Connettiti con Renovato 21

Immigrazione

Gli immigrati saranno nostri guardiani e persecutori?

Pubblicato

il

Chi segue Renovatio 21, sa che semel in anno succede che racconti un qualche sogno capitatomi nottetempo. A volte questo sito ha pure scritto di sogni dei lettori stessi. I sogni sono, purtroppo, importanti.

 

Ultimamente odio sognare. Il carattere opaco e incontrollabile delle visioni notturne da qualche anno mi disturba. Nei momenti di cattivo umore finisco a chiedermi, in modo forse non cristiano, se l’esperienza dell’inferno non sia esattamente così: oscuro e irrazionale, illogico, inagibile, uno stato della mente che è una dimensione di punizione. I sogni sono anticipazioni degli inferi?

 

Ma no, a volte succede che si fanno i sogni memorabili, dove il significato è evidente quasi da subito, per poi divenire lampante, a tratti sconvolgente, man mano che si procede ad analizzare, a scendere nei livelli più profondi – inferi – della propria psiche.

 

Come ad esempio, il sogno con Mattarella e gli immigrati africani fatto l’altra sera.

Acquista la t-shirt DONALD KRAKEN

La trama, per quello che posso ricordare, può sembrare sconclusionata al punto giusto: trovatomi nella pasticceria dove spesso bevo il cappuccino – che per qualche ragione era come un condominio in costruzione, mi dicevano che, non ho capito perché, sarebbe stato il caso che passassi a salutare il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella. (Scrivo queste righe sperando che i sogni non infrangano l’art. 278 del Codice Penale, «Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica»: sappiamo che a difendere questa legge spesso ci vanno giù pesante)

 

Io non ero contrario all’idea, quindi mi portavano giù per una scala, dove c’era un garage – la tipica autorimessa di certe casette piccolo borghesi, una stanza situata appena sottoterra, con oggetti vari (attrezzi, bici) piazzati in qualche ordine alle pareti, scope e secchi in un contesto di pulizia, anche se con quella sensazione di incompiuto che sento tipicamente in certe case di provincia.

 

Nella stanzetta sottoterra che dava verso al garage c’era lui, il Mattarella –anzi, c’era lei: nel mio sogno il presidente aveva le fattezze della senatrice ebrea Liliana Segre, la quale anche nella vita da svegli molti ritengono assomigliare al capo dello Stato di origine sicula.

 

Il Mattarella-Segre, che indossava un grembiule da lavori domestici, salutava rapidamente me e i miei conoscenti ma era indaffarato con qualcosa, forse stava pulendo, ed era come se aspettasse qualcuno, come se non fosse davvero padrone del suo tempo, o dello stesso spazio in cui si trovava. A quel punto, un uomo nel garage diceva di sbrigarsi, perché stavano arrivando «loro» (loro chi?), che dovevano parlare con Mattarella, o fare delle cose nel garage: la differenza tra le due azioni era inesistente, mi rendevo conto.

 

Semplicemente, ci veniva fatto capire che dovevamo uscire dal garage: il saluto al presidente era finito. Così ci ritrovavamo in strada. A quel punto mi diveniva chiaro chi erano «loro».

 

Una macchina, una berlina lunga e scattante (forse una vecchia Alfa, ma tenuta bene) arrivava sgommando davanti a noi, nella corsia sbagliata. Dentro c’era un immigrato africano che dal posto del guidatore ci guardava intensamente. Aveva un basco rosso, e pareva di scorgere una divisa verde militare, ma questo era un dettaglio secondario.

 

Piazzatosi davanti a noi minacciosamente con la sua macchina, l’africano, finestrini abbassati, cominciò a berciare in tono duro. Non parlava l’italiano, ma il pidgin che sentiamo in tanti immigrati da Nigeria et similia, un flusso di fonemi africani dove ogni tanto riesci a captare una parola in inglese.

 

Cosa voleva? Nessuno di noi rispondeva. Non era una conversazione. Nessuno di noi capiva, ma l’incomprensione non lo fermava. Continuava a vomitare la sua parlata africana a tono altissimo, così che realizzavo: l’immigrato ci stava dando ordini. Voleva che ci muovessimo in una certa direzione, andassimo in un certo posto, facessimo qualcosa, forse dovevamo pure salire in macchina, anzi no, perché non eravamo degni, eravamo solo delle persone da comandare e nient’altro.

 

Ero stranito, offeso. Meditavo su cosa dovevo fare per oppormi, ma il sistema sembrava settato così: nessuno di coloro che era con me fiatava. Evidentemente, pensavo, quella era la norma.

 

Capivo, in quel momento, chi stava aspettando il presidente, perché stava pulendo: comandavano, con evidenza, anche lì, nel garage della Repubblica. (Mentre scrivo, mi rendo conto di quanto questo sogno sia chiaro, chiarissimo)

 

Insomma: ho visto in sogno la Repubblica Italiana totalmente sottomessa ad una mafia africana. Ho visto gli africani che ci comandavano, in un contesto in cui non sembra esserci alternativa possibile.

Sostieni Renovatio 21

Ma perché mai devo sognare una cosa del genere? Da dove viene questo film grottesco e distopico che la mia psiche mi ha proiettato di notte? Mi fermo, chiudo gli occhi, respiro, cerco di scendere ai piani inferiori di questo pensiero.

 

In realtà, ho già visto una cosa del genere, in una serie H+ (2012). Una bizzarra opera fatta di microepisodi visibili online che è oggi importante per vari punti di vista. Era stato fatto come esperimento di Hollywood (l’ideatore è il controverso, e talentuoso, regista Bryan Singer) per distribuire contenuti in rete, quando ancora non c’era del tutto lo streaming.

