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Addio a Celso Valli, maestro delle hit pop italiane

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L’altra mattina mi sono svegliato presto per fare una corsetta lungomare e appena terminata sono andato a fare colazione in hotel. Con calma ho acceso il telefono per controllare i messaggi e la posta. Apro il social e il primo post che mi compare è quello di un noto chitarrista italiano che dice che Celso Valli è morto. Rimango sgomento.

 

Stropiccio gli occhi, rileggo bene. Scrollo ancora per vedere se ci sono altre notizie in merito.

 

È così. Non ci sono dubbi. Il maestro Celso Valli, bolognese classe 1950, ci ha lasciato. La sua carriera è così piena e costellata di successi che ci vorrebbero chissà quanti articoli per dettagliare una vita spesa totalmente per la musica. Celso era una persona culturalmente molto raffinata, di un’intelligenza e di una ironia fuori dal comune. Non voglio troppo dilungarmi nei meandri delle sue produzioni, mi limito solo a citare alcuni dei suoi lavori più significativi.

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Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario dell’album italiano più venduto di sempre, La vita è adesso di Claudio Baglioni. Gli arrangiamenti sono del maestro Valli. La sua collaborazione con Baglioni non si limita a questo. Cito Oltre (1990), un altro disco iconico del cantautore romano dove Celso ha realizzato un lavoro sopraffino.

 

Uno dei suoi matrimoni artistici più longevi è sicuramente quello con Eros Ramazzotti che parte da Terra promessa uscita nel 1984 e arriva fino ad oggi. Ha saputo accarezzare con la sua arte tutti i generi musicali, passando dalla dance – come non ricordare la hit internazionale Self control di Raf – al rock, al pop, alla classica fino all’ultima collaborazione in ordine di tempo, con il jazzista Paolo Fresu. Agli inizi della sua carriera ha suonato e prodotto numerosi brani italo disco, come consuetudine del tempo, su tutti San Salvador degli Azoto.

 

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Negli anni Ottanta confeziona brani di successo quali Nell’aria di Marcella Bella, Quello che le donne non dicono di Fiorella Mannoia e numerosi brani di Mina.

 

Il mondo lo ricorderà anche per il capolavoro enigmatico che è Ti sento dei Matia Bazar, ancora oggi pezzo che, tra cover di ogni sorta e «video reaction» a profusione, ancora stupisce per eleganza e possanza generazioni di amanti della musica in tutto il mondo.

 

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Negli anni Novanta Celso incontra Vasco Rossi. La loro storia parte con il singolo del 1990 Guarda dove vai, passando a Senza Parole per proseguire fino a Sally nel 1996. Il capolavoro, per me assoluto, della coppia Rossi/Valli è l’album Canzoni per me (1998). È il disco del rilancio definitivo del rocker di Zocca dove ci sono otto brani del Vasco più intimo, più cantautorale, più romantico, più dolce e più fresco che Celso ha saputo valorizzare e impreziosire come nessuno mai. Da metà di quel decennio in poi, in ogni lp di Rossi c’è qualche brano diretto da lui.

 

La sua perla più preziosa, quella a cui tiene di più di tutte fra quelle fatte con Vasco, è certamente il disco L’altra metà del cielo che è stato suonato al Teatro La Scala di Milano.

 

In un nostro incontro mi ha confidato che era molto fiero di quel lavoro e leggere il suo nome in una locandina nel foyer de La Scala accanto ai Maestri della musica classica, gli impreziosiva l’animo.

 

È stato più volte direttore d’orchestra del Festival di Sanremo accompagnando i «suoi» artisti su quel palco autorevole e rinomato con grinta e raffinatezza. Nell’ultima apparizione di Vasco all’Ariston nel 2005 ero più curioso di vedere Celso dirigere gli orchestrali in quel momento così iconico e irripetibile, che la performance del rocker stesso.

