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San Pio X, un piccolo pellegrinaggio. E una grande storia

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Ho partecipato con mio figlio al pellegrinaggio organizzato dalla Fraternità San Pio X per venerare il corpo di San Pio X presso il Santuario della Beata Vergine delle Cendrole, a Riese San Pio X.

 

Le spoglie del santo papa veneto sono state eccezionalmente riportate in Veneto, sua terra natale, per il 120° anniversario della sua elezione al Soglio pontificio.

 

È stata una giornata speciale. Perché, come dicevo a mio figlio, quando mai ricapiterà: forse tra un secolo, se l’umanità non cesserà di esistere, forse tra due. Io non riuscirò a rivedere una cosa del genere, lui forse nemmeno, ma il senso della Tradizione sta proprio qui – tramandare, di padre in figlio. Potrà esserci un momento, in un futuro che non riesco a vedere, in cui mio figlio lo racconterà a suo figlio, e questi a suo figlio… e alla fine, qualche discendente forse tornerà a vedere il corpo del Santo che aveva capito tutto degli ultimi secoli, che aveva lucidamente visualizzato l’ora presente.

 

Per questa chiarezza, noi gli siamo grati, e abbiamo offerto la nostra venerazione di pellegrini.

 

Vi sono tuttavia delle note frivoli, cioè, essenziali, da fare. Partecipare al pellegrinaggio, con il suo serpentone infinito di fedeli della Tradizione cattolica, è stato un toccasana per l’umore.

 

Si incontrano tante persone, da tutta Italia, da tutta Europa, da tutto il mondo, che non si vedevano da tempo, ma che si sa esistono, persistono, in una dimensione lontana tuttavia in piena consonanza di spirito.

 

Ci sono tanti, tantissimi giovani. Bambini. Neonati. Famiglie, magari tre generazioni tutte presenti al contempo.

 

Si vedono i preti: tanti, da ogni angolo del pianeta (dall’Italia all’Alaska). Alcuni sono cresciuti dentro la Fraternità, provengono da famiglie che li hanno portati sin da bambini alla vera Messa. Sono preti veri, e a chi non li conosce basta la talare per capirlo. Nei giorni in cui esce la notizia delle messe senza prete a Genova e in altre parti del Paese, vedere questa quantità di consacrati, presenti e determinati, è un segno di forza spirituale potentissimo.

 

Ci sono i seminaristi, questi ragazzotti giovanissimi, elegantissimi nella loro lunga veste nere – un’eleganza che promana dalla forza della loro scelta – che ho beccato dietro la chiesa, dopo la Messa, a mangiare delle merendine, perché la colazione, per fare la comunione, la avevano certamente saltata.

 

E poi, soprattutto, ecco le suore: tante, tantissime, venute con un pullman dal monastero nel Lazio, giovanissime, quasi tutte italiane, la madre superiora che irradia rispetto a centinaia di metri di distanza. Quando mai capita di vederla, questa distesa di suorine? Non spesso, a me può capitare qualche volta l’anno, ed è sempre una visione edificante, che rigenera una qualche parte di me che mi ero scordato di avere.

 

(La figura della suora è oramai completamente disintegrata dalla società: un discorso che prima o poi faremo è sulla sparizione delle suore negli ospedali, dove un tempo imperavano, e senza di loro si è visto come è andata)

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Durante la marcia, oltre al Santo Rosario, è risuonato il canto Noi vogliam Dio. «Noi vogliam Dio, Vergin Maria / (…) Noi vogliam Dio nelle famiglie / (…) Noi vogliam Dio in ogni scuola / (…) Noi vogliam Dio nell’officina / (…) Noi vogliam Dio nella coscienza».

Quanto è bello cantare a squarciagola questo fiero anacronismo, questo pugno nello stomaco a chi ha distrutto la società: perché qui è detto tutto, togli Dio dalle aule, dalle case, dal lavoro, dalla tua vita e quello che ottiene è l’avanzata dell’Inferno che è sotto i nostri occhi.