 

Nella narrazione, l’umanità di un futuro molto prossimo (di fatto identico al presente) si impianta in massa un chip di interfaccia internet-cervello. Un bel giorno, qualcuno manda un virus, che uccide la stragrande parte della popolazione. Un caso di Single Point Failure: se tutto il sistema è collegato ad un unico punto, e quel punto viene attaccato, l’intero sistema cade – cioè muoiono tutti. Tipo, avete presente, se facessero lo stesso vaccino a tutta la popolazione, e poi risultasse che esso ha effetti devastanti… ma questa è un’altra storia.

 

Nella storia di H+ c’era anche una propaggine italiana, dove un prete sopravviveva alla strage globale perché si era rifiutato di farsi impiantare il chip (l’impianto veniva fatto, significativo, con una semplice siringa…), mentre tutti i colleghi sacerdoti erano invece felicemente chippati. Una parte del plot vede il prete vagare per l’Italia meridionale, dove vi sono ovunque posti di blocco di soldataglia africana: scopriamo che masse di africani armati, senza che si tratti esattamente dell’esercito, hanno invaso l’Italia sterminata. Gli africani – esattamente come poi sarebbe avvenuto nella realtà del vaccino COVID – hanno rifiutato l’iniezione del chip.

 

Quindi: immagini hollywoodiane di africani che comandano in Italia. Ma il mio sogno era più preciso di così. Sento che posso scendere ancora di più.

 

Ecco che nella mia mente trovo un ulteriore strato che mi racconta la scena onirica di cui stiamo parlando: è Il mondo senza donne (1936) di Virgilio Martini (1903-1986). Romanzo introvabile, censurato ai tempi dei fascisti e poi ai tempi dei democristiani. L’autore, che poi riparò in Sud America, è considerabile come uno dei pochi veri scrittori di fantascienza italiani.

 

Nel libro di Martini l’umanità viene sterminata in modo molto selettivo: semplicemente, muoiono tutte le donne, a causa di un’arma biologica – una pandemia – lanciata da un gruppo di omosessuali. La sparizione delle femmine porta il collasso delle nazioni e delle società, finite preda di una violenza senza fine da parte dei maschi impazziti. Ad un certo punto, a risolvere tutto è un presidente-dittatore di un improbabile Stato africano – che ai tempi in cui è stato scritto il testo nemmeno esistevano, c’erano le colonie! – che con un messaggio alla radio convince tutti gli uomini a finire di uccidersi, divenendo quindi sul colpo imperatore planetario.

 

La storia va avanti, ma quest’idea – davvero preconizzante, in anticipo di decennio, forse di un secolo – secondo cui il crollo della società occidentale porta ad un dominio africano mi aveva sempre colpito nel romanzo di Martini.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Scendo ancora più in basso nel cervello, dove riaffiora un ricordo imprevisto: un tizio (un poliziotto, a dire il vero) nero che mi urla ordini da una macchina, prendendomi di sorpresa, l’ho visto. L’ho vissuto. Davvero.

 

Mi capitò in una cittadina sperduta nelle pianure dello Zambia, una dozzina di anni fa, alle sei del mattino di una domenica d’estate: io, pensate un po’, cercavo di ricordare dove fosse la chiesa per andare a messa – ma ammetto che ci andavo anche per comprare la pizza eccezionale che facevano alla forneria della parrocchia, dove gli africani erano stati istruiti da una ridda di panificatori lombardi pensionati andati lì per insegnare il lavoro – la funzione religiosa era spesso incomprensibile, con magari il classico caso di donna africana posseduta, ma oramai il contesto lo conoscevo.

 

E invece: ecco che mi perdo in auto per le larghe, larghissime strade della cittadina nel nulla del bush, praticamente all’alba. Mi fermo col pickup sul ciglio della strada, che è enorme, è un telo di cemento vecchio e crepato senza linee segnaletiche da nessuna parte. Chiedo all’unica persona che vedo – dormivano davvero tutti, si vede – dove si trova la chiesa.

 

A quel punto, nella strada deserta, una macchina si appaia alla mia. Un uomo africano, dalla sua auto senza parabrezza, e con due misteriose donne silenti caricate sul retro, comincia a parlarmi con tono sostenuto, e vedendo che non capivo cosa volesse, si mette in testa un cappello da poliziotto, di modo da rivelare la sua autorità. Mi dice di seguirlo alla centrale di polizia, che è lì davanti, facendomi significativamente passare davanti alla gabbia dove tenevano gli arrestati del sabato sera (quelli ubriachi e facinorosi), i quali c’è da dire che vedendomi arrivare si illuminano di simpatico interesse.

 

Segue, nell’ufficio di polizia, quello che ritengo essere una richiesta di pagamento per una multa improbabile – vogliamo dire un tentativo di estorsione o giù di lì? Difficile capire la gente, in Africa: me lo hanno spiegato perfino i missionari, e lo ho imparato. Alla fine, pago nulla, ed esco dalla situazione – cioè, dalla galera zambiano – usando una parola magica che mia sorella, telefonata quando è ancora profondamente addormentata in una casa a chilometri di campi di canna da zuccherò più in là, mi suggerisce di proferire. Come dico la parola, il problema magicamente scompare. Però questa è un’altra storia, che racconterò solo qualora i lettori lo chiedessero.

Iscriviti al canale Telegram

Insomma: mi trovo a ricordare che il mio sogno mattarelliano con i neri che dettano ordini può perfino avere radici autobiografiche. Tuttavia, se faccio un altro respiro profondo, l’anamnesi mica finisce.

 

Se riemergo ad un livello di superficie, mi accorgo che c’è dell’altro: un’immagine più recente, e concreta. Eccomi, pochi giorni fa, ad una domenica senz’auto. Sì, l’idiozia che prima o poi sparirà speriamo: anche perché obbligare le donne a camminare al buio delle città divenute pericolose per loro — divenute pericolose chissà perché – non è una politica tollerabile, in teoria nemmeno per chi ha in casa l’altare con il feticcio del cambiamento climatico (e in tasca la tessera del PD).

