbia abitato questo disgraziato pianeta negli ultimi anni penserebbe subito che non poteva andare a finire diversamente per le cavie di una sperimentazione che ha voluto vedere l’effetto che fa isolare dei cuccioli d’uomo per un tempo infinito in proporzione alla loro età, terrorizzarli senza tregua, costringerli a obbedire a ordini demenziali cui i grandi obbedivano senza fiatare come soldatini sotto ipnosi (tipo sensi unici pedonali nei corridoi degli edifici, così come nelle vie della città; fogli di carta messi in quarantena, stanze di segregazione per uno sternuto; facce e voci deformate dagli schermi; palombari vaganti, distanze di sicurezza; occultamento dei volti, sterilizzazione di oggetti, di cibarie, di giardini e di spiagge; non hai diritto a un bicchier d’acqua, puoi bere solo in piedi e dopo le diciotto e quindici; fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù; e molto altro).

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E ancora, vedere l’effetto che fa impedire loro di giocare, di fare sport, di salire sull’autobus, di trovarsi (di assembrarsi), di sorridersi e di litigare, di correre e cascare e sporcarsi, di muoversi liberamente al chiuso e all’aperto, stando relegati in apnea nel loro fazzolettino di pavimento recintato e compulsivamente disinfettato, simpatica gabbietta per topolini domestici.   Vedere l’effetto che fa mostrare loro morti, imbustati dentro sacchetti neri, sparire nel nulla senza un addio, senza la pietà che ci ha insegnato Antigone agli albori di una civiltà dimenticata.   Infine, vedere l’effetto che fa ricattarli – loro, che manco si ammalavano di un raffreddore – per svuotare i magazzini di un farmaco sperimentale che si sapeva (quantomeno) inefficace: ti concedo un brandello di libertà vigilata, in cambio dell’ipoteca sul tuo corpo e sulla tua salute, corri a ritirarlo gratis allo hub più vicino, panino in omaggio. Insieme al distintivo di bravo cittadino da appuntarti al petto e sfoggiare in società, quella stessa che aveva elevato la delazione a valore civico supremo.   E sopra tutto questo inferno, una costante, frutto dell’addestramento coatto durato un paio d’anni di esercizio intensivo: fornire la carica perenne a una calamita invincibile che impone di restare appiccicati fissi a una scatoletta elettronica, unico tramite con l’altro da te nella «società senza contatto», unica valvola della pentola a pressione in cui ti hanno trasformato. Senza più giorno né notte, senza ritmi cicardiani, senza tocchi o aliti di vita.   La vita infatti era tossica; il primo comandamento, quello di scansarla. Vade retro, vita.   Qualcuno sano di mente poteva davvero pensare che i cuccioli d’uomo uscissero indenni dall’esperimento? Che a comando tornassero in forma, come un qualsiasi materiale elastico e comprimibile che riprende il suo spazio non appena liberato dalla morsa? Qualcuno può non vedere un nesso causale grande così tra l’esperimento condotto con tanta ferocia, e gli eventi dannosi che abbiamo oggi sotto gli occhi, per cui torme di espertoni si strappano i capelli?   A quanto pare, sì. Anche questo disastro – troppo imponente per essere taciuto – sono riusciti ad appenderlo al vuoto pneumatico dell’hic et nunc, recidendo ogni collegamento con il passato. A beneficio di tutti quanti, a ogni livello della piramide sociale, devono guadagnarsi prima l’oblio e poi l’impunità, e sono parecchi: aguzzini, carcerieri, delatori, sceriffi e sbirri improvvisati, psicopoliziotti, impegnati tutti a infierire sul proprio simile, specie se indifeso, persino sui bambini. Persino sui bambini. I volontari si arruolano a frotte.   Si capisce bene, allora, come sia altrettanto facile far evaporare il passato, anche recente, dalla mente collettiva, distratta su altri fronti di intrattenimento. Così, dopo aver scaricato per anni su spalle non ancora formate un peso emotivo ed esistenziale insostenibile, dopo aver organizzato la transumanza di massa nella dimensione straniante dell’artificio, giornali e TV ci raccontano adesso che a stressare i ragazzi è la scuola.   La scuola li rattrista, sì, ci dicono, perché è troppo esigente, vecchia e ingessata, poco amichevole, incapace di rendere gli scolari protagonisti della propria formazione. E quindi, è urgente che la scuola si aggiorni, si metta al passo con il progresso, si digitalizzi completamente; si faccia più inclusiva e ricca di attrazioni, assecondando l’indole dei suoi frequentatori che vanno divertiti e distratti perché così raggiungono il loro personale «successo formativo» e allora, finalmente, si autostimeranno.   Del resto, a cosa servono gli insegnanti, se non ad animare scolaresche annoiate e a gratificarle con tanti complimenti, ricchi premi e cotillons?

