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Geopolitica

Il Medio Oriente si riorganizza

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire.

 

 

 

Gli Stati del Medio Oriente – divisi non per volontà loro, ma dalle potenze che hanno colonizzato la regione – si riorganizzano secondo una propria logica. Le nuove alleanze sono ancora fragili, ma è con queste che gli Occidentali dovranno confrontarsi.

 

 

 

 

Quel che rende il Medio Oriente difficile da comprendere è che è formato da una molteplicità di protagonisti che, seguendo dinamiche proprie, stringono o rompono alleanze secondo le circostanze. Pensiamo spesso di conoscere politicamente la regione, di sapere distinguere gli amici dai nemici. Ma quando dopo anni torniamo negli stessi luoghi, ci accorgiamo che il paesaggio è radicalmente cambiato: alcuni di coloro che ci erano amici, ora sono nostri nemici, mentre ci sono ex amici che desiderano addirittura la nostra testa.

Alcuni protagonisti, che vivevano in regioni desertiche, hanno dovuto per forza di cose organizzarsi in tribù. La loro sopravvivenza dipendeva dall’obbedienza a un capo. Sono estranei alla democrazia e mossi dallo spirito di appartenenza alla propria comunità. È il caso, per esempio, delle tribù saudite e yemenite, dei sunniti iracheni provenienti da queste tribù e dei kurdi, delle comunità israeliane e libanesi, nonché delle tribù libiche

 

È quanto sta accadendo ora. In pochi mesi tutto sarà diverso.

 

1) Bisogna innanzitutto comprendere che alcuni protagonisti, che vivevano in regioni desertiche, hanno dovuto per forza di cose organizzarsi in tribù. La loro sopravvivenza dipendeva dall’obbedienza a un capo. Sono estranei alla democrazia e mossi dallo spirito di appartenenza alla propria comunità. È il caso, per esempio, delle tribù saudite e yemenite, dei sunniti iracheni provenienti da queste tribù e dei kurdi, delle comunità israeliane e libanesi, nonché delle tribù libiche. Sono costoro le principali vittime (a eccezione degli israeliani) del progetto militare degli Stati Uniti: la strategia Rumsfeld/Cebrowski di distruzione delle strutture statali. Non hanno capito quale fosse la posta in gioco e ora si ritrovano senza uno Stato solido che li difenda.

 

2) Un’altra categoria di protagonisti agisce per interesse personale. Pensa solo ad accumulare denaro e non prova empatia per alcuno. Si adatta a qualsiasi situazione politica e riesce sempre a stare dalla parte del vincitore. È il serbatoio che produce alleati irriducibili degli imperialisti di ogni tipo, che hanno dominato la regione: di recente l’Impero Ottomano, indi gl’imperi inglese e francese, ora gli Stati Uniti.

 

3) Infine, c’è la categoria di coloro che agisco per difendere la Nazione. Hanno lo stesso coraggio delle popolazioni tribali, ma sono capaci di allargare il proprio orizzonte. È la categoria che nel corso dei millenni ha creato le nozioni di Città e poi di Stato. Caso emblematico sono i siriani, che per primi hanno costituito Stati e che oggi muoiono per salvaguardarne uno.

 

Sovente gli Occidentali pensano che questi popoli si battano per delle idee: il liberalismo o il comunismo, l’unità araba o l’unità islamica e così via. Nella realtà non è questo che accade. Un esempio: gli yemeniti comunisti sono oggi quasi tutti diventati membri di Al Qaeda.

Sovente gli Occidentali pensano che questi popoli si battano per delle idee: il liberalismo o il comunismo, l’unità araba o l’unità islamica e così via. Nella realtà non è questo che accade. Un esempio: gli yemeniti comunisti sono oggi quasi tutti diventati membri di Al Qaeda

 

Ma, soprattutto, giudichiamo queste persone incapaci di essere al nostro livello. Ebbene, è il contrario: sono gli Occidentali, che vivono in pace da tre quarti di secolo, ad aver perso il contatto con le realtà semplici. Il mondo è pieno di pericoli e si ha bisogno di alleanze per sopravvivere. Si sceglie di aderire a un gruppo (tribale o nazionale) o d’intrufolarsi da soli fra i nemici, abbandonando amici e famiglia. In tale mondo esistono ovviamente anche le ideologie, ma dobbiamo analizzarle solo dopo aver preso in esame queste tre categorie.