 

Ho in macchina le due donne più importanti della mia vita, siamo al limite della città pedonalizzata per diktat ecofascista: mi fermo ad una transenna che hanno piazzato a sbarrare la via proprio sotto quella che è un’antica porta nelle mura medievali. Il portone non c’è, il Medio Evo neppure (in teoria), eppure non posso passare.

 

A controllare gli accessi, c’è, abbacchiato su un paracarro, un ragazzo africano con giubbino fluorescente da collaboratore pubblico – come i netturbini, gli «assistenti» della sosta, talvolta vigili etc. Osservo che sul bavero il ragazzotto nero ha stampato una mostrina: «volontario». Mi guarda, mi squadra. Sento che ha voglia di dirmi qualcosa, del resto ho fermato la macchina, per far scendere le ragazze, a pochi metri dal «suo» confine. Scendo per aprire le portiere. Vedo che desiste dal dirmi qualcosa, ficcando le mani ancora più a fondo nelle tasche.

 

Risalgo in macchina e parto: al varco successivo c’è un altro nero in uniforme arancione fluo. Così anche a quello dopo. Di lì capisco il pattern: l’autorità ha messo neri in uniforme a comandare sui cittadini.

 

Qualcuno lo può trovare come un livello umoristico della sostituzione etnica: stiamo importando non chi lavorerà con noi, ma chi ci comanderà, chi ci sorveglierà. Non stiamo facendo entrare, lo sappiamo bene, ingegneri e medici, ma nemmeno operai ed infermieri – stiamo importando chi in futuro servirà a dominarci e a reprimerci. Dietro l’immigrato dell’Africa nera, quindi, più che il netturbino o il lavoratore della conceria (i celeberrimi «lavori che gli italiani non vogliono più fare», come no), il poliziotto?

 

Se ci pensiamo, la meccanica sociale del fenomeno è pienamente comprensibile: è la realizzazione tecnica di uno stadio dell’anarco-tirannia, dell’inclusione del caos etnico e civile come strumento di potere verticale. Il potere stesso coopta elementi estranei – che, si suppone, potrebbero essere arrivati qui in maniera illegale – provenienti da contesti di civiltà implosa o mai esistita (è la scusa per dire che scappano, no?) per controllare, un domani reprimere, la popolazione, con la ferocia necessaria. Una ferocia di fatto difficilmente trovabili nei contesti dei Paesi occidentali, dove la società non è ancora del tutto collassata.

 

Gli immigrati diverranno nostri guardiani, nostri carcerieri: l’idea è stata lanciata da qualcuno negli ultimi anni di ondata migratoria. In Inghilterra qualcuno si è spinto a dire che vi sarebbe un programma, con addestramenti già effettuati, per far diventare le masse immigrate come le unità di repressione nel futuro lockdown.

 

John O’Looney, un uomo delle pompe funebri che rimase sconvolto dallo scoprire quei coaguli tentacolari, filamenti fibrosi simili ad un calamaro, che hanno preso ad ostruire il sistema circolatorio dei defunti da imbalsamare, lo ha detto all’imprenditore ed attivista Brexit Jim Ferguson: «posso dirti che questi sono soldati delle Nazioni Unite e saranno schierati dall’OMS quando annunciano il prossimo lockdown pandemico».

 

L’O’Looney, da quando ha lanciato l’allarme per i «calamari» comparsi improvvisamente nei cadaveri, raccoglie ogni sorta di confidenze. Qualcuno con entrature nelle cose dell’esercito gli ha raccontato in dettaglio questo piano allucinante: «questo è ciò che accadrà. Sono stati addestrati da soldati britannici. Sono stati addestrati dal reggimento Black Watch. Sono stati addestrati ad Adalia, in Turchia e nell’Ucraina orientale. Sono prevalentemente scesi al grado di sergente. Vengono poi spediti in Francia. Hanno firmato tutti l’Official Secrets Act, poi sono stati traghettati».

 

L’uomo parla di masse di immigrati che sarebbero stati di fatto militarizzati. Per essere schierati contro la popolazione autoctona.

 


Aiuta Renovatio 21

Non c’è modo di pensare che programmi simili, se esistono, siano pensati solo per la Gran Bretagna. E del resto, guardiamo in casa, e vediamo che immigrazione e forze militari non sembrano delle realtà incompatibili. Abbiamo in testa le camionette verdi, con dentro e fuori soldati armati, nei dintorni delle stazioni ferroviarie italiane: gli immigrati le considerano un deterrente? Smettono, in quell’area, di rubare, spacciare, picchiarsi? No: evidentemente non ne hanno paura.

 

Gli stranieri – e attendiamo chi ci può smentire – non hanno più paura di polizia e carabinieri. Un tempo forse quando vedevano una voltante si nascondevano, avessero o no i documenti. Ora invece vediamo le questure semplicemente invase da extracomunitari: sono gli immigrati, di fatto, il principale cliente di tanti uffici pubblici.

 

L’immigrato afro-islamico… come alleato delle forze dell’ordine? Possibile: ripetiamo, la formula nel Nuovo Ordine prevede la fusione di legge e caos – ordo ab chao. Quanti, in questi anni, hanno a loro volta notato che, più che donne, vecchi e bambini (quelli che di solito «scappano dalle guerre»), abbiamo importato giovani maschi atletici in età militare? Tutti.

 

Di qui può sorgere l’illuminazione: ecco perché le questure ad alcuni possono sembrare oramai istituti per l’accoglienza degli immigrati, più che per i servizi ai cittadini. Se dovete fare una denuncia, potreste aspettare sei, sette ore. Gli extracomunitari, invece, in questi anni hanno visto moltiplicarsi gli uffici a loro dedicati.