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Se i più giovani sono stressati, dunque, la colpa è di quegli insegnanti superstiti che ancora cercano di insegnare con rigore e serietà le proprie materie di studio, e con esse la vita. Costoro vanno sputati fuori da questo sistema «educativo» socio-assistenziale e pseudo-sanitario lanciato verso il tracollo di obiettivi e risultati, perché è l’allievo l’unità di misura di se stesso e, per non turbarlo, va coccolato nel suo status quo, dentro un bozzolo autoreferenziale inviolabile da chiunque eccetto che dallo psicoesperto.   E giù di psicologi e di psicopedagogisti, di psichiatri e di certificatori, che fanno affari d’oro per spianare a tutti la strada alla conquista di diplomi vuoti e luccicanti.   A nessuno passa per la testa che a distruggere questa generazione è stata proprio l’eclissi della scuola, che li ha completamente abbandonati, prima incarcerandoli nella loro cameretta, poi riaprendo le porte sottoforma di caserma a nonnismo libero, infine rimettendo in moto la macchina pedoburocratica come nulla fosse accaduto, e omettendo qualsiasi spiegazione dell’incredibile che è accaduto per davvero.   Manco delle scuse per il trattamento inflitto, per gli orrori perpetrati. Zero, come fosse solo una parentesi un po’ anomala da chiudere e dimenticare, e chi s’è visto s’è visto.   Così, schiere di ragazzini arrugginiti e inselvaggiti, disorientati e smarriti, contenitori viventi di ordigni inesplosi, sono tornati a condividere gli spazi fisici che per inerzia chiamiamo ancora scuola, ma sarebbe ora di trovare un altro nome. Dalla regia suggeriscono «ecosistema di apprendimento» (e però ci andrebbe spiegato quale apprendimento) o eduverso, che le sta già meglio perché non significa niente.   E siccome stanno tutti male, che si fa? Si elimina dal loro orizzonte ogni spinta al miglioramento e tutta la dimensione dell’impegno e dello sforzo, si personalizza il percorso di studi ritagliandolo sulla misura all’indole (immatura, per definizione) e ai limiti (presunti e provvisori, per definizione) individuati dallo scrutatore esperto; li si psicopedagogizza in serie; si mette loro in mano qualche giochino colorato dei colori dell’arcobaleno, alcune volte ancora sottoforma di vecchio libro, con tante immagini, poche parole e le poche parole ridotte a slogan; li si rieduca ai dogmi inventati a uso e consumo di una società morente: è stupendo che l’ultima trovata si chiami «educazione al consenso» (cioè imparare a dire sì) e serve a martellare nella testa degli scolari che i maschi in quanto maschi devono o castrarsi, o sparire, e comunque pentirsi di essere nati sbagliati.   Ma sono bellissimi anche i millemila corsi contro il bullismo, nella cui definizione entra qualsiasi cosa, dagli atti persecutori a uno scherzo innocente tra amici, di quelli che tante volte aiutano a crescere ma che bisogna imparare a reprimere per sempre. Non si può più scherzare, ragazzi, né prendersi in giro, perché l’occhiuto addetto antibullista vigila e punisce. Magari è quello stesso che pochi anni fa, con l’avallo dell’istituzione, bullizzava i ragazzini non marchiati di verde. Il bullo-antibullismo, sicofante dentro, è un altro capolavoro di questa temperie nata e cresciuta sotto il segno dell’assurdità.   Non dimentichiamoci infatti che era l’istituzione a discriminare gli scolari privi di lasciapassare, legittimando un trattamento differenziato tra chi era vaccinato e chi no. Che era l’istituzione, quindi, a permettere che fossero additati al pubblico ludibrio i pochi che non avevano bruciato il granello di incenso all’imperatore.   E che era l’allora ministro dell’istruzione ad affermare con sicumera che l’imposizione del bavaglio permanente a scuola rispondeva, più che a motivi sanitari – e infatti è dimostrato come fosse non solo inutile, ma dannoso, specialmente per i soggetti in crescita (e non ci voleva un genio a capire che tappare naso e bocca per ore con una pezza umida e sporca non è proprio un bagno di salute) – a esigenze «educative», perché serviva ad abituare i giovani alla «nuova normalità». Un addestramento su modello zootecnico, insomma.

