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Razzismo

Israele è uno «Stato dell’apartheid», dice l’ex capo del Mossad

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L’ex capo del Mossad ritiene che Israele sia uno «Stato dell’Apartheid»

 

«C’è uno Stato di apartheid qui», ha detto Tamir Pardo, 70 anni, che è stato capo del temuto servizio segreto israeliano tra il 2011 e il 2016, in un’intervista con l’agenzia Associated Press, condotta nella città costiera di Herzliya e pubblicata la scorsa settimana.

 

«In un territorio in cui due persone vengono giudicate secondo due sistemi giuridici, quello è uno Stato di apartheid», ha affermato l’ex vertice dello spionaggio dello Stato ebraico.

 

L’ex capo del Mossad ha affermato che gli ebrei israeliani possono viaggiare liberamente in tutto il Paese, ad eccezione della Striscia di Gaza sotto assedio, mentre i palestinesi necessitano di permesso per entrare in Israele e sono costretti a passare attraverso posti di blocco all’interno della Cisgiordania. Il termine apartheid «non è estremo, è un dato di fatto», ha aggiunto.

 

La Cisgiordania senza sbocco sul mare è stata occupata da Israele sin dalla guerra arabo-israeliana del 1967.

 

Pardo non ha detto se nutriva tali opinioni sul trattamento riservato da Israele ai palestinesi anche quando era a capo dei servizi segreti. Tuttavia, ha insistito sul fatto che mentre era in carica ha ripetutamente esortato il primo ministro Benjamin Netanyahu a prendere una decisione sui confini di Israele.

 

L’ex capo del Mossad ha avvertito che la continua occupazione della Cisgiordania crea il rischio della distruzione di Israele come Stato ebraico. «Israele deve decidere cosa vuole. Un Paese che non ha confini non ha confini», ha detto.

 

A luglio, uno studio del gruppo di ricerca Aspenai Online aveva previsto che i residenti arabi in Israele saranno più numerosi degli ebrei nei prossimi decenni, definendolo una «bomba demografica» che sta tichettando.

 

Il partito Likud di Netanyahu si è scagliato contro Pardo durante la sua intervista, dicendo che «invece di difendere Israele e l’esercito israeliano, Pardo diffama Israele». L’ex capo del Mossad «dovrebbe vergognarsi» di se stesso, ha affermato il partito in una nota.

 

Il trattamento riservato da Israele ai palestinesi è stato paragonato all’apartheid in numerose occasioni, anche da parte di gruppi per i diritti umani, delle Nazioni Unite e dello stesso Sudafrica. Le autorità israeliane sostengono che le popolazioni ebraica e araba godono di pari diritti, mentre attribuiscono le dure misure di sicurezza in Cisgiordania alla costante minaccia terroristica.

 

Lo scorso luglio, per aver definito Israele uno Stato dell’apartheid la giornalista ebreo-americana Katie Halper è stata licenziata in tronco dalla testata di Washington The Hill.

 

Come riportato da Renovatio 21, Amnesty International che in Cisgiordania si stia creando un inedito «apartheid automatizzato» ottenuto con i software di riconoscimento facciale.

 

 

 

Immagine di Catholic Church England and Wales via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0)

 

 

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Razzismo

Legata all’albero, umiliata e picchiata: sdegno in India per la «punizione» di una donna

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il panchayat di un villaggio dell’Uttar Pradesh avrebbe ordinato il gesto disumano per una relazione extraconiugale. La polizia ha arrestato 15 persone in relazione all’episodio.

 

Stanno suscitando vivo scalpore in India le immagini del trattamento disumano inflitto a una donna di un villaggio dell’Uttar Pradesh, perché colta in flagrante mentre parlava con il suo amante mentre il marito era lontano.

 

Un video dell’incidente – apparso su Internet e divenuto virale – mostra la donna mentre viene legata a un albero, le vengono tagliati i capelli e il viso viene annerito con inchiostro nero. Dopo questa umiliazione pubblica la donna viene poi picchiata davanti al figlio dodicenne e alle figlie ancora più piccole a causa della sua relazione con un uomo più giovane.

