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La catastrofe farmaceutica degli oppioidi. Renovatio 21 recensisce Dopesick

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Dopesick – Dichiarazione di dipendenza (in streaming su Disney+, Stars Original) è una serie corale che racconta la catastrofe della dipendenza da oppiacei che ha sconvolto gli Stati Uniti. In particolare a partire dalla diffusione del farmaco OxyContin e, a cascata, dell’ondata di dolore, degrado, violenza e morte che ne è scaturita.

 

Si tratta di un tema che altre volte abbiamo trattato su Mondoserie – in apparenza, uno potrebbe dire, anche troppo spesso. Tuttavia, siamo dinanzi alla questione principale della società americana, un trauma iniziato circa venti anni fa (come la serie dettaglia benissimo) e ancora lungi dall’essere finito.

 

Lo scorso novembre il CDC, l’ente per le epidemie USA, ha dichiarato che le morti di overdose sono a circa 100 mila l’anno – e crediamo che si tratti di una cifra per difetto. Secondo l’ente, le morti per overdose sono «accelerate» durante la pandemia, raggiungendo livelli record. Secondo i dati di fine anno, nella città di San Francisco – una città oramai letteralmente invasa da homeless drogati che stanno spingendo gli abitanti a fuggire – le morti per overdose sono il triplo delle morti attribuite al COVID.

 

Come è iniziato questo disastro?

 

Gli otto episodi di Dopesick hanno il pregio di raccontarlo piuttosto bene.

 

 

Grande affresco della catastrofe

Tratto dal libro Dopesick: Dealers, Doctors and the Drug Company that Addicted America dell’editorialista del New York Times Beth Macy, la storia si concentra sull’epicentro iniziale della catastrofe. Ossia gli Appalachi, le zone montuose dove, prima delle delocalizzazioni cinesi, minatori e operai metallurgici creavano la spina dorsale dell’America materiale.

 

Lavoratori rigorosi, chiusi in piccole cittadine, spesso unite dalla religione e dal senso di paese dove tutti conoscono tutti.

 

In miniera e in fabbrica qualcuno si può far male – e da qui la necessità, magari, di una terapia antidolorifica. Cosa compresa perfettamente dalla famiglia Sackler, l’altro grande quadro che Dopesick riesce a mostrarci.

 

I Sackler sono miliardari farmaceutici. La generazione precedente, guidata dallo «zio» Arthur M. Sackler, portò un loro farmaco, il Valium – anche conosciuto come Diazepam – ad essere il primo negli USA a superare i 100 milioni di dollari di vendite (valore del denaro del 1971), facendo un uso ossessivo di campagne di marketing allore inedite per il settore.

 

I Sackler hanno donato milioni e milioni di dollari in filantropia artistica, ed è possibile vederli nella serie nei loro consigli di amministrazione ambientati nelle stanze del Metropolitan Museum adattate per il bisogno, in scene dove lo sfarzo si impasta con l’odio strisciante che provano l’uno per l’altro.

 

Il centro della nuova generazione è Richard Sackler, qui interpretato con intensità da Michael Stuhlbarg, che rende un personaggio diabolico e autistico al contempo. Richard Sackler vuole scalare la società di famiglia, ma tutti lo disprezzano. Vuole, in cuor suo, superare zio Arthur, e portare la società ad un livello superiore. Magari, addirittura, uscire dal mercato americano.

 

Tutto questo con un prodotto sul quale sta puntando ogni cosa: l’OxyContin, un oppioide a rilascio temporizzato, con il quale può sostituire il farmaco precedente il cui brevetto è scaduto.

 

 

L’impero del male dei filantropi Sackler

La sua campagna è senza sosta: penetra l’ente regolatore del farmaco, l’FDA, probabilmente corrompendola dal di dentro (fa scrivere le avvertenze del prodotto da un membro dell’ente che poi assume), poi parte con una campagna di marketing massiva, istruendo un esercito di rappresentanti a cui è tolto ogni scrupolo a convincere i dottori della superiorità dell’OxyContin.

