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Persecuzioni

Gerusalemme: sputi, conferenze negate, terreni svenduti. Ombre sul futuro dei cristiani

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Dietro «pressioni» della municipalità, gli organizzatori hanno dovuto spostare un convegno previsto in origine al museo della Torre di Davide. L’iniziativa era incentrata su abusi e attacchi di parte del mondo ebraico ai cristiani. La Chiesa armena nella bufera sull’utilizzo di un terreno concesso a un imprenditore ebreo-australiano. I fedeli accusano: «svendute» terre ottenute «col sangue».

 

 

Una conferenza incentrata sugli attacchi contro i cristiani in Terra Santa, in programma ieri presso il museo della Torre di Davide, si è svolta in un luogo diverso da quello previsto in origine in seguito a «pressioni» provenienti dai vertici della municipalità.

 

Fonti locali puntano il dito contro alcuni stretti collaboratori del sindaco Moshe Leon, che avrebbero minacciato di «cacciare» il direttore della struttura Eilat Lieber in caso di mancato annullamento dell’incontro. Accuse negate dai funzionari, per i quali «niente di tutto questo è mai successo» anche se i promotori hanno dovuto riprogrammare l’evento altrove.

 

La conferenza, intitolata «Why Do (Some) Jews Spit on Gentiles» [«Perché (alcuni) ebrei sputano sui gentili», ndr], era stata promossa e organizzata dal Center for the Study of Relations Between Jews, Christians and Muslims presso la Open University of Israel. Al centro della discussione vi era proprio l’escalation di attacchi contro i cristiani nella città santa dei mesi scorsi, che avevano sollevato più di una preoccupazione – e condanna – dei vertici della Chiesa locale.

 

Nel mirino sacerdoti, suore, fedeli, luoghi di culto e pellegrini oggetto di sputi, bestemmie, violenze fisiche e morali, atti di vandalismo da parte di ebrei ultra-ortodossi e nazionalisti.

 

Pur avendo ricevuto l’invito, sia i funzionari della municipalità che esponenti del ministro israeliano degli Esteri non hanno voluto partecipare a un incontro attaccato frontalmente in una lettera anche dal rabbino capo di Gerusalemme Rabbi Shlomo Amar.

 

Il leader religioso parla di evento promosso da quanti «cercano di confondere e convertire gli ebrei innocenti» e accusa il museo di essere operativo durante lo Shabbat, per questo va boicottato. Fra i primi a rilanciare l’attacco il vice-sindaco Arieh King, che parla apertamente di conferenza dai toni «anti-semiti». Va qui peraltro precisato che il rabbino Amar è stato il più autorevole leader ebraico a condannare in modo esplicito le violenze anti-cristiane dei mesi scorsi.

 

Immediata la replica dell’organizzazione per bocca di Yaska Harani, secondo cui l’incontro intendeva «costruire un cambiamento, non offendere o attaccare la società ultra-ortodossa. L’obiettivo è davvero quello di liberare la città dagli sputi».

 

La controversia sorta attorno alla conferenza è solo l’ultimo capitolo di una lunga serie di episodi che hanno sollevato preoccupazione per la presenza attuale e il futuro dei cristiani in Terra Santa, che spesso devono affrontare nemici esterni e insidie interne alla comunità stessa.

 

Prova ne è quanto successo fra gli armeni, al centro di una controversia per una vendita di beni e terreni nella città vecchia a Gerusalemme che rischia di creare una enorme frattura. All’origine dello scontro «l’affitto per 99 anni» (un esproprio di fatto) di proprietà immobiliari a un imprenditore ebreo australiano dall’impero economico opaco, che ama muovere da – e restare – dietro le quinte.

 

Uno scontro sanguinoso che ha portato il prete protagonista della vendita a fuggire negli Stati Uniti e lo stesso primate armeno a barricarsi dentro il patriarcato, mentre più di un fedele ne chiede le dimissioni e Giordania e Palestina che ne hanno «congelato» di fatto l’autorità. La vicenda è esplosa a maggio, ma il contratto è stato firmato in gran segreto nel luglio 2021 e prevede l’affitto per quasi un secolo del terreno denominato «Giardino delle Vacche» (Goveroun Bardez).

 

Il prete «traditore» che ha mediato e sottoscritto l’atto è Baret Yeretzian, amministratore dei beni immobili del Patriarcato armeno di Gerusalemme, oggi in «esilio» nel sud della California. Con lui hanno manovrato il patriarca armeno ortodosso Nourhan Manougian, l’arcivescovo Sevan Gharibian e l’uomo d’affari Daniel Rubenstein, che nell’area intende costruire un hotel di lusso.

