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Il caso delle celebrazioni di Don Milani. Lettera aperta di due intellettuali fiorentini

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Renovatio 21 pubblica la lettera aperta scritta da scrittore e giornalista pubblicista Pucci Cipriani e il blogger Pier Luigi Tossani, entrambi fiorentini, in merito alle celebrazioni per il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani. La lettera aperta è stata spedita a varie autorità civili e religiose che intendono commemorare il priore della Barbiana. Sul caso di Don Milani, e su quello che può significare oggi, Renovatio 21 aveva pubblicato un saggio piuttosto esteso quattro anni fa. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

 

Gentilissimi,

 

non è a cuor leggero, quanto piuttosto gravato da dispiacere e preoccupazione, che vi inviamo la presente missiva.

 

Ci riferiamo all’imminente centenario della nascita di don Lorenzo Milani, che ricorrerà il 27 maggio prossimo e per il quale è stata organizzata una nutrita serie di manifestazioni, incontri, giornate di ricordo e di studio, che si protrarranno anche nel 2024.

 

Ne leggiamo sul sito web dell’Istituzione Culturale don Milani, a questo link, dove si dà notizia della costituzione di un Comitato nazionale dedicato, la cui presidenza è stata affidata all’on. Rosy Bindi.

 

Ci rivolgiamo a Voi, poiché siete stati chiamati a vario titolo alla composizione del Comitato e alla collaborazione con esso.

 

Da parte nostra, ci presentiamo: Giuseppe (Pucci) Cipriani, scrittore e giornalista pubblicista di Borgo San Lorenzo, direttore della rivista Controrivoluzione, e Pier Luigi Tossani, cittadino e blogger fiorentino.

 

Vi scriviamo dunque, per porgervi alcune considerazioni sulla figura del priore di Barbiana. Leggiamo nel testo precedentemente linkato, che il sindaco di Vicchio, Filippo Carlà Campa, ha affermato:

 

«La strada che stiamo seguendo, quella di non interpretare soggettivamente i testi di don Milani ma di leggerli nel loro significato profondo e vero, ha portato coesione e finalità d’intenti. La figura di don Lorenzo è divisiva nel senso che i suoi scritti, il suo messaggio chiamano, spingono a una riflessione, a prendere posizione, ma proprio per questo unisce, indica la direzione. Ci sprona – conclude – a ricercare sempre la verità nei suoi scritti».

 

È appunto questo che noi intendiamo fare: non tanto interpretare, quanto piuttosto semplicemente leggere direttamente alla fonte gli scritti del priore di Barbiana nel loro significato anche letterale, in quanto manifestazioni puntuali del suo pensiero, per trarne le conseguenze, circa la sostanza della sua lezione.

 

Oltre a ciò, nel testo di riferimento di questa missiva, diamo la parola ad alcuni testimoni che lo conobbero personalmente, e anche ad altre voci. Tale testo di riferimento è il dossier in undici capitoli che accompagnava la «supplica», che lo scrivente Pier Luigi Tossani – integrando le testimonianze fornitegli dall’altro scrivente Giuseppe Cipriani, senza le quali il dossier non avrebbe potuto essere completato nella sua interezza – volle rivolgere il 14 giugno 2017 a Papa Francesco e a tre Cardinali, nell’imminenza della visita del Pontefice a Barbiana, per metterli in guardia sui contenuti discutibili della lezione di don Milani. Dossier e «supplica» sono tuttora leggibili online, sul blog dello scrivente Pier Luigi Tossani.

 

La posta in gioco è di estrema importanza, poiché nel tempo il pensiero milaniano è divenuto ormai un paradigma non solo italiano, ma in certo modo anche internazionale, per fare non solo pastorale ecclesiale, ma anche educazione in senso lato, fare scuola e, infine, anche di interpretare il tema del lavoro e la politica.

 

Procediamo dunque per punti, accennando sinteticamente in questa sede solo ai punti principali, e rimandando, per ogni necessario approfondimento, al testo del dossier.

 

1. Obbediente?… No, ribelle

Don Milani, lungi dall’essere quel «ribelle obbediente» alla Chiesa, come viene correntemente definito, viveva invece in uno stato di permanente ribellione verso di essa (vedi capp.1, 3, 6, 10 del dossier).

 

L’ultimo superiore di don Milani, il Card. Ermenegildo Florit, sa valutare correttamente il temperamento del suo prete, nonché la cifra del suo lavoro pastorale, e ha la carità di dirglielo con garbo, ma anche con franchezza e fermezza.

 

Florit è misericordioso davanti all’aggressività di don Milani, tipica di una personalità problematica. Ne esce quindi un don Milani, secondo Florit, che glielo scrive personalmente, «assolutista», che fa una pastorale ispirata alla «lotta di classe», caratterizzato da uno «zelo fustigatore» che lo fa apparire «dominatore delle coscienze prima ancora che padre».