 

Richard Sackler riuscirà in molti dei suoi intenti. La società di famiglia, la Purdue Pharma, ammasserà quantità mai viste di danaro. Prenderà il comando dell’azienda in barba al padre che non crede in lui e all’altro zio che lo disprezza. I Sackler, si dirà, ad un certo punto possono dirsi praticamente la famiglia più ricca della Nazione, forse perfino più dei Rockefeller.

 

Il prezzo: milioni di vite americane distrutte, rovinate e perfino uccise in modo terrificante.

 

Ogni singolo americano, viene mostrato nelle 8 puntate di Dopesick, diviene a rischio di diventare – magari per un mal di schiena o un mal di denti! – un tossicodipendente. E quindi di finire nel vortice che questo comporta: dolore, follia, crimine. Disoccupazione, ruberie, prostituzione, tragedie famigliari. E ancora, dolore, dolore, e disperazione.

 

Il caso più drammatico qui mostrato – un caso vero – è quello del dottor Samuel Finnix, dipinto magistralmente da Michael Keaton. Il dottor Finnix, per decenni medico della comunità operaia degli Appalachi, viene convinto da un giovane rappresentante farmaceutico a prescrivere l’OxyContin. Aprendo, di fatto, le porte dell’Inferno per tutta la sua amata cittadina.

 

Completano l’affresco umano gli sforzi degli inquirenti: Bridget Mayer (Rosario Dawson), amazzone dell’ente antidroga americano FDA, Rick Mountcastle (Peter Sarsgaard) e Randy Ramseyer (John Hoogenakker) dell’ufficio del procuratore della Virginia. Tutti si erano resi conto che al centro della distruzione sociale che stava montando, sensibile già a fine anni Novanta, c’erano l’OxyContin e la Purdue Pharma.

 

Il potere trasformativo della droga

La storia più tremenda raccontata da Dopesick rimane quella della giovane minatrice Betsy Mallum (Kaitlyn Dever). Che finisce schiava della droga, degli spacciatori, degli approfittatori, della devastazione che porta nella sua casa. E con nessun «programma» che riesca davvero a farla tornare in sé: la sua stessa natura profonda è stata «rewired», «ricablata». Trasformata.

 

Perché questo è quello che la crisi degli oppioidi fa: trasforma. Il dottore diventa un drogato, la ragazzina una ladra prostituta, il veterano un trafficante, la casalinga una barbona. Mentre i miliardari diventano ancora più ricchi.

 

Quella di Dopesick non è una visione gioiosa, né catartica: perché questa storia non è ancora finita. Anzi: la pandemia, come dicevamo sopra, ha peggiorato le cose.

 

Per chi volesse approfondire, HBO ha fatto uscire qualche mese fa una miniserie documentaria in due puntate, Crime of The Century, che va ancora più a fondo. Facendo i nomi di tutte le altre aziende coinvolte (alcune, ora, fanno i vaccini COVID). E mostrando la portata di questa industria di morte, arrivata a far coltivare il papavero ai contadini della Tasmania, tanta era la necessità degli ingredienti per gli oppioidi.

 

 

E in Italia?

Guardando la serie, seduto comodo in Italia, uno non può che finire per chiedersi: e da noi?

 

Un giornalista italiano, Filippo Facci, è praticamente l’unica voce del Paese che ha cominciato a parlarne. Perché stava capitando a lui.

 

«Nel giugno 2020 subii un intervento chirurgico molto invasivo, con una travagliata convalescenza che prevedeva l’assunzione di antidolorifici oppioidi od oppiacei: OxyContin, Targin, Depalgos. ossicodone, tramadolo eccetera (…) si comprano in farmacia con la ricetta, o in qualche modo anche senza. I medici italiani ci vanno cauti, ma alla fine il dosaggio te lo fai da solo, a seconda del male che senti».

 

«Lo scrivente – continua Facci – nell’ arco di soli 15 giorni, divenne un drogato a tutti gli effetti, un dipendente da oppioidi come ne muoiono 50mila all’anno negli Stati Uniti, dove hanno superato le vittime annue di incidenti automobilistici o di armi da fuoco, dove il numero di overdose dal 2006 al 2016 ha superato quello di tutti gli americani morti nelle due guerre mondiali (…). La maggioranza era gente assolutamente normale, che aveva iniziato con ordinarie prescrizioni e poi era passata a cercare su internet, infine dagli spacciatori. Siccome le pillole costano, i più poveri talvolta passano al morfinoide più economico: l’eroina».