 

Immagini che mostrano quanto grave e radicato resti in alcuni contesti il problema della violenza contro le donne.

 

Video aggiunto da Renovatio 21

 

L’episodio è avvenuto a Chhotki Ibrahimpur, nel villaggio di Hathigawa a Pratapgarh. Il panchayat avrebbe ordinato la punizione per entrambi, ma l’amante è riuscito a fuggire e gli abitanti del villaggio hanno così infierito solo sulla donna.

 

Una volta fuggito, l’uomo ha sporto denuncia a una stazione di polizia: gli agenti sono intervenuti sul posto e hanno salvato la malcapitata. Secondo quanto riferito, 15 persone sono state arrestate in relazione a questa vicenda e la polizia ha avviato un’indagine.

 

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Immagine da AsiaNews.

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Immigrazione

Morti e arresti: Ankara chiude il confine con la Siria per arginare le violenze xenofobe

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   La polizia turca ha fermato almeno 474 persone. Ad Afrin quattro morti in uno scontro a fuoco fra manifestanti ed esercito turco. Ad innescare l’ondata la notizia – divenuta virale sui social – di una violenza sessuale commessa da un rifugiato siriano contro un minorenne. La vicenda specchio della crescente insofferenza verso gli stranieri.   Le autorità di Ankara hanno chiuso il principale punto di confine con il Nord-Ovest della Siria, in seguito a un attacco sferrato contro soldati dell’esercito da cittadini siriani a sua volta innescato dalle violenze contro i connazionali oltre-confine.   Una situazione di profonda tensione (e confusione), originata da un incidente dai contorni poco chiari avvenuto nel distretto di Melikgazi: secondo alcune ricostruzioni, un bambino della zona avrebbe subito molestie da un rifugiato siriano, provocando la reazione della popolazione locale e gli scontri, che hanno provocato anche diversi morti e feriti.   In Turchia, la polizia ha arrestato almeno 474 persone coinvolte in attacchi contro la comunità siriana in tutto il Paese, come riferisce il ministro degli Interni Ali Yerlikaya commentando i disordini divampati nella serata del 30 giugno scorso.   Gli incidenti nella provincia di Kayseri (Anatolia centrale) sono proseguiti fino alla mattinata del giorno successivo, mentre giungeva la conferma da parte dell’ufficio del governatore dell’arresto della persona sospettata di aver abusato del minore, preso in custodia dalle forze dell’ordine.   A Kayseri proprietà e veicoli di siriani sono stati vandalizzati e dati alle fiamme. Nel frattempo le violenze si sono estese alle province di Hatay, Gaziantep, Konya, Bursa e a un distretto di Istanbul, con alcuni feriti tra gli immigrati.