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Ora che, davanti a una catastrofe di proporzioni mai viste, non si può non riconoscere la nocività della esposizione perpetua ai dispositivi digitali, e la dipendenza che generano – del resto sono progettati per quello –, ci si dà ai giochini delle tre carte mascherati dietro la logica del fatto compiuto: siccome la tecnologia non si può fermare, allora occorre educare i ragazzini all’«uso consapevole», sul presupposto che si debba sempre e comunque cavalcare il progresso.   Che è poi come dire, insegniamo l’uso consapevole del veleno, o della droga, o dei superalcolici. Avvelènati, drògati, ubriàcati, ma in modo consapevole, così tu sei spacciato, ma le coscienze degli altri profumate di bucato.   Oppure, l’altra novità: squilli di tromba ovunque per il divieto del telefonino in classe, e però via libera al tablet, cioè al telefonone; no allo smartphone, sì al megasmartphone. E che sia una megapresaingiro ce lo dice, oltre al buon senso minimale, anche l’ultimo prodotto commercializzato negli USA (che stanno sempre un passo avanti rispetto alle colonie): la tavoletta inerte con le fattezze dell’Ipad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico», che va a ruba. Non è uno scherzo.   La verità è che, per frenare la corsa di questo treno impazzito a bordo del quale viaggiano i nostri figli a tutta velocità – che è partito ben prima della pandemia, ma che la pandemia ha accelerato in modo furibondo – ci sia una sola cosa e semplice da fare: restituire alla scuola il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. E ai docenti la loro professione, che non è quella dell’animatore, dell’inserviente informatico o dell’assistente psicologico: è altro.   Oltre ad essere il primo luogo di aggregazione al di fuori della famiglia dove si sperimenta la socialità, dove si misura il proprio carattere nel confronto quotidiano con i propri pari e con i maestri, che pari non sono, la scuola possiede in esclusiva un compito fondamentale cui ha rovinosamente abdicato: quello di alfabetizzare e di trasmettere le conoscenze nelle materie disciplinari, che vanno studiate, imparate, capite, mettendo in campo le migliori risorse e gli sforzi necessari per farlo.   Albergano lì dentro, dentro quel sapere durevole e forte che ha resistito alla prova del tempo, i semi che producono frutto nel tragitto lungo della vita, perché non scivolano via alla prima pioggia della moda stagionale, delle idee effimere, del simil-pensiero usa e getta.   E la fatica fa parte del gioco e pretendere di toglierla di mezzo per raggiungere la pax scolastica e il «successo» a prescindere è una truffa ai danni degli studenti, perché così li si priva del gusto della conquista e si costruisce per loro un destino gramo da invertebrati, incapaci di affrontare ogni difficoltà, deprivati a priori del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico come tante docili rotelline dell’ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei mantra ipnotici mandati in filodiffusione.   Solo quelli dotati di una struttura spirituale e culturale robusta saranno in grado di resistere al potere fagocitante del meccanismo, e di padroneggiarlo. Saranno attrezzati per ragionare in autonomia senza restare ostaggio di narrazioni mendaci dettate dall’esterno. Sapranno comprendere dove stanno di casa le menzogne, per liberarsene. Avranno il privilegio di conoscere e assaporare la vita.   La scuola è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere (con licenza di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e di correggersi senza essere etichettati da uno stupido algoritmo). Uno spazio, oggi abusivamente occupato, che va restituito ai suoi legittimi abitanti, bonificato dall’artificio, protetto dai predatori.   Non serve ammassare altri orpelli sopra un edificio già sfigurato e cadente. Serve una energica operazione di sgombero. Di purificazione.   Elisabetta Frezza   Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Scuola

Professoressa assassinata da studente delle medie in una scuola francese

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Martedì, uno studente di una scuola media francese ha aggredito mortalmente un assistente insegnante con un coltello durante un controllo bagagli di routine, ha riferito la polizia dell’Alta Marna.

 

L’insegnante è stata trasportata d’urgenza in ospedale, ma è morta in seguito a causa delle ferite riportate. Anche un agente coinvolto nell’arresto dell’aggressore quattordicenne è rimasto ferito nell’incidente, ha scritto il quotidiano locale Journal de Haute-Marne (JHM), citando un corrispondente presente sul posto.