 

Facci scrive di esserne uscito «velocemente, pur con spaventosa fatica: e questo, ripeto, per soli 15 giorni di assunzione. Ci ripenso ogni volta che trovo la fila in farmacia, tutti coi loro ticket, rivolti verso la neo santità del camice bianco».

 

Istituzioni malvagie

Dalla serie sono lasciate fuori varie ramificazioni della crisi degli oppioidi – per esempio l’ascesa del fentanyl, la droga che uccise Prince: un’eroina cinquanta volte più potente, quindi più letale. Nonché il ruolo della Cina Popolare (che si prende una vendetta contro una popolazione anglo dopo le umilianti Guerre dell’Oppio) e dei cartelli del narcotraffico messicano.

 

È il fattore umano il centro del racconto di Dopesick. E come esso possa finire stritolato da un mastodonte cieco e genocida, fatto di istituzioni pubbliche e private, ospedali e case farmaceutiche, enti regolatori e famiglie multimiliardarie.

 

La tragedia degli uomini schiacciati dalle istituzioni malvagie.

 

Questo può succedere ovunque. Questo succede ovunque.

 

 

 

 

 

Articolo previamente apparso su Mondoserie.it

 

 

 

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Installazione artistica che collega in video Nuova York e Dublino chiusa dopo che una tizia Onlyfans vi mostra il seno ignudo

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Un’installazione artistica che trasmetteva video in live streaming tra Dublino e Nuova York è stata chiusa a seguito di diversi incidenti tabù, tra cui un’influencer che ha esibito il suo petto nudo dinanzi cittadini irlandesi.

 

«The Portal», un grande schermo circolare con una telecamera collegata, è stato inaugurato l’8 maggio scorso e aveva lo scopo di unire le persone oltreoceano consentendo ai cittadini statunitensi e irlandesi di interagire tra loro.

 

Tuttavia, la situazione è presto sfuggita di mano poiché i passanti hanno iniziato a comportarsi in modo inappropriato. Su Internet hanno cominciato a circolare video che mostrano persone che esibire nudità, tirare fuori video pornografici e prendere in giro le tragedie americane. In un caso una torma di irlandesi presumibilmente ebbri hanno finto di sniffare cocaina, mentre altri hanno mostrato dai loro telefonini video erotici o immagini delle Torri gemelle che fumano.

 

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Vi sono stati casi inoltre di mooning, ossia come in lingua inglese si chiama l’usanza antica di mostrare le terga nude al prossimo in segno di scherno.

 

 

L’«opera d’arte» è stata poi chiusa quando una «creatrice di contenuti» di OnlyFans, Ava Louise, si è messa davanti alla telecamera transoceanica e, davanti a dublinesi e neoeboraceni, ha tirato fuori le mammelle, facendole pure rimbalzare vistosamente.

 

 

«Quindi ho appena chiuso il portale da New York a Dublino», ha detto Louise in un video di TikTok. «Pensavo che la gente di Dublino meritasse di vedere le mie due patate coltivate in casa a New York» ha aggiunto, usando uno stereotipo tacciato di insensibilità rispetto alla storia dell’isola di San Patrizio.

 

 

La fanciulla ha difeso il suo operato nella trasmissione del giornalista britannico Piers Morgan. «Chi non ama le tette? Sono sicuro che anche tu le ami, Piers» ha detto la ragazza, accusando chi ha trovato i suoi commenti sulle patate irlandesi inappropriati di non aver mai probabilmente fatto sesso.

 

«Non ho nessuna vergogna. Ho fatto 100 mila dollari alla settimana» ha dichiarato la ragazza, facendoci davvero temere per la sua generazione.

 

 

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La chiusura dell’installazione di videoarte ha provocato anche il commento di Elone Musk: «inevitabile».

 

Il Consiglio comunale di Dublino ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna il comportamento inappropriato, sottolineando che la maggior parte delle interazioni sono state positive.