 

Dalla seconda guerra mondiale il panorama politico del Medio Oriente si è cristallizzato attorno ad alcune crisi: l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra (1948); l’indebolimento degl’imperi inglese e francese di fronte a Stati Uniti e Unione Sovietica (Suez, 1956); il controllo sul petrolio del Golfo da parte degli Stati Uniti (Carter, 1979); il crollo dell’URSS e l’egemonia degli USA (Tempesta del deserto, 1991); la strategia Rumsfeld/Cebrowski (2001); e, per finire, la rinascita della Russia (2015).

 

Tutti gli accadimenti politici e militari, comprese la rivoluzione iraniana e le «primavere arabe», non sono che epifenomeni di quest’ordito. Nessun evento ha prodotto nuove alleanze; al contrario, tutti i protagonisti hanno rafforzato le esistenti per tentare, invano, di far vincere l’uno o l’altro campo.

 

Il presidente Donald Trump, che si era prefisso come unico compito per il Medio Oriente di far cessare la «guerra senza fine» di Rumsfeld/Cebrowski, non ne ha avuto il tempo. È riuscito tuttavia a convincere il Pentagono a smettere di usare jihadisti come mercenari al proprio servizio. Oggi però il dipartimento della Difesa fa retromarcia. Trump ha, in particolare, capovolto lo scacchiere mettendo in discussione la fondatezza della causa palestinese.

Il presidente Donald Trump, che si era prefisso come unico compito per il Medio Oriente di far cessare la «guerra senza fine» di Rumsfeld/Cebrowski, non ne ha avuto il tempo. È riuscito tuttavia a convincere il Pentagono a smettere di usare jihadisti come mercenari al proprio servizio

Diversamente dalle impressioni della prima ora, l’intenzione di Trump non era favorire Israele, ma prendere atto delle lezioni del passato: i palestinesi hanno perso cinque successive guerre contro Israele e hanno tentato due volte di traslocare e conquistare con la forza nuovi territori (Giordania e Libano). Alla fine, hanno firmato con Israele l’Accordo di Oslo. Stando così le cose, come si può ancora parlare di diritti inalienabili dei palestinesi, quando loro stessi se ne sono fatti beffe?

 

Al di là che si sia o no d’accordo, è inevitabile constatare che all’interno del mondo arabo questo ragionamento è condiviso, sebbene nessuno lo ammetta.

 

È sotto gli occhi di tutti che le potenze che a parole la difendono non fanno assolutamente nulla per la causa palestinese; e che si tratta di una posizione giuridica utile a mantenere, a proprio vantaggio, immutata la situazione. Si dà il caso che il presidente Trump sia riuscito a fare firmare gli Accordi di Abramo a Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Israele. I nemici di ieri hanno accettato di rappacificarsi.

 

Contrariamente a quanto si crede, non è stato più facile per Israele che per gli arabi. Infatti, la pace costringe Israele a non essere più lo Stato coloniale erede dell’impero britannico, ma una nazione come le altre, chiamata a convivere civilmente con quanti le stanno intorno.

 

Gli Emirati Arabi Uniti e Israele da un lato, Arabia Saudita e Iran dall’altro si pongono ormai una nuova domanda: non è bene che tutti si preparino a un nuovo pericolo, cioè l’espansionismo della Turchia e del Qatar?

Sono mutamenti che, se progrediranno, richiederanno comunque del tempo. Tuttavia gli Emirati Arabi Uniti e Israele da un lato, Arabia Saudita e Iran dall’altro si pongono ormai una nuova domanda: non è bene che tutti si preparino a un nuovo pericolo, cioè l’espansionismo della Turchia e del Qatar?