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In un secondo momento centinaia di siriani sono scesi in strada in diverse città del Nord-Ovest sotto il controllo dei ribelli, in un’area in cui la Turchia mantiene migliaia di truppe impedendo al presidente Bashar al-Assad di riconquistare il controllo di tutto il Paese.   Ankara ha risposto ai disordini chiudendo il valico di Bab al Hawa. A registrare gli scontri più violenti è stata la città di Afrin, con almeno quattro vittime nello scambio di colpi a fuoco tra manifestanti armati e truppe turche.   Il caso di (presunta) violenza sessuale contro il minore – i cui contorni restano oscuri e sta indagando la polizia – e la violenta reazione della popolazione sono diventati anche materia di scontro fra governo e opposizione.   L’esecutivo ha rivendicato una politica di lotta e contrasto alla xenofobia, incolpando la fazione avversa per una retorica anti-rifugiati. Di contro, le forze di opposizione puntano il dito contro la leadership di Ankara ritenuta colpevole di non gestire la questione rifugiati. Gli eventi hanno provocato contro-proteste nel nord della Siria, dove i manifestanti in preda all’ira hanno bruciato bandiere turche.   Analisti ed esperti sottolineano come l’incidente sia lo specchio di una crescente insofferenza verso gli immigrati, soprattutto siriani, in Turchia, nazione che ospita il numero più consistente al mondo di rifugiati con 3,6 milioni di siriani registrati e circa 320mila di altre nazionalità. Il dato è fornito dall’Alto commissariato ONU per i rifugiati (UNCHR), sebbene il numero esatto dei migranti «irregolari» risulta al momento sconosciuto.   Secondo le statistiche ufficiali del ministero degli Interni di Ankara, nella sola Kayseri vi sono circa 83mila rifugiati siriani registrati a maggio 2024 che rappresentano, a seconda delle convenienze, manodopera a basso costo o bersaglio di una propaganda [governativa] nazionalista e religiosa.   Uno studio del centro di ricerca e statistica Tepav risalente al 2021 ha rivelato che quasi tutti i rifugiati siriani occupati lavorano in modo informale. Molte aziende li assumono per evitare gli aumenti dei costi del salario minimo; lo scorso anno, il vice-presidente Cevdet Yılmaz ha riconosciuto la necessità di un «flusso regolare di migranti» per colmare i vuoti a livello di manodopera.   Inoltre, uno studio IPSOS 2024 per conto dell’UNCHR su 52 Paesi mostra che la Turchia ha il più alto tasso di sentimento anti-rifugiati tra queste nazioni. Il 77% degli interpellati è favorevole alla chiusura totale delle frontiere ai rifugiati (la media globale è del 40%); infine, il 70% ritiene che i rifugiati che arrivano in Turchia non fuggano dalla guerra, ma cerchino una vita più confortevole, ed è in calo anche il consenso attorno a una politica di sostegno.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di Bertramz via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported
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Immigrazione

In Sudafrica i bianchi affrontano crimini e torture: «ma l’Europa sarà peggio». Parla un attivista boero

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Nonostante l’enorme quantità di violenza a cui sono sottoposti i cittadini bianchi negli ultimi decenni, c’è più speranza per il Sudafrica che non per l’Europa.

 

A dichiararlo in un’intervista data giorni fa al sito Remix.news è Ernst Roets, responsabile politico del Solidarity («Movimento di Solidarietà») in Sud Africa, un network di organizzazioni comunitarie sudafricane che conta più di 500.000 membri che, insieme alle loro famiglie, rappresentano circa due milioni di persone, una rete di mutuo soccorso formata da afrikaner (cioè boeri, sudafricani di discendenza olandese, francese ugonotta, tedesca) e sudafricani di varia origine. La fondazione sostiene di essere di ispirazione cristiano-democratica dice di impegnarsi «per il riconoscimento reciproco e il rispetto tra i gruppi razziali», rifiutando l’estremismo di sinistra e di destra.

 

Come riportato da Renovatio 21, il problema della violenza anti-bianca è oramai endemico nel Sudafrica post-1994. Non solo: casi recenti hanno mostrato come perfino politici e partiti, come il caso di Julius Malema, incitino apertis verbis non solo la discriminazione verso i bianchi, ma la loro uccisione – o come non ha avuto paura di denunciare il sudafricano Elon Musk – arrivino perfino ad istigarne il genocidio.

 

Il caso di Malema che davanti a migliaia di sostenitori del suo movimento Economic Freedom Fighters (EFF) canta «Kill the Boers» – «uccidi i boeri» – è davvero emblematico.

 

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Secondo l’intervistato, l’EFF, che vale il 12% dei voti, è in fase di stagnazione, tuttavia starebbe perdendo i voti anche l’ANC, il partito di sinistra, nazionalista nero, socialista che è sempre stato al potere dal 1994 con più del 60% dei voti. Qualora alle prossime elezioni andasse sotto il 50%, l’alleanza con l’EFF sarebbe inevitabile, e con esso lo spostamento verso idee razziste anti-bianchi sempre più radicali.

 

«E lo scenario peggiore sarebbe qualcosa sulla falsariga di una fusione di questi due partiti. Poiché in realtà si sono divisi, l’EFF una volta era all’interno dell’ANC. E se si uniscono, allora è uno scenario davvero brutto» spiega.

 

Fuori di politica, è la situazione generale della vita dei bianchi in Sudafrica che sembra sempre più disperata.