 

«La stragrande maggioranza delle interazioni sono positive», ha scritto il consiglio comunale in una dichiarazione la scorsa  settimana.

 

«Il Portale offre una finestra su altre città e collega persone e culture in un modo unico: ciò che stiamo vedendo tra Dublino e New York riflette una narrazione più ampia di comportamento culturale. Sfortunatamente, abbiamo assistito anche a una piccolissima minoranza di persone coinvolte in comportamenti inappropriati, che sono stati amplificati attraverso i social media».

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«Anche se non possiamo controllare tutte queste azioni, stiamo implementando alcune soluzioni tecniche per risolvere questo problema e queste saranno attive nelle prossime 24 ore».

 

Il portale sarebbe stato da poco riaperto: con transenne e guardie di sicurezza. Un’altra immagine eloquente dei nostri tempi.

 


 

Il tema delle oscenità trasmesse da un capo all’altro del mondo in videocollegamenti pubblici era preconizzato in accenno in un romanzo del 1999 scritto dallo scrittore di fantascienza William Gibson, All Tomorrow’s Parties, tradotto in Italia come American Acropolis.

 

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Sedicente «strega» non binaria arriva in finale all’Eurovision. Il suo scopo: «far aderire tutti alla stregoneria»

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Una sedicente «strega» definitasi pure «non binaria» ha rappresentato l’Irlanda all’Eurovision Song Contest 2024, eseguendo una canzone stracarica di riferimenti all’occultismo.   Il 7 maggio, la 31enne Bambie Ray Robinson – conosciuta con il nome d’arte di «Bambie Thug» – si è assicurata un posto nella finale dell’Eurovision tenutasi l’11 maggio in Svezia. La Robinson afferma essere «non binaria» (cioè non eterosessuale) e descrive il suo lavoro come «Ouija pop», dal nome della famigerata tavoletta Ouija per l’evocazione degli spiriti che ha causato vittime tra i bambini anche di recente.   Spiegando il suo nome d’arte, la Robinson ha affermato che «Bambie Thug è il tuo re stregone antidoto al mondo» durante un’intervista su YouTube.   La sua esibizione del 7 maggio della sua canzone di punta «Doomsday Blue» («Blu del Giorno del Giudizio») ha visto la Robinson vestita con caratteristici abiti gotici, con corna da diavolo che adornavano il suo costume e unghie finte che rappresentavano i pastorali dei vescovi.  

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Nel video sono visibili molteplici riferimenti parasatanici, a parte il trucco di Robinson e i suoi testi con incantesimi tratti dalla letteratura di Harry Potter. Ad un certo punto, Robinson si trovava al centro di un pentagramma circondato mentre le candele si accendevano mentre lei agitava la mano su di esse.   Nel filmato la cantante dispone di un compagno di ballo truccato per assomigliare a un demone. A metà spettacolo, la Robinsona si spoglia per mostrarsi mentre indossa i colori della bandiera transgender su un bikini. La trovata, ha spiegato, è per «gridare dai tetti sui diritti dei trans per sempre».   La Robinson ha concluso la sua performance facendo apparire sullo schermo dietro di lei le parole «Crown the Witch» («Incorona la strega») in caratteri gotici. Aveva anche la frase tatuata sul viso in alfabeto ogamico, una forma di scrittura utilizzata per trascrivere le antiche lingue celtiche. Apprendiamo tuttavia che si tratta di una scelta di ripiego dopo che la sua intenzione originale di farsi tatuare «Palestina libera» sul viso era stata respinta dagli organizzatori.

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Lo slogan «Crown the Witch» è diventato virale sui siti di social media, con Robinson che ha ottenuto un notevole sostegno da parte dei media irlandesi e di numerosi politici irlandesi, tra cui il neo nominato primo ministro Simon Harris.   La canzone, con cui la Robinson si è assicurata un posto nella finale di sabato, è descritta dallo stesso Eurovision come «sulla sensazione di vedere il proprio potenziale trascurato ed è un inno alla comunità queer».   «Il piccolo numero di canzoni e video musicali di Robinson si distingue per i contenuti espliciti come la nudità totale, la maggiore attenzione al sesso e i collegamenti diretti con l’occulto, incluso il nome di una canzone con un termine occulto» scrive LifeSiteNews.