 

Situato nei pressi del quartiere armeno, in una zona strategica della città santa, il Giardino delle Vacche è gestito dal maggio 2021 dal comune come parcheggio per quanti si recano a pregare al muro del pianto. Il contratto risale al 2020 e vale per un periodo di 10 anni, ma il suo uso da parte degli ebrei ha provocato l’ira degli armeni che dal 2012 si battono per tornare a disporre a pieno titolo dell’area in cui, scavi archeologici, hanno portato alla luce mosaici di una chiesa bizantina.

 

Inoltre l’accordo – criticato dai palestinesi che parlano di «svendita» di terre della città santa agli israeliani – non sarebbe valido, perché manca l’approvazione mediante voto del Sinodo armeno (8 ecclesiastici) e del via libera della Fraternità di San Giacomo del Patriarcato armeno. Nel contratto sarebbero poi incluse quattro case armene, il celebre ristorante Boulghourji, attività commerciali ed edifici Tourianashen in via Jaffa, fuori dalla città vecchia.

 

Una vicenda intricata, e spinosa, che rischia di alimentare la tensione in Terra Santa e sulla quale, almeno per il momento, i protagonisti scelgono la via del silenzio.

 

Nessun commento giunge infatti dall’imprenditore ebreo-australiano, oggi di stanza a Londra dove ha sede la sua attività. «Non rilascio interviste – ha dichiarato Rubenstein all’Associated Press (AP). Sono un privato cittadino».

 

Analoga posizione del ministero israeliano degli Esteri, del patriarca rinchiuso a palazzo e bocche cucite anche fra i vertici di One&Only, la compagnia di hotel con base a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (EAU), che secondo il progetto dovrebbe gestire l’hotel di lusso ultimata la costruzione. E qui entrano in gioco gli «Accordi di Abramo” e gli interessi comuni – e sempre più stretti – fra lo Stato ebraico e una parte dei Paesi arabi del Golfo.

 

Di certo, al momento, vi è solo l’amarezza e la preoccupazione della comunità armena il cui quartiere occupa il 14% circa della città santa. «I nostri terreni – afferma il 26enne Setrag Balian, armeno di Gerusalemme – sono stati acquistati centimetro per centimetro, al prezzo del nostro sangue e del nostro sudore. Con una firma, li hanno svenduti».

 

 

 

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

 

Immagine di momo via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

 

 

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Persecuzioni

Continuano i massacri di cristiani in Nigeria

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Decine di cristiani sono stati uccisi nelle città e nei villaggi della «cintura di mezzo» della Nigeria (il terzo centrale del Paese tra il Nord e il Sud) nelle ultime settimane, in particolare intorno a Pasqua, secondo le informazioni fornite all’organizzazione cattolica internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS) da parte dei leader cattolici locali.

 

Almeno 39 persone sono state uccise in una serie di attacchi contro villaggi nello stato di Plateau iniziati il ​​lunedì di Pasqua, 1 aprile. Secondo padre Andrew Dewan, direttore delle comunicazioni della diocesi di Pankshin, «il lunedì di Pasquetta si sono verificati violenti attacchi che hanno ucciso dieci persone. Ad una donna incinta è stato squarciato lo stomaco e il bambino non è stato risparmiato».

 

Gli aggressori, pastori Fulani, principalmente musulmani, sono tornati per una nuova serie di raid venerdì 12 aprile, che hanno causato la morte di altri 29. «Gli attacchi sono continuati fino a domenica 14 aprile. Sono stati attaccati un totale di cinque villaggi e distretti. Una chiesa a Kopnanle è stata data alle fiamme».

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È in questa stessa regione che più di 300 cristiani sono stati massacrati a Natale, e padre Andrew ritiene che «questi attacchi hanno un carattere sistematico: costituiscono una caratteristica permanente della vita nella regione. Potrebbero essere collegati agli attentati di Natale».

 

Il governo aveva promesso di rafforzare la sicurezza per proteggere gli agricoltori che vivono nella fascia centrale, la maggior parte dei quali erano cristiani, ma ciò non è avvenuto, deplora padre Andrew. «La risposta del governo in materia di sicurezza è inadeguata. Le comunità non hanno fiducia che i governi le proteggano. Si rifugiano nelle chiese».

 

«Ma questi ultimi hanno grandi difficoltà a far fronte a un simile diluvio di sfollati. Immagina di dover cucinare per migliaia di persone per mesi; non abbiamo nulla in programma o in serbo per queste emergenze, e quindi spesso veniamo colti di sorpresa».