 

Per questo motivo Emirati Arabi Uniti e Israele hanno stretto un’alleanza con Grecia e Cipro, mentre Arabia Saudita e Iran hanno avviato trattative segrete.

 

L’Egitto (in rappresentanza della Lega Araba, di cui alcuni di questi Paesi sono membri) e la Francia (in rappresentanza dell’Unione Europea, di cui gli altri Paesi sono membri o partner) sono stati chiamati a partecipare a una riunione preparatoria, il Forum Philia di Atene.

 

Questo brusco e completo capovolgimento delle alleanze si sta compiendo nel modo il più possibile discreto. Ma si sta realizzando.

 

Il fatto più importante è l’alleanza militare tra Grecia e Israele da una parte, ed Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita dall’altra. Non si conosce la totalità degli accordi, tuttavia si sa che le Forze di Difesa israeliane addestreranno l’aviazione militare greca per 1,65 miliardi di dollari, mentre la Grecia invierà missili Patriot in Arabia Saudita e gli Emirati potrebbero cedere alcuni aerei da combattimento alla Grecia.

Emirati Arabi Uniti e Israele hanno stretto un’alleanza con Grecia e Cipro, mentre Arabia Saudita e Iran hanno avviato trattative segrete

 

Le relazioni tra Israele ed Emirati sono state formalizzate dopo l’apertura, in una sede dell’ONU ad Abu Dhabi, di una «rappresentanza» israeliana, che ufficiosamente funge da ambasciata. Le relazioni tra Israele e Arabia Saudita risalgono ai negoziati segreti del 2014-15.

 

Le trattative tra Arabia Saudita e Iran dimostrano ancora una volta che l’opposizione sunniti/sciiti è artificiosa. Ricordiamoci che nel 1992, lungi dal detestarsi, questi due Paesi combatterono insieme, sotto il comando USA, per sostenere la Bosnia-Erzegovina mussulmana contro la Serbia ortodossa

 

 

Thierry Meyssan

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

 

 

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Geopolitica

Problemi per il molo piazzato dalla Marina USA a Gaza: marinai feriti e navi arenate in spiaggia

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Quattro navi della marina americana, che erano state collegate a un molo galleggiante al largo della costa di Gaza, hanno rotto gli ormeggi e si sono arenate su una spiaggia israeliana a causa di una tempesta, ha detto il Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM).

 

Il molo, costruito su ordine del presidente americano Joe Biden per fornire aiuti a Gaza nel corso dell’operazione militare israeliana, è operativo dalla scorsa settimana. Secondo il Pentagono, il progetto costerà agli Stati Uniti circa 320 milioni di dollari.

 

Quattro navi sono state disconnesse da un molo sabato, ha detto il CENTCOM, aggiungendo che non ci sono stati morti o feriti e che le operazioni del molo non sono state influenzate.

 


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La prima nave è rimasta bloccata su una spiaggia nella città portuale israeliana di Ashdod, e anche un’altra nave inviata per estrarla si è arenata, ha riferito il Times of Israel.

 

«Due navi sono ora ancorate sulla spiaggia vicino al molo», ha detto il CENTCOM, aggiungendo che la terza e la quarta nave si sono arenate sulla costa vicino alla città israeliana di Ashkelon.

 

Secondo il CENTCOM, gli sforzi per recuperare le navi sono assistiti dall’esercito israeliano. “Nessun personale americano entrerà a Gaza” durante l’operazione, ha sottolineato.

 

 

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All’inizio di questa settimana, tre soldati statunitensi sono rimasti feriti mentre lavoravano sul molo e uno ha richiesto il ricovero in ospedale in Israele.

 

L’ONU, che distribuisce gli aiuti dai camion trasportati dalle navi statunitensi al molo, ha detto che le consegne hanno dovuto essere interrotte domenica e lunedì dopo che i palestinesi si sono precipitati contro i camion in movimento e hanno saccheggiato l’intero carico. La cattura «rappresenta una minoranza delle spedizioni complessive», ha detto venerdì in un briefing Daniel Dieckhaus, responsabile della risposta a Gaza dell’USAID.