 

Tanti altri artisti quali Adriano Celentano, Laura Pausini, Irene Grandi, Patty Pravo, Andrea Bocelli, Il Volo, Renato Zero, Ornella Vanoni, Francesco Renga (la lista sarebbe molto lunga), in un certo qual modo devono dire grazie a lui per i sontuosi arrangiamenti che hanno portato ancora più in alto i loro successi.

 

Nel nostro incontro mi ha raccontato, sorridendo, tanti aneddoti di quel mondo. Come quando registrarono Ricominciamo di Adriano Pappalardo, con quella rullata di batteria a metà pezzo che non usciva mai come voleva lui, ma che alla fine è riuscito a ottenerla, consigliando al meglio il batterista senza invadere il suo spazio di lavoro.

 

Ho visto un onesto sorriso sul suo volto quando gli ho fatto vedere uno dei suoi primissimi 45 giri intitolato Pasta e fagioli, canzone simpatica e frizzante che appartiene a quegli anni Settanta dove le tante tipologie musicali potevano essere espresse da giovani talenti come Celso.

 

Con lui se ne va l’ultimo genio capace di precorrere i tempi e le tendenze musicali, di sapere quante note inserire o togliere in una canzone per renderla ancora più bella, di dirigere musicisti italiani e internazionali di livello superiore. Al pubblico generalista dico che ogni volta che sentirete delle hit italiane in radio, sappiate che molte portano un vestito confezionato da Celso.

 

Gli va riconosciuto un altro pregio, comune a pochi. Si è saputo circondare di musicisti transgenerazionali e ha diretto pesi massimi del calibro di Vinnie Colaiuta, Tony Levin, Micheal Landau e italiani quali Alfredo Golino, Lele Melotti, Paolo Gianolio, ma scovando e apprezzando giovani talenti quali Mattia Tedesco, Beatrice Antolini e suo figlio Paolo.

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Nelle mie tante interviste a strumentisti italiani, quando lo abbiamo citato, dai diretti interessati sono sempre e solo uscite parole di elogio e di stima. Merce rara in quel mondo.

 

Ringrazierò sempre Paolo, uno dei batteristi italiani più bravi e talentuosi che abbiamo oggi in Italia, nonché caro amico, per averci fatto incontrare in un pomeriggio riccionese di mezza estate. Era il luglio del 2021 ed eravamo all’alba dei green pass, dei possibili obblighi vaccinali e degli innumerevoli diktat pandemici.

 

Ricordo benissimo la sua pacata reticenza nel metabolizzare quegli obblighi di Stato che di lì a poco spezzarono ideologicamente e socialmente l’Italia. Le sue analisi erano lucide, da uomo di vera cultura, con una mente aperta sempre al dialogo e al confronto.

 

Quell’intervista la conservo gelosamente e la pubblicherò in uno dei miei prossimi lavori come promesso.

 

Buon viaggio, Celso. Ciao e grazie di tutto.

 

Francesco Rondolini

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Bibita col DNA di Ozzy Osbourne disponibile con pagamento a rate

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Una nuova partnership kitsch tra John «Ozzy» Osbourne e Liquid Death, il marchio di acqua in lattina, ha lanciato sul mercato una serie limitata di lattine di tè freddo infuso con il DNA del «reverendo rock».   Ovviamente il prodotto è andato subito a ruba ed è esaurito. Le lattine sono state tutte tracannate e schiacciate da Osbourne in persona, lasciando «tracce di DNA della sua saliva che ora potete possedere», secondo il sito web di Liquid Death.   Ma diciamoci la verità, non si compra lo scarto salivare di una rockstar per dissetarsi: lo si compra per fare necro-collezionismo probabilmente. Le leggende attorno al personaggio sono molteplici: si diceva che Ozzy fosse un mutante genetico, capace di resistere a secchiate di droga, alla rabbia per aver morso un pipistrello vivo e a un incidente quasi mortale in quad.   «Ozzy Osbourne è 1 su 1», recita il testo pubblicitario del sito, «ma stiamo vendendo il suo vero DNA così potrete riciclarlo per sempre».