 

E quindi, quando in qualche servizio TV la borseggiatrice dell’autobus dice «lasciatemi stare, se rubo non interessa nemmeno alla polizia», cosa significa davvero?

 

E quando sentiamo storie di ragazzini immigrati bulli che spadroneggiano, contro compagni e pure insegnanti, alle elementari, medie, superiori? Che significato ha questo fenomeno?

 

Quando minorenni «etnici» creano rivolte violente (o anche solo festeggiamenti per il calcio o il nuovo anno), attaccando la polizia, minacciando i cittadini, quando invadono intere località turistiche di fatto cancellando il potere dello Stato italiano, abbiamo capito cosa sta succedendo?

 

Sta succedendo che, con ogni probabilità stiamo diventando persone senza diritti, senza rispetto, a cui poter urlare ordini incomprensibili: in una parola, schiavi. Il ribaltamento tanto agognato è servito: europei schiavi degli africani.

 

Quindi quanto manca alla nostra sottomissione definitiva?

 

Lasceremo che questo accada?

 

Lasceremo ai nostri figli questo osceno futuro di schiavitù e persecuzione?

 

Lasceremo ai nostri figli, più che i nostri sogni, un Paese da incubo?

 

Roberto Dal Bosco

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

 

Immigrazione

La realtà dietro all’ultimo omicidio di Perugia

Pubblicato

il

Da

Il mese scorso, un ragazzo di origini albanesi proveniente dalle Marche è stato ucciso da una coltellata mentre si trovava a Perugia con degli amici per passare una serata nella zona universitaria. La lite, con un altro gruppo di giovani, è scoppiata per futili motivi.    La nottata in discoteca era ormai finita e da uno sfottò calcistico è partita la scintilla che ha innescato le ire di ragazzi di origini nordafricane residenti in Italia con tanto di cittadinanza.   Stando a quanto scritto dall’ANSA, «in base a quanto accertato dalla squadra mobile di Perugia, un diciottenne recentemente finito in carcere per l’aggravamento del divieto di dimora in Perugia a cui era sottoposto per un altro episodio, si era fatto raggiungere dalla fidanzata per prendere un coltello custodito nella vettura. L’aveva quindi brandito verso l’altro gruppo per poi buttarlo a terra. Nel frattempo, in un’altra parte del parcheggio, c’erano state altre colluttazioni. Dalle indagini è emerso che il ventunenne di Perugia, dopo aver raccolto il coltello lanciato a terra dall’amico e con un secondo nell’altra mano, si sarebbe scagliato contro il giovane di Fabriano, colpito con un unico fendente al torace. Quindi la fuga, per poi disfarsi del coltello utilizzato nell’aggressione (non ancora ritrovato) e di alcuni indumenti».

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Questo «omicidio universitario» non può non riportare alla mente il delitto Meredith Kercher del 2007, consumatosi fra studenti, che segnò uno spartiacque per la città di Perugia, con lo sgretolamento di quell’eden edonistico di una nightlife universitaria da far invidia alla migliore movida spagnola. Da quel momento la città fu messa sotto i riflettori per l’emergere di una strabordante e dilagante violenza – in particolar modo nella zona del centro storico – fino ad allora soffocata e tenuta come la polvere sotto il tappeto, ma poi deflagrata sotto la lente d’ingrandimento dei media.   Ciò sdegnò i perugini che fino ad allora hanno voluto credere che tutto andasse bene. Su Renovatio 21 abbiamo recentemente avuto occasione di parlare di tale delitto con due interviste all’ex magistrato Giuliano Mignini che seguì tutta l’irrisolta vicenda.   Le problematiche legate a una microcriminalità sempre più diffusa – dati alla mano – sono da attribuire per una sostanziosa percentuale ad immigrati o di immigrati di seconda generazione. Nel centro storico del capoluogo umbro qualche mese fa c’è stata un’aggressione pubblica in un negozio di kebab da parte di quattro stranieri, tre albanesi e un greco, protagonisti di quello che pare sia stata una vera e propria spedizione punitiva come spiega la cronista Francesca Marruco su un giornale locale: «col volto parzialmente coperto dai cappucci delle felpe, entrano correndo armati di bastoni e mazze».    In questi giorni, sempre nella stessa zona, un altro fatto di sangue ha sporcato il salotto buono perugino come apprendiamo dalle cronache: «Un uomo è stato soccorso sulla scalinata del Duomo, all’ingresso principale verso piazza Danti, gravemente ferito da una coltellata alla schiena. A trovarlo a terra, intorno alle 5 di mattina, sono stati alcuni addetti della sicurezza privata. Sono stati loro a richiedere l’intervento della polizia, che ha richiesto la presenza del personale medico del 118. Si tratta di un tunisino, di 33 anni, con precedenti di polizia». «Dalle prime testimonianze raccolte, la coltellata sarebbe arrivata al culmine di una lite con due uomini di nazionalità marocchina, per ragioni ancora da chiarire» scrive La Nazione   Fatti di questo genere sono parte dell’ordinario e oramai non fanno quasi più notizia nemmeno quando si palesano nelle zone residenziali e storiche delle nostre città, dove famiglie, turisti, studenti e cittadini vivono godendo le bellezze architettoniche delle nostre città d’arte.   La settimana scorsa un gruppetto di «maranza» ha gettato da un soprappassaggio pedonale un carrello della spesa su una delle vie più trafficate nei pressi della stazione ferroviaria sfiorando per pura casualità le autovetture che in quell’ora del giorno transitano freneticamente su quella che è un’arteria importante del traffico cittadino.  
 