 

Dopo il massacro di Natale, a Bokkos sono stati allestiti 16 campi, principalmente dalla Chiesa, per fornire rifugio alle persone colpite dagli attacchi. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) stima che 3,1 milioni di persone siano sfollate in Nigeria, a causa dell’insurrezione nel nord-est del paese e dei pastori estremisti Fulani nella fascia centrale.

 

Farmasum Fuddang, presidente del Consiglio per lo sviluppo culturale di Bokkos, ha commentato l’atrocità dei massacri: «Nonostante la presenza delle forze di sicurezza, tra cui il DSS [Servizio di sicurezza statale], l’esercito e la polizia, i criminali, identificati come terroristi Fulani sono stati in grado di compiere i loro attacchi nella totale impunità».

 

«Con la copertura dell’oscurità, più di 50 terroristi armati sono scesi sui villaggi di Mandung-Mushu e Kopnanle, attaccando residenti innocenti, disarmati e pacifici mentre dormivano… mentre i soldati nelle vicinanze non sono intervenuti», ha aggiunto:

 

«L’attacco, che ha preso di mira principalmente i bambini, sembra essere parte di un piano calcolato per instillare paura e portare a ulteriori sfollamenti. La tempistica di questo attacco, subito dopo l’erroneo avvertimento del DSS di un imminente attacco alle comunità Fulani, solleva serie preoccupazioni circa la collusione o la negligenza intenzionale».

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Lo stato di Benue, anch’esso situato nella cintura centrale, è stato duramente colpito dalla violenza. I dati inviati ad ACS da padre Remigius Ihyula mostrano che durante il periodo pasquale decine di cristiani sono stati assassinati durante le incursioni dei Fulani. Gli attacchi compiuti tra il 28 marzo e il 2 aprile hanno causato la morte di almeno 38 persone, forse molte di più, e sono stati commessi diversi stupri.

 

Secondo questi rapporti, dall’inizio del 2024 si sono verificati 67 attacchi, che hanno provocato 239 morti accertati, 60 feriti e 65 rapiti nella provincia di Benue. Nel 2023, più di 500 persone sono state uccise durante l’anno.

 

Le tensioni tra agricoltori sedentari e pastori nomadi sono un vecchio problema in questa regione della Nigeria, nota per le sue terre fertili. Il cambiamento climatico ha spinto i Fulani ad abbandonare i loro pascoli tradizionali più a nord, provocando scontri per l’accesso alla terra.

 

Le differenze etniche e religiose peggiorano la situazione e ci sono prove che i Fulani siano stati radicalizzati e utilizzati per espellere i cristiani dalla regione. Il problema è stato notevolmente aggravato dal facile accesso dei pastori alle armi automatiche.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Yusufdavid via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International 

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Pakistan, conversioni forzate: tentato avvelenamento di un cristiano di 13 anni

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, quando una guardia di sicurezza, che aveva notato addosso al ragazzo una collana con la croce, ha iniziato a chiedergli di recitare preghiere islamiche. Il giovane, dopo essersi rifiutato, è stato costretto a ingerire una sostanza nociva.   In Pakistan si è verificato l’ennesimo tentativo di conversione forzata nei confronti di un ragazzo cristiano di 13 anni, costretto a ingerire una sostanza tossica dopo essersi rifiutato di abbracciare l’Islam.   L’episodio è avvenuto nella città di Lahore il 13 aprile: Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, ma è stato fermato da una guardia di sicurezza musulmana che aveva notato che il ragazzo aveva al collo una croce.   La guardia, di nome Qadar Khan, ha strappato la collana e costretto Saim a recitare una preghiera islamica, ma il ragazzo si è rifiutato, dicendo di essere cristiano. L’uomo ha quindi costretto Saim a ingerire una sostanza tossica nel tentativo di avvelenarlo.   Sono stati i genitori del giovane a trovare il corpo del figlio senza conoscenza dopo diverse ore che Saim mancava da casa. Il padre, Liyaqat Randhava, si è rivolto alla polizia ma ha raccontato di aver ricevuto un trattamento iniquo.   Gli agenti hanno registrato la denuncia solo dopo diverse insistenze e una copia del documento non è stata rilasciata alla famiglia di Saim, che ha detto inoltre che diverse parti del racconto non sono state incluse nella denuncia (chiamata anche primo rapporto informativo o FIR).   Joseph Johnson, presidente di Voice for Justice, ha espresso profonda preoccupazione per i crescenti episodi di conversioni religiose forzate in Pakistan e ha condannato quanto successo a Saim, aggiungendo che la polizia sta mostrando estrema negligenza nel caso. «Evitando di includere i dettagli cruciali nel FIR, la polizia ha sottoposto Saim e la sua famiglia a ulteriori abusi», ha affermato Johnson, chiedendo l’intervento del governo per un’indagine.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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La Pasqua è stata soppressa nella Repubblica Democratica del Congo