 

L’attacco si verifica in un contesto di diffusa preoccupazione per l’aumento della criminalità legata all’uso di armi da taglio nel Paese. La polizia francese ha intensificato le perquisizioni casuali delle borse nelle scuole per contrastare il crescente numero di incidenti.

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«Uno studente ha estratto un coltello e ha ferito gravemente un assistente», mentre gli agenti controllavano le borse alla Dolto Middle School di Nogent, ha dichiarato la polizia locale in un comunicato stampa martedì. «L’aggressore, neutralizzato dagli agenti presenti sul posto, è attualmente in custodia cautelare presso la gendarmeria di Nogent».

 

In una dichiarazione rilasciata martedì su X, il presidente francese Emmanuel Macron ha condannato l’attacco, definendolo parte di «un’insensata ondata di violenza».

 

La vittima lascia un figlio piccolo, ha scritto il primo ministro francese Francois Bayrou su X. «I nostri pensieri vanno al suo bambino, alla sua famiglia, ai suoi cari e all’intera comunità educativa», ha scritto.

 

«La minaccia delle armi da taglio tra i nostri bambini è diventata critica», ha scritto Bayrou, sottolineando l’importanza di rendere il problema «un nemico pubblico».

 

Ovviamente, Bayrou e tutti i media in coro non citano le origini etniche del ragazzo – dettaglio che potrebbe dare qualche ragguaglio sull’uso del coltello – di cui al momento non sappiamo nulla. Né, come accade sempre, sapremo se lo studente assumeva droghe legali prescritte da qualche psichiatra ed acquistate con tranquillità in farmacia.

 

Ad aprile, dopo che un’adolescente era stata uccisa e tre studenti sono rimasti feriti in un accoltellamento di massa in una scuola privata di Nantes, Bayrou ha chiesto «controlli più intensivi nei dintorni e all’interno delle scuole».

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Il ministero dell’Istruzione francese ha riferito che 958 controlli casuali delle borse hanno portato al sequestro di 94 coltelli nelle scuole di tutta la Francia tra la fine di marzo e la fine di aprile.

 

Come riportato da Renovatio 21, nelle stesse ore in Austria si è avuta una grande strage in una scuola superiore, dove un ex studente avrebbe massacrato almeno dieci persone prima di suicidarsi.

 

La scuola, luogo di avviamento alla vita dell’individuo e della società, sta diventando un luogo di morte: che si tratti della nuova funzione assegnatale dallo Stato moderno e dalla Necrocultura?

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Eventi

Renovatio 21 al convegno sulla Scuola a Reggio Emilia: siete tutti invitati

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Come precedentemente annunciato, Renovatio 21 parteciperà al convegno sul tema scuola che avrà luogo a Reggio Emilia questo sabato, 7 giugno, dalle ore 10:00, presso l’Agriturismo «Il Bove», molto comodo all’uscita dell’autostrada.   Oltre a Roberto Dal Bosco, fondatore direttore di Renovatio 21, come relatori saranno presenti Elisabetta Frezza, Giurista e Responsabile Scuola dell’Associazione ContiamoCi!, l’ing. Giovanni Lazzaretti del Circolo Culturale «J. Maritain», don Andrea Maccabiani dell’Associazione «Città Cristiana». Sarà un’occasione per incontrarsi, discutere, progettare riguardo i temi che più premono sulle nostre famiglie e sulle nostre vite. Renovatio 21 sarà presente anche con un banchetto di merchandising.   Ad organizzare l’evento, oltre che a moderare il dibattito c’è Cristiano Lugli, della Rete Genitori Informati e Consapevoli, che ha promosso l’evento – figura ben conosciuta dai lettori di Renovatio 21. Proprio al nostro Cristiano abbiamo posto qualche domanda per capire qualcosa in più su questo evento che, per la natura radicale dei suoi contenuti, si dà come qualcosa di unico sul piano nazionale.   Cristiano, chi ha ideato e promosso questo convegno sul tema scuola? Il convegno è stato pensato e promosso dalla Rete Genitori Informati e Consapevoli, di cui faccio parte anche io. Si tratta di un gruppo di famiglie sparse sul territorio di Reggio Emilia e Modena in particolare, costituitosi da poco anche se ognuna di queste famiglie già da anni fa la propria parte restando sensibile al tema scuola.   Abbiamo pensato di metterci insieme per avere più unità e quindi anche un occhio più attento a tutte le dinamiche che riguardano un tema così importante per i nostri figli, e per la società tutta.   Perché farlo proprio a Reggio Emilia? Come dicevo, diverse famiglie fra cui la mia risiede nel territorio di Reggio Emilia, ma in realtà è dovuto anche al fatto che qui ci sono molte realtà e associazioni interessate al tema educativo, e quindi ci si può mettere a confronto con grande facilità.   «Sopravvivere alla Malascuola». Come mai questo titolo? Prende certamente spunto dal libro scritto qualche anno fa dalla dottoressa Elisabetta Frezza, che sarà ospite come relatrice al nostro convegno, ed evidenzia un problema oggettivo sul quale si vuole discutere.

