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Pensiero

La Scienza era una cosa seria. («Sciur dutúr a g’ho un dulúr!»)

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Da quando 2 anni fa è stato dichiarato lo stato di emergenza – stato che ogni giorno di più converge verso uno stato di eccezione –  abbiamo assistito alla nascita di una nuova retorica da parte del potere.  Anzi, più che di una novità, si tratta di un ritorno alla concezione della Scienza pre-illuminisitico.

 

Il potere politico giustifica la limitazione delle normali libertà costituzionali, facendo sponda sul parere di presunti  gruppi di «esperti» e «scienziati».

 

Con l’aiuto della stampa mainstream – che ha il compito di non porre mai le domande giuste al momento giusto – è stata ricostruita una vecchia immagine della Scienza: la concezione della Scienza che viene spacciata dal nuovo regime orwelliano è un ritorno all’antica reverenza dell’auctoritas da parte della cultura contadina.

 

La concezione della Scienza che viene spacciata dal nuovo regime orwelliano è un ritorno all’antica reverenza dell’auctoritas da parte della cultura contadina

Già, perché quando ogni giorno sentiamo usare sui media l’argomento che suona come «io sono un laureato in materie scientifiche, tu no» constatiamo che questi presunti «scienziati» pretendono di farci subire tale prospettiva pre-scientifica, una prospettiva contadina, appunto, dove le persone in condizioni di minorità non dovevano fare altro che fidarsi del figlio del mugnaio che aveva studiato in città.

 

Ce lo dicono tutti i giorni: noi saremmo  in uno stato di minorità, che secondo la definizione di Kant consiste nell’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro (quello che, a differenza dei sorci di campagna, ha preso una laurea cittadina).



Questo è ormai l’argomento retorico preferito delle virostar; chiunque segua occasionalmente i talk show se ne sarà certamente accorto.

 

In questo preciso copione stucchevole i giornalisti mainstream hanno il compito di fare da spalla al laureato di turno – improvvisatosi premio Nobel de’ noantri – che dà del coglione a chiunque dissenta. Non di rado si tratta anche di colleghi parimenti titolati, anche se la stampa di regime preferisce tendenzialmente organizzare il contraddittorio con casalinghe raccattate a Roswell.

 

È allora opportuno ricordare in che cosa consiste il metodo scientifico e vedere la pessima formazione che dimostrano ogni giorno la maggior pate di questi presunti «esperti».

 

Noi saremmo  in uno stato di minorità, che secondo la definizione di Kant consiste nell’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro (quello che, a differenza dei sorci di campagna, ha preso una laurea cittadina)

Il metodo scientifico consiste nella capacità di formulare ipotesi che non siano falsificate dai fatti. Se un’ipotesi o un modello esplicativo entra in contraddizione coi fatti (falsificazione) o genericamente in contraddizione con se stesso, allora significa che quel modello è falso, e va corretto o scartato.

 

Dunque, in sostanza, possiamo dire che la bravura di uno scienziato consiste nella capacità di costruire sistemi per spiegare la realtà che siano immuni da contraddizione.  Questa è la base (falsificazionismo) di tutta l’epistemologia contemporanea, di cui tralasciamo ora tutti gli sviluppi.

 

Per tale motivo qualsiasi scienziato con due rudimenti di epistemologia (la scienza che studia il metodo scientifico stesso) sa che ben prima dell’autorità derivante dal titolo di studio vi sono la logica e la matematica.



Uno scienziato come Max Planck, queste cose le sapeva benissimo. Così come le sapevano benissimo tipetti piuttosto svegli come Karl Heisenberg, Kurt Gödel, Erwin Schrödinger etc.

 

Ma, constatiamo,  non le sanno gli scienziati improvvisati che pontificano in televisione.

 

Qualsiasi scienziato con due rudimenti di epistemologia (la scienza che studia il metodo scientifico stesso) sa che ben prima dell’autorità derivante dal titolo di studio vi sono la logica e la matematica

Un’affermazione di un laureato in Medicina è scientificamente vera a condizione che rispetti la logica e la matematica; quindi – se proprio volessimo essere pedanti – ciò che viene affermato da un medico dovrebbe essere vagliato da qualche esperto in logica e matematica. Anche quando questi parlasse di statistiche circa l’efficacia di molecole per curare la dissenteria, magari quella provocata dalle interviste che rilascia alla stampa.

 

Non ci risulta che nei talk show abbiano di abitudine convocato matematici. E non è un caso, perché un matematico non potrebbe far finta di non capire le statistiche del Ministero della Salute, nemmeno se venisse pagato in lingotti d’oro.

 

Per sfortuna dei «sciur dutúr» (come li chiamavano i contadini lombardi)  che dispensano perle di saggezza sui media sotto direttiva della politica – l’uso della logica e della matematica non è appannaggio esclusivo dei professori della Facoltà di Filosofia o di Matematica, ma è intrinseco al funzionamento della mente umana (anche di quella divina, argomenterebbero alcune scuole di pensiero).

 

Dunque, quando un cittadino comune dichiara di trovare una contraddizione in quanto affermano un medico o mille medici, quella contraddizione va smontata oppure si deve correggere quanto affermato.