Visualizza questo post su Instagram
 

Un post condiviso da Corriere dell’Umbria (@corrieredellumbria)

Aiuta Renovatio 21

Rammento un altro fatto di sangue che al tempo risultò prodromico per la caduta della maggioranza politica di sinistra che non aveva mai perso le amministrative nel capoluogo umbro. Era il maggio 2012. Una notte di inseguimenti e violenze nel centro storico di Perugia tra bande di stranieri, dopo che un nordafricano fu accoltellato quasi a morte. La sospetta morte scatenò le ire dei connazionali che iniziarono una serie di spedizioni punitive nei locali dell’acropoli per cercare i rivali. Si scatenò una guerriglia contro le forze dell’ordine in pieno stile far west.   «L’8 maggio 2012 il centro storico di Perugia fu teatro di una vera e propria guerriglia “tra bande” di albanesi contro tunisini, che si sfidarono a colpi di spranghe e bottigliate. La violenza aggressione degenerò, ci furono danneggiamenti alle macchine delle forze dell’ordine e vetrine dei negozi spaccati. Negli scontri fu accoltellato un tunisino che poi si è salvato dopo una lunga degenza in ospedale. Forse un regolamento dei conti tra bande di stranieri, legati al mondo della droga», come riportato da PerugiaToday.   Ricordo che i giorni appresso furono schierati carabinieri e polizia in ogni angolo per cercare di re-immettere sicurezza ai cittadini che si sentivano impauriti e smarriti. La conseguente caduta della sinistra portò alla vittoria di un sindaco di centro destra, Andrea Romizi, che con la sua giunta, quantomeno sotto il profilo della sicurezza, cercò di attuare misure atte a mitigare una situazione che di lì a poco avrebbe potuto degenerare ulteriormente, anche se poi atti vandalici commessi da immigrati ce ne sono stati lo stesso.   Al tempo Perugia fu etichettata come Gotham City, scatenando una canea social tragicomica, dove le varie fazioni politiche hanno scritto tutto e il contrario di tutto sui propri profili Facebook, enfatizzando alcuni fatti e portandoseli a loro favore a seconda delle necessità. È la solita «politica dei social network», che straparla, litiga, dibatte, urla, ma che poi di fatto, all’atto pratico, ben poco può o vuole fare in merito, stretta tra un groviglio legislativo pachidermico e uno spirito di politicamente corretto quanto mai pervasivo.   Rammento inoltre che colloquiando con un poliziotto in servizio nelle nostre regioni del nord est, parlando con dei suoi colleghi in maniera serena e informale, disse candidamente che «le lame le tirano fuori solo gli immigrati, quasi mai gli italiani». Segno evidente che vi potrebbe essere un’attitudine alla violenza più spiccata tra quelli che sono i cosiddetti italiani di seconda generazione.    Visto il trend odierno è bene ricordare che nel maggio scorso la zona della stazione ferroviaria di Perugia è diventata zona rossa – terminologia di covidica memoria – per cercare di arginare la delinquenza e sopperire alle mancanze in tema di sicurezza della nuova giunta comunale di sinistra.    Ci sarebbe da chiedersi come mai ci sia un incremento di violenza e criminalità proprio con il cambio di amministrazione locale. È difficile, a mio avviso, trovare una spiegazione logica, precisa e circostanziata. Può essere una semplice coincidenza, oppure una percezione da parte di alcuni criminali di poter essere meno controllati? Questo, in tutta onestà, non lo so.   Di certo c’è che la precedente amministrazione di centro destra ha concretamente fatto qualcosa per contenere questo tipo di reati – come detto non sempre riuscendoci – ma è altresì vero che ha comunque applicato una politica di superficie, non andando alla radice vera del problema legato alla immigrazione incontrollata, ma cercando di lustrare una facciata che tutto sommato ha distolto il cittadino, per un certo lasso di tempo, da questa criticità. Ora il problema ecco che torna a galla. Non spetta di certo alle amministrazioni locali estirpare in toto questi problemi, bensì sarebbe compito dello Stato che evidentemente esso stesso gioca e si muove in una superficie senza poter o voler scavare in profondità.   Dopo le «zone rosse» perugine ci possiamo aspettare il «lockdown maranza», già applicato in Francia, o il «lockdown adolescenziale» in salsa calabra atto a mitigare i cittadini esasperati dagli schiamazzi notturni, dalle ubriacature moleste e dalle violenze di queste bande di minori apparentemente fuori controllo, spesso anche sotto l’effetto di stupefacenti.   L’anno passato a Milano è scoppiata una rivolta etnica, ma praticamente nessuno la volle chiamare così, praticamente solo Renovatio 21. Né iniziare a pensare che il punto di non ritorno della banlieue francese è finalmente arrivato – e con esso, le no-go zone immigrate all’interno delle nostre città. Si tratta di un dato di rilevanza storica non solo per la «capitale morale», ma per l’Italia tutta. Milano, si dice, anticipa ciò che succede nel resto del Paese. Senza dimenticare i fatti di Peschiera del Garda: una cittadina messa sotto assedio da una moltitudine di giovani africani.   Tanto per cercare di essere più precisi e circostanziati è bene riportare alcuni dati ufficiali su tali questioni. Apprendiamo dal sito ufficiale del Ministero dell’Interno (dati relativi al 2022) del che i crimini commessi da stranieri, leggendo il tutto macro dimensionalmente e depurato da qualsiasi retorica qualunquista, rappresenta una criticità da non sottovalutare viste le percentuali: «La popolazione straniera residente nel 2022 sul territorio nazionale rappresenta circa l’8,5% del totale.