 

Il canto venne rifatto, per osceno dileggio, dai partigiani delle Brigate Garibaldi organizzate dal Partito Comunista Italiano. Ma a noi cosa interessa? Potete sentire le voci angeliche delle suorine in sottofondo? Potete comprendere che nulla e nessuno può fermare un popolo armato della Fede?

 

 

Santuario della Beata Vergine delle Cendrole era uno dei luoghi dove, quasi due secoli fa, era possibile incontrare Giuseppe Melchiorre Sarto, il futuro San Pio X. Il percorso della processione d’un tratto è uscito dalla strada principale per andare su un sentiero nella boscaglia che sbucava proprio davanti alla chiesa: «era la scorciatoia che prendeva per tagliare» mi hanno detto.

 

Si faceva un po’ di fila per entrare, ma niente di che. Quando sono entrato in chiesa – che è antica, e molto bella – ammetto di essermi fatto distrarre stupidamente. Un tizio con una camicia hawaiana era salito sull’altare, e con un microfono proferiva invocazioni, organizzate probabilmente dalla parrocchia locale o dalla diocesi – l’evento era organizzato dal Comune e da altri enti del territorio.

 

Ho fatto in tempo a sentire le parole «custodia del creato», «casa comune», e forse pure «conversione ecologica». Il dogma ambientalista bergogliano microfonato sul corpo di San Pio X.

 

Poi mi sono reso conto che stavo sbagliando: non dovevo sintonizzare il mio essere sul presente, sul presente papato, sul cattolicesimo moderno. Dovevo prendere la mia anima e mio figlio e cercare di disporla nell’altra dimensione, quella dell’eterno. Il rifiuto del modernismo articolato in maniera infallibile da San Pio in fondo dice questo.

 

Mi sono così inginocchiato davanti alla teca con il corpo del Santo. Anche il mio piccolo lo ha fatto. Abbiamo pregato. Poi quando era venuto il momento di alzarsi, era come se non ne avessi voglia. Sentivo, nei pellegrini della Fraternità che entravano e circondavano le spoglie del papa, come un senso di stupore, e di gratitudine, che si diffondeva nell’aria. Era, credo, devozione. Qualcosa di rarissimo, oggi. Qualcosa che però se cerchi, puoi ancora trovare.

 

Sono rimasto in ginocchio fino a perdere consapevolezza di esserlo. Il bambino non ha battuto ciglio, ed è rimasto come me per tutto il tempo. È stato Don Massimo a svegliarmi toccandomi una spalla, come per dire pragmaticamente: «in piedi, dai».

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San Pio X è il papa dell’enciclica Pascendi Dominici gregis (1907), quella con cui condannava il modernismo «sintesi di tutte le eresie». Il mondo agnostico e materialista di oggi era già stato compreso perfettamente da papa Sarto. Gli era chiaro che stavano preparando una società del rifiuto del divino, un’umanità che considera la verità come mutante, progressivamente cangiante – cioè, nessuna verità possibile. Gli era chiaro che era in caricamento una religione fatta a misura di ciascuno, una religione interiore, soggettivistica, che quindi non aveva più bisogno né di Rivelazione (cioè di Gesù, cioè di Dio), né, in ultima analisi, di riti – se pensate alle «messe senza prete» apparse ora potete capire tutto.

 

Recidere il legame tra l’essere umano e il reale: il mondo dell’individualismo più autistico, delle religioni fai-da-te, delle perversioni liberali, della realtà virtuale più catatonica, dove l’uomo è titolato a credere e operare secondo qualsiasi sciocchezza interiore, era pienamente prevista da Pio X. I semi nella filosofia e nella teologia del tempo erano incontrovertibili.

 

Non è chiaro come sia possibile che una società che oggi ricorda Pio X non si renda conto dell’abisso che divide il Santo dall’ora presente – l’abisso che lui aveva indicato, e operato per scongiurare.

 

C’è, visibile, anche in cartelloni ora issati per l’occasione sulle strade del suo Paese natale, una – per così dire – «banalizzazione» di Giuseppe Sarto. Si ricordano varie sue battute in Veneto, come quando sua madre vedendolo per la prima volta vestito da cardinale gli disse «Ti xé tuto roso» («Sei tutto rosso») e lui rispose «e ti te sì tuta bianca» («e tu sei tutta bianca»).