 

Lo slogan che sentiamo ripetere senza sosta  «mi fido della Scienza» (e su cui il Partito Democratico ha fatto anche dei manifesti  compiaciuti) denota una disarmante ignoranza del metodo scientific

Lo slogan che sentiamo ripetere senza sosta  «mi fido della Scienza» (e su cui il Partito Democratico ha fatto anche dei manifesti  compiaciuti) denota una disarmante ignoranza del metodo scientifico. Della Scienza non «ci si fida»; alla Scienza si chiede ragione, cioè da una comunità scientifica si deve pretendere che non sussistano contraddizioni logico-matematiche in quanto afferma e in quanto dispone a livello prassistico.

 

Il metodo scientifico –come si nota – non può essere democratico: se la maggioranza degli scienziati di una comunità scientifica si contraddicono, questo non evita alle loro posizioni di essere false. Anche quando ad accorgersene fosse una sparuta minoranza.

 

Del resto che non basti una laurea in medicina per padroneggiare il principio di non contraddizione lo si capisce dall’adesione di migliaia di medici all’obbligo vaccinale contro il COVID e, a breve, al terzo richiamo.

 

Perché i medici si sono fatti obbligare a fare il vaccino anti-COVID quando questo obbligo non sussiste per i panettieri?

 

Per proteggere i pazienti degli ospedali, è la motivazione ripetuta dai medici stessi. Insomma, un medico avrebbe subito l’obbligo di vaccinarsi contro il COVID  ( e a breve dovrà subire anche la terza dose) perché deve evitare di contagiare i suoi pazienti.

 

La vaccinazione dei medici non solo è in contraddizione con lo scopo dichiarato ( non contagiare i pazienti), ma è talmente in contraddizione da essere peggiorativa per raggiungere lo scopo

Ecco, questo è un esempio di mancato uso della logica, cioè del principio di non contraddizione. Uno scenario demenziale.

 

Essendo infatti risaputo – anzi, essendo, oggi, certo – che un vaccinato rimane contagiabile e contagioso, usando la razionalità scientifica, ai medici avrebbero dovuto imporre l’obbligo di effettuare tamponi  frequenti per escludere di essere portatori asintomatici del COVID ai loro pazienti.

 

In altre parole, la vaccinazione dei medici non solo è in contraddizione con lo scopo dichiarato ( non contagiare i pazienti), ma è talmente in contraddizione da essere peggiorativa per raggiungere lo scopo: infatti un medico vaccinato sarà percentualmente più asintomatico, quindi –se prende il COVID – non se ne accorgerà nemmeno prima di andare in corsia.

 

Pertanto, dalle premesse dichiarate (non contagiare i pazienti), non seguono le conclusioni (vaccinarsi anziché tamponarsi). Siamo di fronte ad una palese contraddizione, appunto.

 

E abbiamo che i parenti dei pazienti per entrare all’ospedale o al pronto soccorso devono sostenere un tampone seduta stante, mentre il personale sanitario che lavora all’ospedale deve sostenere tamponi con una frequenza ben inferiore.

 

Un medico che scelga di vaccinarsi può dire di farlo per interesse personale, ma non per il bene del paziente. Poiché, in base alla premesse, per tutelare il paziente  egli dovrebbe innanzitutto sottoporsi a frequenti tamponi.  Di queste contraddizioni  nella gestione della pandemia ce ne sono a centinaia

Come si vede da questo esempio, avere conseguito una laurea in medicina non esclude di essere un «idiota».

 

«Idiota» è l’espressione più calzante; come altro si potrebbe definire una soggetto che dice di voler spegnere un incendio ma sceglie di usare un secchio di benzina anziché uno d’acqua? Tecnicamente, un «idiota». In latino, dice la Treccani, «idiota significava “incompetente, inesperto, incolto”», tuttavia è anche interessante l’etimo greco idiótes. voleva dire «voleva dire “uomo privato”, in contrapposizione all’uomo pubblico».

 

Un medico che scelga di vaccinarsi può dire di farlo per interesse personale, ma non per il bene del paziente. Poiché, in base alla premesse, per tutelare il paziente  egli dovrebbe innanzitutto sottoporsi a frequenti tamponi.  Di queste contraddizioni  nella gestione della pandemia ce ne sono a centinaia.

 

E non sono contraddizioni irrilevanti, perché su di esse si fondano addirittura numerose limitazioni ai diritti costituzionali.

 

«È difficile far capire qualcosa ad un uomo se il suo stipendio dipende proprio da questo suo non riuscire a capire» Upton Sinclair

In conclusione, dunque, dal fatto che un laureato – magari anche con mansioni dirigenziali importantissime – possa essere pacificamente un «idiota» se ne può accorgere anche un ortolano, un maestro di musica o un ingegnere meccanico; perché l’uso del principio di non contraddizione è prerogativa di qualsiasi essere umano. Ma di questo si era già accorto Kant qualche tempo fa.

 

Diremo, anzi, che non di rado il livello di idiozia a cui assistiamo sembra così incredibile che non può non venire qualche dubbio; e ci torna alla memoria quanto diceva lo scrittore americano Upton Beall Sinclair:

 

«È difficile far capire qualcosa ad un uomo se il suo stipendio dipende proprio da questo suo non riuscire a capire».

 

 

Gian Battista Airaghi

 

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Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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