 

«Questo corridoio marittimo umanitario da solo non è sufficiente per soddisfare le sconcertanti necessità di Gaza, ma è un’aggiunta importante. È pensato per aumentare, non sostituire o sostituire i valichi terrestri verso Gaza», ha detto Dieckhaus ai giornalisti.

 

Il molo – che è in grado di trasportare solo una piccola parte degli aiuti umanitari che potrebbero potenzialmente essere portati a Gaza attraverso le rotte terrestri controllate da Israele – è stato bloccato dai legislatori statunitensi citando l’alto costo e il pericolo per il personale.

 

All’inizio di questo mese l’ONU aveva avvertito che la rotta terrestre degli aiuti umanitari era stata completamente bloccata a causa dell’offensiva israeliana nella città di Rafah, nel sud di Gaza. L’Egitto ha mantenuto il blocco al valico di Rafah da quando le forze israeliane hanno catturato il lato di Gaza del confine.

 

Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha accettato venerdì di incanalare camion di aiuti umanitari verso il valico di Kerem Shalom, controllato da Israele, al confine tra Egitto, Israele e Gaza.

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Cina

La Cina conclude le manovre militari per conquistare Taiwan

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L’ultima esercitazione militare cinese, Joint Sword 2024A, si è conclusa il 24 maggio.   Le manovre hanno dimostrato un livello significativo di gravità per quanto riguarda le minacce all’indipendenza di Taiwan e hanno avuto luogo tre giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente Lai Ching-te.   Nell’ambito della reazione cinese, anche la guardia costiera cinese nella provincia del Fujian, di fronte a Taiwan, ha mobilitato navi per «operazioni di applicazione della legge» a lungo raggio.

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Le attuali operazioni, che sono state ampiamente coperte dai media cinesi, sono state molto più estese di quelle condotte in risposta alla visita dell’allora presidente della Camera Nancy Pelosi del 2 agosto 2022 a Taiwan, o alla successiva visita del 30 marzo – 6 aprile 2023 dell’allora presidente di Taiwano Tsai Ing-wen negli Stati Uniti, durante il quale ha incontrato funzionari statunitensi.   In una dichiarazione esplicita da riguardo, l’Esercito di Liberazione del Popolo (ELP) ha affermato venerdì che le esercitazioni sono progettate per testare la capacità della Cina di «prendere il potere» su Taiwan. Inoltre, il nome dell’esercitazione, Joint Sword 2024A, indica che se le provocazioni da parte di Taiwan continuano, ci sono anche una B, C e D in atto.   La questione di Taiwan riguarda l’intero sistemo economico internazionale a causa della centralità del Paese nella produzione globale di microprocessori.   Sinora, lo status quo nella questione tra Pechino e Taipei è stato assicurato dal cosiddetto «scudo dei microchip» di cui gode Taiwano, ossia la deterrenza di questa produzione industriale rispetto agli appetiti cinesi, che ancora non hanno capito come replicare le capacità tecnologiche di Taipei.   La Cina, tuttavia, sta da tempo accelerando per arrivare all’autonomia tecnologica sui semiconduttori, così da dissolvere una volta per tutte lo scudo dei microchip taiwanese. La collaborazione tra Taiwan e UE riguardo ai microchip, nonostante la volontà espressa da Bruxelles, non è mai davvero decollata.   Come riportato da Renovatio 21, il colosso del microchip TSMC ha dichiarato l’anno scorso che la produzione dei microchip si arresterebbe in caso di invasione cinese di Formosa.   In uno sviluppo recente, l’azienda olandese ASML, che vende a TSMC immense macchine di ultra-precisione a tecnologia ultravioletta per la produzione di chip, ha affermato di essere in grado di fermarle in caso di invasione da parte della Cina comunista.   I microchip taiwanesi sono un argomento centrale nella attuale tensione tra Washington e Pechino, che qualcuno sta definendo come una vera guerra economica mossa dall’amministrazione Biden contro il Dragone, che riprendono politiche della precedente amministrazione Trump.