 

Gli annali ricordano poi la battuta con cui salvò il tango, quando la liceità del sensuale ballo argentino fu portata al suo giudizio, dopo che la chiesa parigina aveva chiesto l’interdizione: «Mi me pàr che sia più bèo el bało a ‘ea furlana; ma no vedo che gran pecài ghe sia in stò novo bało!» (A me pare che si più bello il ballo alla friulana, ma non vedo esservi grandi peccati in questo nuovo ballo») disse dopo aver assistito ad una esibizione del ballo fatta per lui.

 

Per capire la profondità della figura, tuttavia, noi vogliamo ricordare un’altra udienza privata, che serve a capire la portata della mente del Santo.

 

Theodor Herzl (1860-1940) è stato l’intellettuale (non un rabbino…) che fondò il movimento politico del sionismo: fu lui a programmare, quindi, il ritorno degli ebrei in quello che all’epoca era il mandato britannico della Palestina, al fine di creare uno Stato Ebraico. Per gli appassionati: è lo stesso personaggio citato da Walter, il singolare cattolico polacco convertito all’ebraismo, ne Il Grande Lebowski. (– «Se lo vuoi con forza non è un sogno»  – «… che cosa hai detto?»  – «Theodor Herzl. Lo Stato di Israele. Se lo vuoi con forza non è un sogno»)

 

Il 26 gennaio 1904 papa Pio X concesse udienza a Herzl. L’incontro era stato organizzato da un ritrattista papale austriaco, Berthold Dominik Lippay (1864-1919), che il sionista aveva incontrato a Venezia. Lo scopo dell’incontro, per Herzl, era chiedere il sostegno papale per la creazione di uno Stato Ebraico in Palestina.

 

«Fui condotto dal Papa attraverso numerose piccole sale. Mi ricevette in piedi e mi porse la mano, che io non baciai» scrive Herzl nei suoi diari. «Lippay mi aveva detto di farlo, ma io non lo feci. Credo che questo gli dispiacque perché chiunque va in visita da lui si inginocchia o per lo meno gli bacia la mano. Questo baciamano mi causò molti dispiaceri. Sono stato molto contento quando finalmente cadde in disuso» assicura fiero il fondatore del sionismo.

 

«Egli sedette su una poltrona, un trono per occasioni minori. Poi mi invitò a sedermi accanto a lui e sorrise in amichevole attesa. (….) Gli presentai brevemente la mia richiesta. Tuttavia egli, forse infastidito dal mio rifiuto di baciargli la mano, rispose in modo duro e risoluto».

 

«”Noi non possiamo favorire questo movimento. Non potremo impedire agli Ebrei di andare a Gerusalemme — ma favorire non possiamo mai. La terra di Gerusalemme se non era sempre santa, è santificata per la vita di Jesu Christo” (egli non pronunciò Gesù, ma Yesu, secondo la pronuncia veneta)». Incredibile come le doti superomistiche del sionista gli dessero piena conoscenza della lingua veneta. Tuttavia, specifichiamo, in Veneto si dice «Gesù» e non «Yesu», ma questo forse è un errore di traduzione.

 

Quindi il papa santo arrivò al dunque.

 

«”Io come capo della Chiesa non posso dirle altra cosa. Gli Ebrei non hanno riconosciuto nostro Signore, perciò non possiamo riconoscere il popolo ebreo”» disse Pio X.

 

«Il conflitto tra Roma, rappresentata da lui, e Gerusalemme, rappresentata da me, si aprì ancora una volta» annota Herzl sul suo diario – e non si sa se con amarezza o con minacciosa superbia.

 

Ci sono secoli di questioni che Herzl, che si sente di rappresentare Gerusalemme, non conosce. Sorvoliamo, cercando solo di indicare al lettore la realtà odierna, di cui può farsi un’idea da solo. È oggettivo, ad ogni modo, che il ritorno degli ebrei in Palestina non è stato un processo indolore – per nessuno – e continua a non esserlo. E, come sappiamo, non solo alcuni israeliani «non hanno riconosciuto nostro Signore», ma oggi sputano materialmente sopra ai suoi fedeli.