 

Don Milani pretende da Florit che il suo lavoro a San Donato a Calenzano e a Barbiana sia «solennemente e pubblicamente onorato», ma è fuori dalla realtà. Il priore non è quindi in grado di recepire la correzione del vescovo. Dal libro di Mario Lancisi “Processo all’obbedienza: la vera storia di don Milani” (Laterza, 2016), si evince che il priore si sfoga, per lettera, con uno dei suoi ragazzi, Francuccio Gesualdi. Al quale il 30 gennaio 1966 scrive che la risposta di Florit consiste in «tre pagine di crudeltà di falsità di ingiurie», e che non gli era mai stata data una parrocchia perché

 

«…manco di carità pastorale, sono classista, sferzante, credo di prendere la gente con l’aceto, invece ci vuole il miele, ecc. ecc. Ci ho sofferto per qualche ora, poi mi è passata perché lui (il Cardinale Florit, ndr) è un deficiente indemoniato (basti pensare la scelta del momento!) mi accusa ora che sono fuori combattimento di cose che se avesse creduto vere aveva il dovere di dirmi quando ero giovane e potevo correggermi. Pensa che è il primo rimprovero che ricevo dai “superiori” in 19 anni di sacerdozio». (pag. 103)

 

Per il priore di Barbiana il suo Vescovo è dunque «un deficiente indemoniato», che gli scrive una lettera piena «di crudeltà di falsità di ingiurie». Questo è.

 

Dopo la valutazione di Florit circa il lavoro di don Milani, rimandiamo al dossier, ancora al capitolo 1, per vedere l’opinione del primo Vescovo di don Milani, il Venerabile Cardinale Arcivescovo Elia Dalla Costa.

 

Al capitolo 10 riferiamo anche del parere di Angelo Giuseppe Roncalli, che all’epoca è patriarca di Venezia, e sarà poi il pontefice Giovanni XXIII. Nonché accenniamo alla severa critica del celebre testo milaniano «Esperienze pastorali» da parte de La Civiltà Cattolica, stampata con l’assenso del papa, che a quella data è Pio XII.

 

2. Il progetto educativo milaniano – Lettera «da» una professoressa

L’insieme degli aspetti problematici del priore ha ovviamente influenzato il suo progetto educativo (vedi al cap. 2 del dossier), attribuendo ad esso un carattere ideologico e classista, che ne ha pregiudicato gravemente il livello nella qualità e nei contenuti.

 

Ciò si è risolto in un danno, paradossalmente proprio nei confronti di quei poveri e di quegli ultimi che egli diceva di aver a cuore e voler aiutare, vale a dire in prima istanza i suoi allievi.

 

Secondariamente verso tutti coloro, docenti e discenti, che si sono ispirati al suo esempio educativo. Si evince infatti dal dossier, ancora al capitolo 2, che tutta la scuola italiana è stata largamente contaminata in modo negativo dal portato milaniano, che come si sa ha avuto moltissimi estimatori e seguaci.

 

Svolgiamo questo tema, in prima istanza, con l’ausilio della relazione della prof. Michela Piovesan, che cinquanta anni dopo la famosa Lettera a una professoressa, risponde al priore di Barbiana.

 

Nel medesimo capitolo, seguono poi altri interventi, a firma della prof. Cesarina Dolfi, di Roberto Berardi e di Maurizio Grassini.

 

I testi degli interventi sono tratti dalla rivista web fiorentina di cultura Il Covile, diretta da Stefano Borselli, che nella circostanza ringraziamo.

 

3. «Pacifista», ma non operatore di pace

Il priore si dichiara «pacifista», ma non è operatore di pace. Si veda, ad esempio, quando egli scrive nella Lettera ai cappellani militari toscani:

 

«…E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».

 

Il che ci fa dedurre che il «pacifismo» del priore sia di matrice ideologica, strumentale alla lotta di classe. Egli riesce infatti a promuovere il «combattimento contro i ricchi» perfino quando si esprime sull’obiezione di coscienza, che, in quanto tale, in teoria dovrebbe ripudiare il combattimento. Don Milani, in effetti, dice che «le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente…», però già agli albori del suo ministero, nell’ormai lontano 1950, quando era vice parroco a San Donato a Calenzano egli scriveva nella famosa Lettera a Pipetta:

 

«Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione».

 

Pare dunque che le due posizioni milaniane, quella disarmata e quella armata, vadano fatalmente a confliggere.

 

4. Cuore di tenebra

Andiamo ora a verificare in questo importante capitolo se la valutazione di Dalla Costa e Florit su don Milani era giusta. È un servizio che rendiamo molto volentieri a questi due grandi della Chiesa fiorentina.