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La donna non ha mai nascosto il suo coinvolgimento diretto di lunga data con l’occulto, dichiarando di aver praticato «incantesimi» sin dalla tenera età. «La mia eredità è pagana e pratico la stregoneria. Sono una stronza gotica», ha affermato all’inizio di quest’anno, sottolineando anche come le piacciano i contatti con altre streghe.   La Robinson aveva parlato della canzone, allora non ancora pubblicata, già nel 2023. «Ho una canzone chiamata “Doomsday” che non è ancora uscita. Parlavo in lingue a ritmo oppure tutti parliamo al contrario nelle canzoni o semplicemente nascondiamo incantesimi nelle canzoni, usando anche il linguaggio occulto. O anche come la canzone “Necromancy” [«negromanzia, ndr], che nasce da un incantesimo.”   «L’intenzione era quella», ha detto. «La maggior parte delle mie canzoni e dei miei testi hanno anche testi basati sull’occulto. Sicuramente gioca anche un ruolo importante. Non penso che qualcuno stia davvero usando molta terminologia occulta e questo è brutto perché voglio farlo completamente».   La cantante ha altresì dichiarato di comporre musica in una sorta di stato di trance. «Posso entrare in un vortice. Scrivere musica è molto strano per me perché canalizzo completamente. Vado da qualche altra parte per anni e poi esco con la canzone. A volte non ricordo nemmeno di aver scritto qualcosa. Ho questa traccia che ho scritto anni fa ed è una delle mie tracce preferite dal punto di vista dei testi. Non ricordo di averlo scritto».   I suoi obiettivi, dice, sono «parlare di più dell’occulto e far sì che le persone abbiano più familiarità con esso e far sì che le persone smettano di essere così giudicanti riguardo alla stregoneria».   «Il mio obiettivo nella vita è far sì che tutti abbandonino tutte le altre religioni e aderiscano alla stregoneria», ha affermato Robinson.

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La Robinsona è stata selezionata per rappresentare l’Irlanda all’Eurovision 2024 tramite una votazione all’inizio di quest’anno, comprendente un voto pubblico e una selezione da giurie nazionali e internazionali. La sua ascesa alla ribalta internazionale è per molti versi del tutto inaspettata, dato il numero molto limitato di canzoni e il fatto che «Doomsday Blue» ha raggiunto solo il 37° posto nelle classifiche irlandesi.   Alcuni cattolici irlandesi hanno espresso indignazione, con Rebecca Barrett – moglie del politico cattolico Justin Barrett – che ha definito lo spettacolo «letteralmente demoniaco».   Dopo che Robinson ha eseguito «Doomsday Blue» alla TV irlandese a febbraio, padre Declan McInerney della diocesi di Galway, Kilmacduagh e Kilfenora hanno criticato duramente la performance. In un’omelia virale, padre McInerney ha dichiarato dopo aver visto la canzone di Robinson che «abbiamo finito. Siamo finiti come Paese».   Come riportato da Renovatio 21, di recente varie figure, tra cui religiosi, hanno accusato Taylor Swift, probabilmente la più popolare cantante del pianeta oggi, di includere elementi di stregoneria in canzoni e concerti.   Medesime questioni sono emerse durante la cerimonia del Premio Grammy di quest’anno, dove la giovane star della canzone statunitense Olivia Rodrigo ha eseguito un canzone, intitolata «Vampire», accompagnandola con scenografie e coreografie lugubri e vagamente esoteriche.   Alla fine, Bambi Thug (che si potrebbe tradurre come «Bambi sgherro») si è piazzata sesta, tra l’Israeliana Eden Golan (nome bizzarro anche questo: una crasi tra il giardino di Adamo ed Eva e le alture contese tra lo Stato Ebraico e la Siria ) e l’italiana Angelina Mango (nome ulteriormente particolare, a pensarci bene: un po’ celestiale, un po’ frutto esotico).   L’Eurovision ha patito per anni una sorta di complesso di inferiorità nei confronti del Festival di Sanremo, considerato un tempo il più grande evento di competizione musicale al mondo – chiedere ai sovietici in caso di dubbi.   L’incapacità della kermesse ligure di uscire dalla cifra campanilista – inflitta negli anni anche da lottizzazioni politico-televisive – ha fatto sì che l’Eurovision, considerato fino a pochi anni fa più che altro un’esibizione del trash più patente, superasse Sanremo divenendo la più scoppiettante manifestazioni per la musica leggera a livello europeo e globale.   Da anni, tuttavia, accade che i vincitori della gara – a partire dal trans austriaco Conchita Wurst – vengano utilizzati dai critici, anche solo in foto, per significare il fenomeno della decadenza dell’Europa.