Iscriviti al canale Telegram

Analizzando i dati relativi all’azione di contrasto effettuata sul territorio nazionale dalle Forze di polizia, nel 2022 si rilevano 271.026 segnalazioni nei confronti di stranieri ritenuti responsabili di attività illecite, pari al 34,1% del totale delle persone denunciate ed arrestate; il dato risulta in lieve aumento, sia in valori assoluti che in termini di incidenza, rispetto a quello del 2021, allorquando le segnalazioni erano state 264.864, pari al 31,9% del totale. Significativo è risultato il coinvolgimento di stranieri in attività delittuose di natura predatoria.   In particolare: furti, le segnalazioni riferite agli stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (41.462) rappresentano, per tale fattispecie, il 45,48% del totale; rapine, le segnalazioni riferite a stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (9.256) rappresentano, per tale delitto, il 47,31% del totale». Vedasi anche il sito del Ministero della Giustizia che ci dice quanti detenuti italiani e stranieri sono al sicuro nelle patrie galere.   Alla luce dei fatti e dei dati, si evince un quadro ben chiaro: questa «criminalità extracomunitaria» è un macro problema e sta diventando una vera e propria emergenza sociale che andrebbe trattata come tale. In primis dovremmo pretendere un dibattito sano, costruttivo, non fazioso sul tema e non occluso dalla cappa di politically correct che pervade anche questa tematica.   È compito delle istituzioni, ma anche dei giornalisti che troppo spesso mistificano i fatti di cronaca omettendo furbescamente le identità dei criminali in nome di una inclusività e di un neo linguaggio di stile orwelliano. In verità, la stampa non lo può dire, almeno non nei titoli – per il solito effetto della Carta di Roma, (il testo deontologico imposto ai giornalisti che prevede limiti di cronaca riguardo alle cose degli immigrati) – tanto che in tali articoli bisogna leggere fra le righe: le proteste e le violenze spesso sono perpetrate da ragazzi nordafricani di secondo o financo terza generazione.   Senza entrare nel campo ampio del problema dei flussi migratori, ci accontenteremmo semplicemente di più trasparenza e correttezza, per evitare il dilagare dell’anarco-tirannia in ciabatte.   Francesco Rondolini

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di Roberto Andreani via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic; immagine tagliata
Continua a leggere

Immigrazione

Le ciabatte degli immigrati e l’anarco-tirannia

Pubblicato

il

Da

Un video, l’ennesimo, pubblicato dal noto account X che raccoglie su scala globale filmati con le follie, assurde e quasi sempre violente, della società «multiculturale» caricatasi in ogni Paese in questi anni.

 

Ci sono degli africani che paiono discutere con dei soldati italiani, che paiono essere proprio di quelli messi in strada dai governi di Roma come cerottino nei confronti del degrado.

 

A colpire nel fimato è essenzialmente la tracotanza civile degli immigrati. Il cittadino italiano medio – quello che con le sue tasse paga l’invasione islamo-africana, sovvenzionando la vita del tizio che si vede nelle immagini – davanti ad un capannello di militari in città ha, di default, un senso di deferenza, se non di timore: perché si tratta di uomini armati, innanzitutto. Perché, fatto che agisce nella psiche appena sopra l’istinto del pericolo, il contribuente sa che quegli uomini armati agiscono come il braccio del potere primario dello Stato, ossia il puro e semplice monopolio della violenza.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Non conosco tanti esempi di persone che si avvicinano naturalmente ai soldati, o ai carabinieri, o ai poliziotti per chiacchierare, talvolta nemmeno per chiedere informazioni, talvolta nemmeno quando questi palesemente non sono in servizio: figuriamoci mettersi a litigare. Questa è esattamente la loro funzione: ricordare al popolo che lo Stato detiene una facoltà superiore alla sua, quella dell’uso della forza fisica – e le armi impugnate in bella vista essenzialmente sono, prima che strumenti fisici, simboli di questo.

 

L’immigrato mantenuto dal contribuente non sembra avere nessuno di questi pensieri, né timori. Possibile che, davanti ad un uomo armato mandato dallo Stato non abbia, d’istinto, un po’ di paura? Sì, possibile. Perché l’istinto è sopraffatto dal ragionamento: questo sono operatori dello stesso Stato che, come un Babbo Natale incomprensibile, riempi l’immigrato di soldi, case, vestiti alla moda, telefonini, diritti superiori a quelli dei cittadini che pagano le tasse.

 

È ovvio quindi che l’immigrato non può prendere sul serio l’autorità in Italia, nemmeno quando essa si presenta con le armi.

 

Come abbiamo già visto in diversi casi – ricorderemo sempre quello di Peschiera del Garda, letteralmente conquistata per un giorno del 2022 da orde di maranza e di altri giovanissimi extracomunitari di seconda generazione – l’immigrato può vedere l’Italia, come ogni altro Paese europeo della democrazia terminale, come un territorio facilmente espugnabile, dove la sovranità degli autoctoni e dei loro eserciti può essere vinta con facilità. La creazione in tutto il continente di no-go zone (Finsbury Park, Molenbeek, Berlino, Malmo, San Siro) deriva da qui.

 

Tuttavia, quello che colpisce qui è altro, è un dettaglio apparentemente molto minore, ma in realtà fondamentale per la comprensione della dimensione politica nella quale stiamo entrando: l’immigrato, e pure a quanto pare l’amico che filma, portano delle ciabatte.

Aiuta Renovatio 21

Non si tratta di calzature tradizionali di qualche cultura lontana, ma di anonime, orrende ciabatte da mare in plastica, di quelle che si usano per fare il tragitto dallo spogliatoio alla vasca in piscina, o in villeggiatura quando si è nei pressi della spiaggia. Quelle con cui – ma potrebbe essere una leggenda metropolitana – è illegale guidare, e se ti beccano chissà cosa ti fanno, le autorità. (Pensa, cittadino italiano: temete l’autorità dello Stato moderno anche per le ciabatte in macchina)

 

Si tratta di quelle ciabatte che, non sappiamo ancora per quanto, sono, se portate in luogo pubblico, un simbolo di sciatteria intollerabile, si danno come segno di sciatteria assoluta, irricevibile, offensiva del contesto, come una mancanza di rispetto. Quella roba non credo che vi sia qualcuno che se la metta ai piedi in un luogo di lavoro. Non in un evento di qualche tipo. Non per andare a trovare qualcuno, a meno che non si abbia confidenza totale, o se si tratta di uno spostamento estomporaneo (tipo: pisciare il cane, con verbo romanamente transitivo).