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Come riportato da Renovatio 21, durante il suo discorso per la celebrazione del centenario del Partito Comunista Cinese nel 2021 lo Xi, mostrandosi in un’inconfondibile camicia à la Mao, parlò della riunificazione con Taipei come fase di un «rinnovamento nazionale» e della prontezza della Cina a «schiacciare la testa» di chi proverà ad intimidirla.   Alcuni mesi fa il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la riunificazione di Taiwan e della Cina continentale è una «inevitabilità storica», mentre a novembre il Chen Binhua, appena nominato nuovo portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwano del Consiglio di Stato cinese, aveva avvertito che «l’indipendenza di Taiwan significa guerra».   Oggi come allora, il Paese è un punto di tensione internazionale, tra le aperte minacce di invasione da parte della Repubblica Popolare Cinese e le manovre della flotta militare americana nell’area.   Come riportato da Renovatio 21, la tensione nella regione era salita quando a inizio anno il cacciatorpediniere lanciamissili USS John Finn della 7ª flotta USA ha annunciato il transito da sud a nord dello Stretto di Taiwano.   Taipei aveva vissuto una enigmatica falsa emergenza invasione, propalato dai media, pochi mesi fa.   Nel frattempo, come visto in settimana a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Taipei, nel Parlamento taiwanese sono botte ed episodi di rugby legislativo.

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Geopolitica

Birmania, i Rohingya presi di mira anche dai buddisti dell’Arakan Army

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Nonostante il blocco di internet imposto dalla giunta golpista, le Nazioni unite parlano di «rapporti spaventosi e inquietanti» sugli attacchi contro la popolazione civile di etnia Rohingya. Negli ultimi mesi la giunta golpista, sempre più in difficoltà sul campo, ha alimentato le tensioni interetniche, arruolando (anche in maniera forzata) i Rohingya contro la milizia etnica locale. Una tragedia che sta riportando il Paese ai tempi delle violenze settarie.

 

Le atrocità commesse negli ultimi mesi nello Stato birmano occidentale del Rakhine sembrano essere il preludio di una nuova fase di violenze che potrebbe investire l’intero Myanmar una volta terminato il conflitto civile tra le milizie etniche e l’esercito.

 

Da giorni, diversi rappresentanti delle Nazioni unite parlano di «rapporti spaventosi e inquietanti» sugli attacchi contro la popolazione civile di etnia Rohingya da parte della giunta militare ma anche della milizia etnica locale, l’Arakan Army, che controlla gran parte del territorio del Rakhine.

 

«Ancora una volta, il mondo sembra deludere un popolo disperato nel momento del pericolo, mentre si svolge un disastro disumano guidato dall’odio nello Stato Rakhine», dove «stanno emergendo notizie allarmanti e credibili di omicidi, sparizioni forzate e diffusi incendi dolosi», ha dichiarato Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni unite per i diritti umani in Myanmar.

 

Circa 45mila civili Rohingya, secondo i dati diffusi dall’ONU, sono sfollati dopo che una serie di incendi sono divampati nella città di Buthidaung e dintorni, distruggendo case e campi coltivati.

 

I Rohingya hanno puntato il dito contro l’Arakan Army, che a sua volta ha incolpato gli attacchi aerei della giunta militare. Le immagini satellitari hanno confermato la devastazione causata dagli incendi tra aprile e maggio, ma il blocco di internet imposto dall’esercito birmano impedisce di ottenere informazioni certe e verificate.

 

L’Arakan Army ha però conquistato la città e ha ora esteso i combattimenti alla vicina municipalità di Maungdaw, dove esistono «rischi chiari ed evidenti di una grave diffusione della violenza», ha affermato nei giorni scorsi Liz Throssell, portavoce dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani.