 

Capire don Milani è dopotutto abbastanza semplice, potendo accedere direttamente al suo pensiero tramite i suoi scritti.

 

Rileviamo dunque che in alcuni suoi testi il priore di Barbiana si rivela un sostenitore della violenza rivoluzionaria (vedi capp. 3 e 4 del dossier). Egli infatti scrive nella famosa Lettera a Gianni, che porta la data del 30 marzo 1956:

 

«Ma domani, quando i contadini impugneranno il forcone e sommergeranno nel sangue insieme a tanto male anche grandi valori di bene accumulati dalle famiglie universitarie nelle loro menti e nelle loro specializzazioni, ricordati quel giorno di non fare ingiustizie nella valutazione storica di quegli avvenimenti. Ricordati di non piangere il danno della Chiesa e della scienza, del pensiero o dell’arte per lo scempio di tante teste di pensatori e di scienziati e di poeti e di sacerdoti».

 

Dunque la sentenza che giustifica l’ecatombe classista è già stata stesa. Poi leggiamo che

 

«Se quel Giudice quel giorno griderà “Via da me nel fuoco eterno” per ciò che Adolfo ha fatto colla punta del suo forcone, che dirà di quel che il signorino ha fatto colla punta della sua stilografica? E se di due assassini uno ne vorrà assolvere, a quale dei due dovrà riconoscere l’aggravante della provocazione? A quale dei due l’attenuante dell’estrema ignoranza? D’una ignoranza così grave da non esser neanche più uomini. Neanche forse più soggetti d’una qualsiasi responsabilità interiore».

 

E perché mai il Giudice dovrebbe assolvere uno dei due assassini? In base a quale ratio? Non è dato sapere.

 

Nella visione milaniana, gli sterminatori di classe hanno comunque diritto all’attenuante specifica dell’«estrema ignoranza», che li esimerebbe dalla responsabilità degli omicidi da loro commessi a danno dei padroni, e che potrebbe anche persino aprir loro la porta del Regno dei Cieli. Il priore parla infatti di «assoluzione» divina per i proletari assassini. Anzi secondo lui essi non sarebbero «neanche più uomini», e quindi, in quanto tali «forse» nemmeno perseguibili a termini di legge.

 

Francamente quella di don Milani ci pare una disistima eccessiva per la classe contadina, che, specie nel 1956, non crediamo fosse ridotta nello stato di abbrutimento sub-umano da lui evocato. Ai padroni invece il priore assegna «l’aggravante della provocazione», per il solo fatto di essere tali.

 

Non sfugge dunque ad un occhio oggettivo il nocciolo profondo di violenza rivoluzionaria di stampo giacobino – spiace dirlo ma è bene esser chiari – che evidentemente albergava nel cuore di tenebra del priore di Barbiana.

 

Il tutto ci pare eloquente. Il tempo futuro è domani, 31 marzo 1956. Il verbo non è il congiuntivo imperfetto, ma l’indicativo. L’eliminazione fisica della controparte, il prospettato massacro degli intellettuali, degli uomini di scienza, dei confratelli sacerdoti e perfino degli innocentissimi poeti, è preconizzato da don Milani come imminente e ineluttabile.

 

Diremmo che è particolarmente grave il fatto che il priore di Barbiana, invece di scongiurare la violenza rivoluzionaria, abbia evocato l’epilogo della lotta di classe fino alle sue estreme conseguenze, invece di servirsi, da cattolico ancor prima che da prete, dei princìpi di sussidiarietà e di partecipazione autentica dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, per risolvere pacificamente i problemi del consesso civile con gli strumenti della Dottrina sociale cattolica.

 

Di questa alternativa possibile si parla estesamente nel capitolo 7 del dossier.

Il priore si rivela ancora una volta sostenitore dello spargimento del sangue dei nemici del popolo, come si legge nel cap. 4 del dossier quando nella Lettera a Ettore Bernabei egli scrive:

 

«…Per il bene dei poveri. Perché si facciano strada senza che scorra il sangue. E se anche il sangue dovesse scorrere un’altra volta, perché almeno non scorra invano per loro come è stato finora tutte le volte».

 

Già agli albori del suo ministero, nell’ormai lontano 1950, quando era ancora vice parroco a San Donato a Calenzano, si è visto che don Milani scriveva, nella famosa Lettera a Pipetta:

 

«Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco. Ma non me lo dire per questo, Pipetta, ch’io sono l’unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita. E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18… non m’avresti mai veduto scendere là in basso, a combattere i ricchi. Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione».

 

Possibile, ci diciamo, che ancora oggi non si colga la valenza incendiaria di queste parole?

 

Su questo punto segnaliamo altre pericolose implicazioni, nel medesimo capitolo 4.