 

«Abbiamo alcuni problemi seri in Sudafrica. Puoi classificarli in due, forse tre categorie. Il primo è che il governo stesso sta fallendo a ogni livello immaginabile. Stiamo parlando di criminalità, economia, servizi, consegne, infrastrutture: tutto» dice Roets.

 

«La seconda è la minaccia che vediamo attraverso i media, le università e così via, che promuove il risveglio e l’ideologia di sinistra insegnata agli studenti e alle persone che vengono indottrinate».

 

«E poi la terza questione è ciò che risulta da queste due tendenze: illegalità e criminalità. Il tasso di omicidi in Sudafrica è di oltre 40 persone ogni 100.000 all’anno: gli omicidi nelle fattorie, abbiamo la violenza legata alle bande. Quindi, solo l’illegalità generale sta diventando un grosso problema».

 

L’attivista sudafricano ha una visione particolare di quanto sta succedendo con gli attacchi alle fattorie dei bianchi.

 

«Se sei lì solo per prendere soldi, entri, uccidi il contadino, prendi la roba e te ne vai. Ma non è quello che sta succedendo in queste fattorie. Scopri che questi agricoltori in alcuni di questi attacchi vengono legati. Gli aggressori scandiscono slogan politici. In alcuni di questi casi, scrivevano slogan politici sul muro, come “Uccidi il boero”. In un caso estremo, hanno addirittura scritto “Uccidi il boero” con il sangue delle vittime sul muro» spiega Roets.

 

«E poi li torturavano per ore in molti di questi casi con metodi diversi, strangolamento, smembramento, taglio di parti del corpo e così via. In alcuni casi, cavandogli gli occhi, tagliandogli la lingua, bruciandoli con acqua bollente, con ferri da stiro. L’elenco potrebbe continuare con i modi orribili in cui questi agricoltori sono stati torturati».

 

«Se si dice che questi agricoltori vengono uccisi solo perché hanno soldi, non si fornisce alcuna risposta o spiegazione sul perché queste torture abbiano luogo e sul perché questi slogan politici vengano usati oggi».

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Viene toccato quindi il tema della diaspora sudafricana, con i bianchi perseguitati finiti a vivere in tutto il mondo, dall’Olanda al Regno Unito, dal Canada all’Australia.

 

«Così tante persone se ne sono andate, centinaia di migliaia di persone se ne sono andate, se non milioni da quando questi problemi hanno iniziato a verificarsi, ma molte persone non possono andarsene perché non possono permetterselo». Tuttavia, ricorda, «ci sono anche molte persone che semplicemente non se ne vanno perché in un certo senso siamo troppo testardi. In un certo senso è considerato un tradimento dei propri antenati e dei sacrifici che hanno fatto. Ma non è solo questo, è perché vogliamo davvero avere un futuro in Sudafrica».

 

A questo punto, rivela Roets a proposito dei bianchi che emigrano, «sta diventando abbastanza chiaro che venire in Europa non significa necessariamente arrivare in un luogo sicuro o prospero. E questo è qualcosa che ci motiva davvero a dire: “Bene, lavoriamo per una soluzione in Sudafrica”».

 

«Posso semplicemente aggiungere che abbiamo effettivamente condotto un sondaggio tra i nostri membri. Abbiamo chiesto loro: “Siete ottimisti o pessimisti riguardo agli Stati Uniti, all’Europa e al Sudafrica?”» racconta il sudafricano, che ha scoperto «che erano i meno pessimisti riguardo al Sudafrica. Gli afrikaner sono più pessimisti riguardo all’Europa e all’America. E penso che il motivo sia che non pensano che le cose vadano meglio in Sudafrica, ma possono vedere che sembra esserci una spirale discendente in Europa e negli Stati Uniti».

 

Ciò detto da un boero cittadino di un Paesi la cui Corte suprema ha stabilito che la canzone «uccidi i boeri» non è un discorso di odio.

 

A tal punto, anche da fuori, pare essere divenuta evidente la pericolosa decadenza dell’Occidente piagato dall’invasione migratoria stabilita dalle élite.

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Immagine: busto del generale Paul Kruger a Orania

Immagine di Orania Beweging via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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