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Scendiamo ancora più a fondo, per dire qualcosa di incredibile – una mia opinione, una mia piccola, tragica visione metastorica.

 

La storia – negata da alcuni sacerdoti che stimo molto, tuttavia persistente – vuole che quando dopo la morte di Leone XIII si aprì il conclave (primo di agosto 1903) il candidato più papabile fosse l’allora segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), cardinale arcivescovo siciliano considerato vicino alla Terza Repubblica francese, che usava politiche antireligiose e massoniche, e ad idee, diciamo così, «liberali».

 

Nel solenne momento della scelta del futuro papa, vi fu però una grande sorpresa: il vescovo di Cracovia, cardinale Puzyna, annunciò che l’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe usava un suo antico diritto come sovrano di del Sacro Romano Impero per porre il veto sull’elezione del cardinale Rampolla. Paradossalmente, una delle prime azioni di Pio X fu l’abolizione del cosiddetto jus exclusivae (o veto laicale) attraverso la costituzione apostolica Commissum Nobis. Tale forma di veto, che era in mano a certi sovrani cattolici e che aveva contribuito alla sua elezione come pontefice, è stata eliminata.

 

Eletto con 50 voti su 62, Giuseppe Sarto cominciò la sua opera di lotta all’infiltrazione modernista e alla laicizzazione della società.

 

Ma perché Francesco Giuseppe si era opposto all’elezione del cardinale Rampolla? Perché era filo-francese, cioè filo-Terza Repubblica «laica», dicono gli storici mainstream. All’epoca invece ambienti come quelli dell’Action Française, e non solo, dichiararono che invece l’opposizione dell’imperatore cattolico era dovuta ad una presunta appartenenza di Rampolla alla massoneria, o forse perfino ad un ordine neotemplare. Un vescovo straniero, tanti anni fa, mi disse che prove dell’affiliazione del cardinale sarebbero emerse anche quando questi morì, tuttavia nessuno storico ha mai portato prova certa.

 

Quindi, ipotizziamo, la massoneria era già infiltrata nella Chiesa nel XIX secolo? Già allora stava per fare il colpaccio e prendersi il Soglio di Pietro? Secondo queste voci, parrebbe.

 

Il progetto, per chi conosce le istruzioni dell’Alta Vendita – le lettere dei vertici ultramassonici Nubius, Piccolo Tigre, Volpe, Vindice – sa che era già segnato da decenni: «Or dunque, per assicurarci un Papa secondo il nostro cuore, si tratta prima di tutto, di formare, a questo Papa, una generazione degna del regno che noi desideriamo. Lasciate in disparte i vecchi e gli uomini maturi; andate, invece, diritto alla gioventù, e, se è possibile, anche all’infanzia».

 

Sappiamo come tali lettere poi raccontassero del programma di rovina morale, attaccando soprattutto la donna: «Per abbattere il cattolicismo, bisogna prima sopprimere la donna. La frase è vera in un senso, ma poiché non possiamo sopprimere la donna, corrompiamola».

 

Pio X, con la sua azione, ribaltò di fatto il programma massonico, lo individuò, ne scovò i dettagli più intimi tramite il Sodalitium Pianum, la rete segreta di informazione affidata a monsignor Umberto Benigni (1862-1934). Nessuno ostacolo fu più grande, per l’adempiersi del progetto della Loggia, del Santo di Riese.

 

Qui diviene interessante notare la coincidenza: l’anno della morte di papa Sarto e lo stesso anno dello scoppio della Prima Guerra Mondiale – il fatale 1914.

 

Molti ritengono che la Grande Guerra altro non sia che una parte di un piano per togliere di mezzo il cristianesimo dal Vecchio Continente: di fatto, il risultato fu la distruzione, dopo secoli e secoli, del Sacro Romano Impero, e aggiungiamo pure della Russia Zarista, ancorata sul cristianesimo ortodosso.