 

Fu ad una riunione pro-life a Bologna quasi tre lustri fa che mi resi conto che uno dei capetti del giro probiotico ovino (non faccio nomi: mi sono quasi dimenticato come si chiamava) ci stava parlando dalla cattedra ma appena sotto indossava, visione rivoltante, delle ciabattazze da mare. Lì mi entrò in testa un’idea non solo sulla serietà con cui prendeva la missione, ma anche del come veramente egli vedeva i convenuti all’incontro.

 

Il genere della ciabattona di plastica è talmente infimo che nemmeno la moda sembra riuscire a metterci davvero le mani: negli ultimi anni c’era stato un marchio che vi piazzava, per ragioni a noi ignote, la bandiera massonica del Brasile, ma nemmeno quello sembra aver attecchito – le grandi aziende sembrano volerci mettere il brand ma non riescono a creare un modello memorabile, un qualcosa che la gente vuole veramente.

 

Ebbene, la ciabatta nel Terzo Mondo è, tuttavia una realtà indefettibile. Chi è stato in Africa, o in India, o in tantissimi altri Paesi diversamente sviluppati, lo sa. La maggior parte delle persone che vedi in strada hanno le ciabatte. Perché il senso di decoro lì non è il nostro, chiaro, ma non è solo quello: è il fatto che di default molte di quelle società ancora contemplano l’andare per il mondo scalzi, una pratica ancora diffusa o da cui da poco si stanno cercando di affrancare.

 

Ecco quindi che la ciabatta diventa il primo passo al di fuori della preistoria pedonale nella quale languono ancora tutte quelle società terzomondiali. Anzi: è possibile pensare che per molti di loro la ciabattella rappresenta uno status symbol, la volontà di ergersi sopra la parte tradizionale del proprio consorzio umano, un segno di eleganza e modernità.

Aiuta Renovatio 21

Ora, tutto questo dovrebbe crollare una volta che l’immigrato arriva in Italia, e trova circa sessanta milioni di persone – tra le quali, in teoria, dovrebbe voler vivere in armonia, o almeno così ci dicono le sinistre e pure le destre inani dinanzi all’aggressione demografica – che vanno in giro quasi esclusivamente con delle scarpe, cioè degli oggetti che avvolgono più o meno interamente il piede, impedendogli di venire a contatto con lo sporco delle strade, e impedendo al prossimo di venire a contatto con la potenziale maleonza podale che affligge una certa porzione dell’umanità.

 

E così è stato, vorremo dire, per tanto tempo: i primi immigrati che arrivati più di trenta anni fa con la legge Martelli sembravano inseguire, scimmiottando talvolta, i modi di vestire di noi autoctoni. Congolesi in conceria, egiziani in pizzeria, gambiani da fonderia e persino i marocchini zonali generici non si presentavano in ciabatte – e qualcuno ricorderà il termine desueto vucumprà, cioè l’ambulante maghrebino balneare, che magari circolava per le spiagge con le scarpe ai piedi.

 

Cerchiamo di capire: l’immigrazione dell’epoca – che giudichiamo pur sempre, consci del programma calergista, come drammatica e nociva per tutti – era sostanzialmente diversa. L’intento di assimilazione era in qualche modo presente, e pure visibile.

 

Ho in mente quando ho cominciato a notare questo segno: circa una quindicina di anni fa, quando arrivavo tardi col treno, vedevo la stazione popolarsi non solo di tipici balordi ferroviari, ma anche di immigrati più stanzializzati che aspettavano con evidenza qualcuno da accompagnare. Lì, in quel viaggio di passaggio, in quel contesto in cui si sentiva sempre più a suo agio per la predominanza dei suoi simili (le stazioni conquistate dagli immigrati), pure l’africano con permesso di soggiorno sentiva la possibilità di ciabattarsi.

 

Da allora, l’immigrazione è tanto cambiata, per quantità e qualità, e la società europea, pure. Non solo sono ovunque gli immigrati inciabattati: a questo punto pare abbiano cominciato ad utilizzare in scioltezza la camminata ciabattante, sconosciuta alla società occidentale – che cammina, non si trascina – o condannata come fenomeno da condannare (il bambino svogliato che striscia il passo). Il lettore conoscerà la questione: stranieri, uomini e donne, che strisciano le suole della calzatura mentre deambulano in strada, rendendo ancora più evidente, pensa l’indigeno benpensante, la mancanza di scopo di queste persone qui.

 

Crediamo che la situazione sia più molto più grave di così: le ciabatte, e il ciabattamento, sono un segno politico, psicopolitico, metapolitico immenso. Di fatto l’immigrato non rifiuta più solo l’autorità, ma anche ogni residua volontà di integrazione civile. È il simbolo incontrovertibile del fatto che non è l’africano che viene in Europa, ma l’Africa stessa, la sua sensibilità, la sua anima – e non c’è più alcun pudore in questo.