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Ogni lattina viene consegnata in un «barattolo per campioni sigillato in laboratorio», etichettato con il nome del donatore, il numero del campione (su dieci) e la data del prelievo. Ozzy ha persino firmato il contenitore, apparentemente dando un assegno in bianco per qualsiasi futura clonazione.   «Ora, quando la tecnologia e la legge federale lo consentiranno, potrete replicare Ozzy Osbourne e godervi la sua musica per centinaia di anni nel futuro», si legge sul sito web. I pezzi disponibili sono solo 10 e sono stati venduti a 450 dollari ciascuno, anche in comode rate.    Vista la rarità del prodotto, il «bagarinaggio online» non poteva mancare: su eBay ce ne sono state due in vendita, ciascuna a migliaia di dollari.   Sui social media, i fan erano entusiasti della partnership di Ozzy con il suo brand, anche se il prezzo ha fatto storcere il naso a qualcuno. «Accidenti, avrei dovuto salvare il tuo DNA quando mi hai sputato addosso nell’84 durante un concerto alla LB Arena», ha scritto un fan su X.   Ozzy Osbourne, che da giovane sul palco aveva pure mangiato un pipistrello, è perito quattro mesi fa. Il fatto che fosse stato iniettato col vaccino COVID, che ci dicono venire da un chirottero di Wuhano, lo rende in qualche modo un personaggio simbolico della pandemica, e non solo di quella: alcuni hanno ipotizzato che la morte, avvenuta dopo una «lunga battaglia» (in genere dicono per qualche ragione così) contro il morbo di Parkinson, potrebbe costituire un caso di eutanasia.  

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Carlos Varela via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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Arruolamento forzato anche per l’autista ucraino di Angelina Jolie

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La visita a sorpresa della star di Hollywood ed ex ambasciatrice umanitaria ONU Angelina Jolie in Ucraina martedì scorso è stata interrotta dagli agenti della leva obbligatoria, che hanno arrestato un membro del suo entourage e lo hanno arruolato. Lo riporta la stampa locale.

 

L’episodio si è verificato a un posto di blocco militare vicino a Yuzhnoukrainsk, nella regione di Nikolaev, mentre il convoglio di Jolie era diretto verso una zona della regione di Kherson controllata da Kiev.

 

Nonostante avesse segnalato alle autorità di trasportare una «persona importante», un componente del gruppo – identificato in alcuni resoconti come autista, in altri come guardia del corpo – è stato fermato dagli ufficiali di reclutamento.

 

Un video circolato su Telegram mostra la Jolie (il cui vero nome è Angelina Jolie Voight, figlia problematica dell’attore supertrumpiano John Voight) recarsi di persona al centro di leva per tentare di ottenerne il rilascio.

 

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Secondo TASS, avrebbe persino cercato di contattare l’ufficio del presidente ucraino Volodymyro Zelens’kyj. Fonti militari ucraine avevano inizialmente riferito all’emittente locale TSN che la presenza della diva al centro non era legata all’arresto, sostenendo che aveva semplicemente «chiesto di usare il bagno». Le autorità hanno poi precisato che l’uomo, cittadino ucraino nato nel 1992 e ufficiale di riserva senza motivi di esenzione, era trattenuto per verifiche sulla mobilitazione.

 

Alla fine, l’attrice americana ha lasciato il membro dello staff e ha proseguito il viaggio. Gli addetti alla leva di Kiev sono stati aspramente criticati per i video virali che mostrano uomini trascinati nei furgoni, pratica nota come «busificazione».

 

L’indignazione pubblica è cresciuta, con numerose denunce di scontri violenti e persino decessi legati alla mobilitazione forzata. Il mese scorso, il giornalista britannico Jerome Starkey ha riferito che il suo interprete ucraino è stato «arruolato con la forza» a un posto di blocco di routine. «Il tuo amico è andato in guerra. Bang, bang!», avrebbe scherzato un soldato.