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Come aveva segnalato l’International Crisis Group in un rapporto pubblicato a inizio mese, da tempo stavano montando le tensioni tra l’Arakan Army, dominato da combattenti di etnia Rakhine e fede buddhista, e i Rohingya, di fede musulmana.

 

A differenza di altre parti del Paese, gli scontri nel Rakhine sono scoppiati a novembre dopo che l’Arakan Army ha deciso di unirsi ad altre milizie etniche in un’offensiva congiunta contro l’esercito birmano. Fino ad allora aveva sostanzialmente retto (tranne che per un periodo di qualche mese nella seconda metà del 2022) un cessate il fuoco firmato appunto tra l’Arakan Army e l’esercito birmano, responsabile del colpo di Stato che a febbraio 2021 ha dato avvio al conflitto.

 

Da allora le milizie etniche (che combattono per maggiore autonomia nei loro territori dai tempi dell’indipendenza dall’impero britannico nel 1948) si sono unite tra di loro e ad altri gruppi armati contro il regime militare, che appare sempre più in difficoltà.

 

L’Arakan Army da sempre si batte per uno Stato di etnia Rakhine. Ma nella regione vivono anche 600mila Rohingya, a cui il governo birmano nega la cittadinanza, considerandoli immigrati illegali dal Bangladesh. Nel 2017 furono il principale obiettivo di una campagna di repressione dell’esercito che oggi è oggetto di un processo per genocidio da parte delle Nazioni unite. Almeno 750mila persone scapparono nel vicino Bangladesh per sfuggire alla persecuzione.

 

Eppure, nonostante ciò, molti Rohingya negli ultimi mesi si sono uniti alle fila dell’esercito per combattere contro l’Arakan Army, dopo che a febbraio la giunta militare, a corto di uomini dopo tre anni di combattimenti, ha imposto a uomini e donne la leva obbligatoria.

 

La maggior parte del reclutamento è forzato, ma alcuni Rohingya si sono arruolati volontariamente, si legge nel rapporto dell’International Crisis Group: «anche se la paura e la rabbia nei confronti dell’Arakan Army sembrano essere parte della loro motivazione, il regime avrebbe anche lanciato la prospettiva di salari regolari e, almeno in alcuni casi, la promessa di cittadinanza. Anche influenti leader della comunità Rohingya vicini ai militari hanno incoraggiato i giovani ad arruolarsi».

 

L’esercito birmano ha quindi alimentato le tensioni intercomunitarie per indebolire l’Arakan Army, collaborando per esempio anche con l’Arakan Rohingya Salvation Army – una milizia che i militari avevano designato come «organizzazione terroristica» e i cui attacchi contro le forze dell’ordine nel 2017 avevano dato il pretesto per l’inizio della campagna di repressione contro i Rohingya.

 

Twan Mrat Naing, il leader dell’Arakan Army ha in più occasioni definito i Rohingya «bengalesi», in maniera dispregiativa. Questa retorica ha infiammato la situazione, al punto che i militari sono riusciti ad attrarre nuovi combattenti anche dai campi profughi Rohingya in Bangladesh.

 

«Fonti nei campi hanno riferito a Crisis Group che negli ultimi mesi migliaia di aspiranti combattenti hanno attraversato il confine con il Myanmar, compresi bambini di quattordici anni; questa campagna di reclutamento si è intensificata drammaticamente negli ultimi giorni, con l’arruolamento di ben 500 rifugiati», scrive ancora il centro di ricerca. «Mentre alcuni Rohingya stanno rispondendo agli appelli per lottare per una propria patria, la maggior parte delle reclute sono state costrette a prestare servizio contro la loro volontà. Questo reclutamento forzato avviene apertamente nei campi, ma le forze dell’ordine del Bangladesh hanno fatto poco per fermarlo».

 

Gli attacchi contro i civili da parte dell’Arakan Army rischiano di alimentare l’arruolamento dei Rohingya e il ciclo di violenza. Diversi osservatori hanno affermato che l’attuale situazione ricorda quella che si era creata tra il 2012 e il 2017, quando il Rakhine era scosso da violenze settarie.

 

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