 

 

5. Le pulsioni omosessuali/pedofile, e la questione del padre

In ultimo, don Milani manifesta anche pulsioni omosessuali e pedofile (vedi al cap. 5 del dossier), quando in una lettera all’amico Giorgio Pecorini egli scrive:

 

«Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani piú che la Chiesa e il Papa? E che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!)».
e

 

«… E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?»

 

Per il doveroso approfondimento della spinosa questione che non può certo essere svolto qui, rimandiamo all’intero capitolo 5 e in particolare all’equilibrata relazione di Armando Ermini.

 

A questo punto riteniamo opportuno fermarci per non appesantire ulteriormente la nostra missiva e rimandarvi al testo integrale del dossier per gli altri temi pur importanti che vi abbiamo trattato, come da indice. Tutto ciò premesso, leggiamo sul Corriere Fiorentino in data 7 dicembre 2022 a questo link, circa le commemorazioni milaniane, che in proposito vi siete espressi nel modo seguente:

 

«Per dodici mesi, quindi anche nel 2024, non vogliamo celebrare, una parola cui lui era allergico, ma farlo parlare oggi, farlo parlare in primo luogo ai giovani, ai ventenni, motivo per cui ci sarà anche un sito del centenario e coinvolgeremo le scuole con iniziative, concorsi, premi, borse di studio collettive — spiega Rosy Bindi — il sito oltre a coinvolgere i giovani avrà spazio per tutte le iniziative legate al priore di Barbiana, non solo per quelle che faremo noi, poche, di livello nazionale e mi auguro di qualità».

 

Ebbene oggi, di cosa vogliamo far parlare don Milani, ai giovani, ma anche a noi stessi?

 

È forse cambiato qualcosa rispetto al passato, rispetto alle valutazioni che su don Milani avevano dato i suoi diretti superiori dell’epoca, il Venerabile Cardinale Arcivescovo Elia Dalla Costa, e il Cardinale Ermenegildo Florit?

 

È cambiato qualcosa rispetto alle valutazioni che ciascuno di noi ancora oggi può fare circa la lezione milaniana, attingendo direttamente dalle parole del priore?

 

Può essere che la débâcle educativa milaniana, l’ammutinamento sistematico ai superiori, l’apologia della violenza rivoluzionaria, della lotta di classe, dello spargimento del sangue dei nemici del popolo, della lotta armata di stampo proto-brigatista e finanche – ma di questo Dalla Costa e Florit non erano a conoscenza – l’orgogliosa rivendicazione di pulsioni omosessuali e pedofile (il tutto è naturalmente documentato nei diversi capitoli del dossier), non siano più censurabili come lo erano una volta?

 

È una grave responsabilità quella di presentare il priore, non soltanto ai giovani, ma a tutti, come un modello da imitare. L’elementare principio di precauzione lo sconsiglia vivamente.

 

Dicevamo in apertura della nostra missiva che nel prendere l’iniziativa di rivolgerci a Voi, siamo dispiaciuti e preoccupati. Siamo dispiaciuti perché ci rendiamo ben conto che quanto ci siamo sentiti in dovere di porgerVi è senz’altro assai spiacevole, e possa scandalizzarvi o ferirvi.

 

Specie coloro fra di voi che sono stati più vicini al priore di Barbiana. Ma se le parole hanno un senso, siamo anche molto preoccupati, perché se non guardiamo la realtà in faccia e non andiamo a dismettere il mito milaniano, la realtà ci travolgerà.

 

Anzi ha già cominciato a travolgerci, come ben si vede.

 

Concludendo, ci pare evidente che a questo punto il tema centrale della questione vada ben oltre il pur importante ed esemplare caso specifico di don Lorenzo Milani.

 

Ci permettiamo di segnalare piuttosto l’urgenza della ricerca della verità, ponendo sulla realtà uno sguardo libero da ideologie. Potremo così anche dare un giudizio chiaro e univoco, a pro di tutti, non sulla persona di don Lorenzo Milani, cosa che ci guardiamo bene dal fare, avendo anzi verso di lui la massima compassione, quanto piuttosto sulle scelte che egli fece e sulle parole inequivocabili che egli volle convintamente pronunciare.

 

Una volta accantonato il mito ingombrante, potremo pienamente affidare il priore di Barbiana alla Misericordia di Dio e lasciarlo riposare in pace.

 

Václav Havel, nel Potere dei senza potere, scriveva: «La prima politica è vivere nella verità». Non sarà mai troppo tardi per riconoscere questo elementare dato di fatto.

 

(…)

 

Con ossequi, restando a disposizione,

 

 

Giuseppe (Pucci) Cipriani
rivista web Controrivoluzione

 

Pier Luigi Tossani
blog La filosofia della TAV

 

 

 

Renovatio 21 pubblica questa lettera aperta per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

Immagine pubblico dominio CCO via Wikimedia.

 

 

 

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Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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