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Attrici giapponesi che si vestono da uomini bullizzano collega fino a spingerla al suicidio

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Dal Giappone arriva l’eco di un episodio di bullismo e violenza sistematica sfociati in un suicidio all’interno di una struttura esclusivamente femminile. Una sorta di suicidio femminicida, ma ad opera di femmine.

 

Teatro della vicenda è per il corpo teatrale Takarazuka, un’istituzione più che secolare nel mondo dello spettacolo giapponese. Il concetto alla base del corpo teatrale è che sono soltanto attrici a salire in scena, interpretando anche i ruoli maschili. Tale idea, di per sé spiazzante, inverte completamente la tradizione del teatro tradizionale Kabuki, dove sono gli attori maschi a ricoprire tutti i ruoli.

 

Gli spettacoli del Takarazuka sono tuttavia distanti anni luce dal rigido formalismo del Kabuki: qui si tratta di musical che attingono dalle fonti più disparate, da West Side Story all’Evgenij Onegin, spesso spingendo a tavoletta su elementi che qualche anno fa si definivano camp o kitsch, in italiano lo si potrebbe semplicemente chiamare «pacchianeria», benché estremamente professionale e ben fatta.

 

 

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Il seguito che hanno questi spettacoli nel contesto nipponico è impressionante, ancora di più perché per la grandissima maggioranza femminile: lo scrivente ricorda di essersi imbattuto in una lunghissima coda in attesa di entrare nel teatro di Tokyo – in zona centralissima, vicino al palazzo imperiale – dove si esibisce la compagnia. Si poteva constatare che gli uomini tra la folla erano appena una manciata.

 

Un ambiente quindi quasi completamente femminile, al sicuro da patriarcato e maschilismo tossico.

 

E allora, come si spiegano allora vessazioni di gruppo, ustioni procurate con le piastre per i capelli, carichi di lavoro insostenibili assegnati al solo scopo di umiliare e di lasciare soltanto tre ore di sonno al giorno? È questa l’ordalia che ha portato la 25enne Aria Kii a gettarsi nel vuoto per porre fine alla sua vita nel settembre del 2023.

 

La vicenda era stata prontamente insabbiata dall’azienda che gestisce la compagnia teatrale ma è stata riportata a galla dall’ineffabile Shuukan Bunshun, testata con una lunga e gloriosa tradizione di caccia agli scheletri negli armadi. Nella primavera di quest’anno i dirigenti dell’azienda in questione hanno pubblicamente ammesso la loro responsabilità nel non essere stati in grado di vigilare adeguatamente l’ambiente lavorativo delle attrici.

 

Duole dire che per la società giapponese uno scenario così è tutto fuorché inconsueto: il proverbio «il chiodo che sporge verrà martellato» illustra ancora con una certa fedeltà le dinamiche sociali che si formano all’interno delle istituzioni giapponesi – siano esse scuole, aziende, partiti.

 

Negli ultimi tempi c’è un evidente cambiamento in atto soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro, ma il bullismo allo scopo di creare coesione all’interno di un gruppo è una pratica a cui i giapponesi ricorrono abitualmente e che non sembra soffrire di particolare disapprovazione sociale.

 

Dal Giappone ci chiediamo con sincerità come un giornalista italiano – di area woke, ma anche solo attento a seguire i dettami del politicamente corretto elargiti ai corsi di deontologia dell’Ordine – potrebbe riportare la notizia della triste morte di Aria, con lo stuolo di angherie subite in un contesto esclusivamente femminile.

 

Taro Negishi

Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo

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