 

Non c’è più alcun bisogno di rispettare chi ti ospita: e questo non lo dice solo il crimine dilagante di mafie nigeriane et similia, non lo vediamo solo nelle immagini inguardabili di mancanza di rispetto delle nostre autorità perfino quando sono armate (e sarebbe da aggiungere: in cosa si sono trasformate le nostre Questure, se non in uffici per servizi agli immigrati?), lo dicono, a chiare lettere le ciabatte. Noi non vi rispettiamo, noi non riteniamo la vostra società come degna di emulazione, noi siamo qui per fare le stesse cose che facevamo in Africa, o peggio (perché in certi Paesi il crimine viene magari punito più che in Italia, compreso quello di immigrazione clandestina), e lo facciamo a spese vostre, della vostra stupidità di ospiti che si lasciano parassitare ad libitum. Siete la massa bovina – la massa vaccina che mungeremo come ci pare, quanto ci pare, senza sforzo alcuno, nemmeno quello di mettersi delle scarpe, che crediamo – qui è un punto da approfondire – che cooperative e ONG magari pure offrono assieme agli abiti alla moda e agli smartphone.

Iscriviti al canale Telegram

Le ciabatte assurgono quindi a veri simboli dell’anarco-tirannia, la dimensione politica verso cui, Renovatio 21 lo ripete da anni, tutta l’Europa sta dirigendosi: per il cittadino leggi draconiane, sulle tasse, sulle cinture di sicurezza, sui vaccini su qualsiasi cosa, e implementazione massiva di sistemi punitivi dello Stato; per l’immigrato un mondo di balocchi dove i suoi crimini vengono raramente perseguiti, dove gli è possibile vivere in hotel con vestiti e telefonini forniti dallo Stato moderno stesso.

 

Anarchia e tirannia nello stesso sistema: l’ossimoro ha più senso di quanto non sembra a prima vista, perché la presenza di una classe di barbari liberi di gozzovigliare extra-legem, con la creazione di intere aree urbane dominate da una ferocia extra-europea, serve a tener buono il popolo, preoccupato più della propria sopravvivenza che, magari, del fisco oppressivo, della follia geopolitica che non permette di riscaldare le case, dello sfruttamento economico e morale che ha isterilito il Paese.

 

Proprio così: la decadenza nazionale, violenta e inguardabile, passa anche da qui. Si trascina con le ciabatte dell’anarco-tirannia.

 

Roberto Dal Bosco

 

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

Continua a leggere

Immigrazione

Austria, vietato l’uso dell’hijab per le ragazze sotto i 14 anni

Pubblicato

il

Da

Il governo austriaco annuncia che a partire dall’anno scolastico 2026 verrà posto un veto legale all’uso dell’hijab e di altri veli islamici nelle scuole pubbliche e private per le ragazze di età inferiore ai 14 anni, accompagnato da sanzioni pecuniarie per i genitori.   Il progetto non è nuovo. Già nel 2019, il 15 maggio, il parlamento aveva approvato un disegno di legge proposto dalla coalizione di governo che vietava l’uso del velo islamico nelle scuole primarie. Tuttavia, a seguito di un reclamo da parte dei genitori, la Corte costituzionale austriaca aveva stabilito che la legge era discriminatoria. In precedenza, in Austria era stata approvata una legge contro l’uso del velo integrale nei luoghi pubblici, entrata in vigore il 1° ottobre 2017.   Il 21 novembre 2025, il governo austriaco ha deciso di rilanciare il disegno di legge respinto dalla Corte Costituzionale. Tale legge vieterebbe l’uso dell’hijab e di altri veli islamici, incluso il burqa, a tutte le ragazze di età inferiore ai 14 anni nelle scuole del Paese. Questa misura, applicabile sia alle scuole pubbliche che a quelle private, entrerebbe in vigore all’inizio dell’anno scolastico 2026.

Sostieni Renovatio 21

Presentata dal ministro per l’Integrazione, Claudia Plakolm, questa misura include anche multe per i genitori in caso di recidiva. Nonostante la sentenza della Corte Costituzionale del 2019, la coalizione di governo ritiene di disporre ora di un quadro giuridico più solido, giustificando la proposta con il crescente numero di giovani studenti musulmani nelle scuole austriache.   Secondo il governo, l’obiettivo principale di questa legge è quello di fungere da «protezione per le ragazze, al fine di garantire il loro sviluppo indipendente». La norma si presenta quindi come uno strumento volto a impedire che pressioni culturali o religiose influenzino la vita scolastica delle ragazze minorenni.   La legge prevede multe fino a 800 euro per i genitori che non rispettano il divieto. Le autorità hanno chiarito che si tratta di sanzioni pecuniarie applicabili in caso di inosservanza ripetuta o deliberata.   Prima che la legge entri in vigore, il governo condurrà una campagna informativa rivolta alle famiglie e alle comunità scolastiche per spiegare la portata del divieto e le ragioni alla base di questa decisione legislativa.   Sebbene la legge si concentri specificamente sulla tutela delle ragazze di età inferiore ai 14 anni, questa misura si inserisce anche nel dibattito europeo sul ruolo della religione e delle espressioni culturali nelle scuole.

Aiuta Renovatio 21

L’FPÖ ritiene che la misura sia insufficiente.

Il Partito della Libertà (FPÖ), principale gruppo parlamentare con il 28,8% dei voti, chiede un divieto generale di indossare il velo in tutte le scuole, ritenendo insufficiente il piano del governo di coalizione di limitare tale divieto alle ragazze di età inferiore ai 14 anni.   In un comunicato stampa diffuso giovedì, il partito di opposizione ha inoltre esortato i parlamentari ad approvare una legge che vieti l’Islam politico e ha chiesto l’immediata cessazione dell’immigrazione illegale di massa.   «Il velo è un simbolo dell’Islam politico, dell’oppressione e del paternalismo delle donne e pertanto non ha posto nelle nostre scuole. In primo luogo, questa nuova ondata di immigrazione di massa deve essere fermata immediatamente e, in secondo luogo, l’Islam politico deve essere chiaramente vietato per legge», ha affermato il partito.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News  

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine generata artificialmente
 
Continua a leggere

Più popolari