 

Lo schema di disintegrazione del cattolicesimo prevedeva la sparizione dell’Impero d’Austria, suo garante e protettore – come dimostrato dal veto su Rampolla papa.

 

Qui faccio la mia considerazione: la Grande Guerra è un effetto indiretto del conclave del 1903? Non potendo sconfiggere San Pio X, e vedendo la portata della sua opera, i massoni hanno scatenato una guerra mondiale, con strage infinita di poveri ragazzi?

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Nessuno può togliermi per la testa questa idea. Così come si può finire a pensare che il primo dopoguerra, con le sue richieste impossibili alla Germania sconfitta, di fatto preparasse una nuova guerra, il cui risultato sarebbe stato l’esclusione definitiva dell’Europa – il continente radice del cristianesimo – dalla scena mondiale. Sono stati creati, dopo il 1945, due blocchi, più o meno extraeuropei, la cui sfida combacia perfettamente con il principio dialettico massonico-hegeliano per cui gli opposti che creano una sintesi – una sintesi desiderata. Il pavimento a scacchi delle logge massoniche può significare proprio questo.

 

L’Europa è morta due volte: con una guerra per distruggere gli imperi e il cattolicesimo, e con una per togliere di mezzo qualsiasi sua pretesa sulla storia mondiale. Non ci stupiamo, quindi, se ora è invasa da africani e islamici ed incapace di reggere a qualsiasi conflitto le si pone dinanzi.

 

Questo massacro è finito? No.

 

Il 15 agosto 1871 Albert Pike (1809-1891), il cosiddetto «papa della massoneria», generale sudista americano e forse fondatore del Ku Klux Klan, scrive al supermassone e agente britannico Giuseppe Mazzini (1805-1872), ancor ‘oggi considerato eroe nazionale in Italia (pur essendo morto, come Bin Laden, da latitante): «Noi scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle Nazioni, l’effetto dell’ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione sanguinaria».

 

Alcuni dicono che il carteggio tra l’antipapista statunitense e l’antipapista italiano non esistono. Tuttavia, un commodoro della marina canadese, William Carr, dice di avere vedute le lettere a Londra, e in seguito vi scrisse un libro che le riassumeva. Altri ritengono che tali documenti siano secretati alla Temple House, sede della massoneria di Rito Scozzese di Washington.

 

Vale la pena di leggere le supposte parole del Pike. Tanti campanelli, a un secolo e mezzo di distanza, potrebbero risuonare nella mente del lettore.

 

«Allora ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere l’adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico, manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e dell’ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!»

 

Si prepara, insomma, la guerra ulteriore, la guerra satanica. Il processo, definitivo, per la sottomissione dell’umanità al demonio – la concrezione del Regno sociale di Satana. Se ciò stia per accadere, o se stia già accadendo, decidetelo da voi.

 

San Pio X aveva, tuttavia, già l’antidoto pronto: «Instaurare omnia in Christo». Restaurare ogni cosa in Cristo. Riformare, riformulare, ridisegnare, riedificare la società secondo Dio – e non secondo l’uomo, né secondo altro; non secondo «Gaia», non secondo la Pachamama, la «madre Terra» o qualsiasi altra follia idolatrica portata avanti dalla mostruosa neochiesa, per la quale, abbiamo visto, potrebbe valere il detto «Instaurare omnia in Chtulhu».

 

La soluzione ai problemi del mondo – in Palestina, in Ucraina, in Italia, nel vostro quartiere, nella vostra famiglia, nel vostro cuore – è tutta qua.

 

Tutta quella gente con cui sabato scorso io e il mio bimbo abbiamo camminato cantando «Noi vogliam Dio» lo sa. È già tanto, è tantissimo.

 

È la speranza con cui costruiamo, ora, il futuro dei nostri figli, e dei loro figli, e dei figli di questi, nella catena sacra della vita umana che da Adamo arriverà sino all’Apocalisse.

 

Sancte Pie Decime, ora pro nobis.

 

Roberto Dal Bosco

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Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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