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Nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), ai cattolici è stato impedito di celebrare la Pasqua a causa dei raid mortali effettuati dal gruppo ribelle ugandese ADF – Forze Democratiche Alleate – affiliato all’organizzazione Stato Islamico (IS).

 

Nella provincia del Nord Kivu lo spirito è quello di non celebrare la Pasqua: «Sono cattolico. Prima i sacerdoti venivano tutte le domeniche e durante il triduo pasquale organizzavano il catechismo e le messe serali, ma ora questo è impossibile. Ci siamo riuniti nella nostra cappella, ma oggi tutti restano a casa; abbiamo paura che i ribelli ci attacchino lì durante la messa», confida Zahabu Kavira, residente a Maleki, un piccolo villaggio vicino a Oicha, nella parte orientale del Paese.

 

Nella notte tra il 2 e il 3 aprile 2024, in piena settimana di Pasqua, almeno dieci persone hanno perso la vita nella regione e diversi edifici sono stati dati alle fiamme in seguito ad un attacco attribuito agli islamisti dell’ADF.

 

Tra le strutture prese d’assalto dagli aggressori c’era il centro sanitario locale, parzialmente bruciato, oltre a una dozzina di abitazioni ed edifici commerciali. Da parte loro, gli abitanti del villaggio non capiscono come gli aggressori abbiano potuto agire così facilmente in una zona dove sono presenti soldati congolesi e ugandesi.

 

L’ADF è un gruppo ribelle ugandese da tempo stabilito nel Nord Kivu e nell’Ituri, che terrorizza le popolazioni locali. Nel 2019 il gruppo ha annunciato la sua affiliazione all’organizzazione dello Stato Islamico e ha preso il nome ISCAP (Provincia dell’Africa Centrale dello Stato Islamico).

 

Uno dei principali bersagli degli islamisti sono i giovani che vogliono essere tagliati fuori dall’ambiente educativo in cui la Chiesa è molto presente. Quasi trentamila studenti, tra cui undicimila ragazze, non possono più andare a scuola nel territorio di Irumu nell’Ituri e nel settore Eringeti nel Nord Kivu.

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Secondo una recente indagine condotta da un team di ispettori scolastici, 79 scuole primarie e secondarie di queste zone sono state chiuse a causa dell’insicurezza. Alcuni edifici scolastici furono bruciati dai ribelli.

 

Gli attacchi jihadisti contro i villaggi di Beni non hanno risparmiato le chiese. Attualmente le erbacce crescono attorno alle cappelle abbandonate. Frà Omer Sivendire è parroco della chiesa dello Spirito Santo di Oicha. Parla delle sue difficoltà nello svolgere il suo ministero in una regione sempre più afflitta dall’insicurezza.

 

Contrariamente alla sua abitudine, il sacerdote non ha potuto unirsi ai suoi parrocchiani per celebrare la Messa della Resurrezione: «in passato potevamo spostarci facilmente ovunque, ma oggi è impossibile, poiché i nostri cristiani vivono nell’insicurezza e anche noi. Abbiamo difficoltà ad arrivarci. Speriamo che l’anno prossimo potremo andare ovunque, ma quest’anno purtroppo no», lamenta il sacerdote cattolico.

 

Ma gli islamisti non sono gli unici a gettare la parte orientale della RDC in un caos spaventoso: da diversi mesi, altri ribelli conosciuti come M23 (Movimento 23 marzo) destabilizzano la regione con il sostegno attivo del vicino Ruanda che desidera esercitare controllo su una regione di transito per le risorse minerarie del Congo.

 

Un anno fa, il coordinatore del programma di disarmo, smobilitazione, recupero comunitario e stabilizzazione della RDC (P-DDRCS) identificò 266 gruppi armati presenti e attivi in ​​cinque province della parte orientale della RDC.

 

Le province di Ituri, Nord Kivu, Sud Kivu, Maniema e Tanganica ospitano 252 gruppi armati locali e 14 gruppi stranieri.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di United Nations Photo via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic

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