 

Anche le modalità di coscrizione ucraine hanno attirato l’attenzione internazionale: a settembre, il ministro degli Esteri ungherese Pietro Szijjarto ha condannato quella che ha definito «una caccia all’uomo aperta», accusando i governi occidentali di chiudere un occhio.

 

La Jolie aveva già visitato l’Ucraina nell’aprile 2022, poco dopo l’escalation del conflitto, in un periodo in cui numerose celebrità, come gli attori Ben Stiller e Sean Penn, si erano recate nel Paese. Il primo ministro ungherese Vittorio Orban ha sostenuto che le star di Hollywood venivano pagate tramite USAID – il canale USA per finanziare progetti politici all’estero, ormai chiuso – per promuovere narrazioni pro-Kiev.

 

In seguito l’autista, di nome Dmitry Pishikov, ha dato una sua versione dell’accaduto.

 

«A quel posto di blocco mi hanno fermato per qualche motivo, senza spiegazioni, e mi hanno chiesto di seguirli in auto per chiarire alcuni dettagli. Evidentemente con l’inganno», ha dichiarato Pishikov a TSN in un’intervista pubblicata venerdì.

 

È stato portato in un centro di leva locale, dove è stato trattenuto con falsi pretesti, ha aggiunto. «”Dieci minuti, c’è un piccolo dettaglio, ti lasceremo andare non appena avremo chiarito la situazione”, hanno detto. Hanno mentito», ha riferito all’emittente, aggiungendo di essere ancora «un po’ indignato» per le azioni dei funzionari della coscrizione.

 

L’uomo dichiarato a TSN che venerdì si trovava in un centro di addestramento militare e che «verrà addestrato e presterà servizio nell’esercito».

 

Igor Kastyukevich, senatore della regione russa di Kherson – la parte controllata dall’Ucraina visitata da Jolie – ha condannato il viaggio definendolo «un’altra trovata pubblicitaria che sfrutta la fame e la paura». Nessuna visita di star di Hollywood «che usa i soldi dei contribuenti americani ed europei» aiuterà la gente comune, ha dichiarato alla TASS.

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Nuova serie gay sui militari americani: il Pentagono contro Netflix

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Il Pentagono ha accusato Netflix di produrre «spazzatura woke» per una sua nuova serie incentrata su un marine gay. La serie ha debuttato durante la campagna del presidente Donald Trump e del Segretario alla Guerra Pete Hegseth per eliminare la «cultura woke» dall’esercito.   Kingsley Wilson, portavoce del dipartimento della Guerra, ha dichiarato a Entertainment Weekly che il Pentagono non appoggia «l’agenda ideologica» di Netflix. L’esercito americano «non scenderà a compromessi sui nostri standard, a differenza di Netflix, la cui leadership produce e fornisce costantemente spazzatura woke al proprio pubblico e ai bambini», ha detto Kingsley, sottolineando che il Pentagono si concentra sul «ripristino dell’etica del guerriero».   «I nostri standard generali sono elitari, uniformi e neutrali rispetto al sesso, perché al peso di uno zaino o di un essere umano non importa se sei un uomo, una donna, gay o eterosessuale», ha aggiunto la portavoce.   Lo Hegseth ha introdotto nuovi requisiti fisici «di livello maschile» per affrontare situazioni di «vita o morte» in battaglia, affermando: «Gli standard devono essere uniformi, neutri rispetto al genere ed elevati. Altrimenti, non sono standard» criticando approcci alternativi che «fanno uccidere i nostri figli e le nostre figlie». A febbraio, il Segretario alla Guerra ha definito il motto «la diversità è la nostra forza» come il «più stupido» nella storia militare.   Il Pentagono lotta da anni con carenze di reclutamento, registrando nel 2023 un deficit di 15.000 unità, il peggiore dalla fine della leva obbligatoria nel 1973. I repubblicani attribuiscono il problema all’eccessiva enfasi sulla diversità a scapito della preparazione militare, come evidenziato da un rapporto del 2021 che criticava la Marina per aver prioritizzato la «consapevolezza» rispetto alla vittoria in guerra.  

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