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Qual è il fine di questo convegno? Il confronto, appunto. È oggettivo, come dicevo poco fa, che oggigiorno il sistema scolastico è allo sbando totale. D’altronde, in tanti lo denunciano da anni, riportando fatti e dati piuttosto allarmanti. Molte famiglie, già prima dell’epoca COVID, hanno perso la fiducia nell’istituzione scuola, che se ci pensiamo ricopre praticamente un quarto di vita dei nostri figli. È quindi necessario capire cosa si può fare per migliorare, anche combattendo dall’interno. Tuttavia ci sono anche persone, magari anche per esperienze personali irreversibili, che cercano alternative al sistema pubblico.   Qui nella nostra zona, come immagino anche in tante altre parti d’Italia, è nata qualche realtà alternativa, specie per bambini più piccoli ed elementari. Ecco, vorremmo che più voci si mettessero a confronto per portare spunti ed eventuali soluzioni alle famiglie. C’è tanta preoccupazione, questo come rete di genitori attiva sul territorio lo avvertiamo, ragion per cui questo convegno, che vede fra i relatori molti addetti ai lavori, vuole offrire qualche riflessione sul come affrontare, a seconda delle esigenze di ognuno, il tema scuola e come sopravvivere, appunto, a questa «malascuola».   Com’è strutturata la giornata? Il convegno inizierà alle ore 10:00, nella bella sede dell’Agriturismo «il Bove», immerso nella campagna di Reggio Emilia. Un ambiente molto rustico, ma allo stesso tempo molto elegante e spazioso. Prevediamo che duri circa tre ore, e quindi finirà intorno alle 13:00. Al termine, per chi vuole, è previsto un aperitivo conviviale alla presenza dei relatori: sarà anche occasione per un’ulteriore confronto, più diretto e personale magari, nonostante abbiamo previsto anche un tempo dedicato alle domande al termine di tutti gli interventi dei relatori.   L’ingresso non richiede una prenotazione ed è ad offerta libera. È invece richiesta una prenotazione ai recapiti telefonici presenti sulla locandina dell’evento per chi vuole fermarsi all’aperitivo post-convegno. Sarà anche disposto un servizio di baby-sitting totalmente gratuito per i genitori che vengono con i bambini, così da permettere alle famiglie di poter ascoltare con attenzione.  
  Vi aspettate tanta partecipazione? Penso proprio di sì. L’interesse è tanto, nonostante ci sia stato un calo della partecipazione agli eventi pubblici a seguito del COVID che ha un po’ anestetizzato tutto. Molte persone però ci hanno contattato per chiedere ulteriori informazioni, anche da fuori Reggio Emilia, quindi penso che sia un evento molto sentito. Sono temi caldi e soprattutto urgenti, è lecito ipotizzare un forte interesse ed un’altrettanta buona partecipazione anche dovuta al fatto che ci sono illustri relatori.   L’evento avrà luogo proprio il giorno in cui finisce l’anno scolastico: è una scelta causale o mirata? Abbiamo convenuto che non si potesse andare oltre il 7 giugno perché poi giustamente le persone «staccano». Oltre che per gli alunni, i primi diretti interessati, l’anno scolastico è indubbiamente impegnativo anche per i genitori e le famiglie in generale. L’ultimo sabato prima delle vere e proprie vacanze, anche se è l’ultimo giorno di scuola, penso sia il migliore per «battere il ferro finché è caldo», come si suol dire.   L’alternativa sarebbe stata farlo a settembre, ma crediamo non avrebbe avuto senso: farlo a giugno ci permette di fornire già elementi molto utili per l’anno scolastico successivo, anche in base a scelte o cambiamenti che si potrebbero attuare. Per arrivare a settembre, diciamo, già preparati o comunque con strumenti in più.   Vuoi fare un appello ai lettori di Renovatio 21 rispetto all’evento di sabato? Li invito tutti a venire. Sono certo che sarà un bel convegno e un momento di importante convivialità e scambio.

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