Il campione della donazione di sperma Kyle Gordy è di nuovo nelle notizie.
Paternità
Vitamina K, tra beceri complottismi e vera comprensione del problema

Le controversie sulla somministrazione della Vitamina K per via parenterale ai bambini appena nati continua a far discutere, non foss’altro per la generale scarsa conoscenza dell’argomento e della stessa pratica, fatta quasi in segreto nella fretta e nell’emozione del momento della nascita.
Esistono due categorie di persone che dimostrano, l’una nel medesimo modo dell’altra, di non capire il vero problema che in questa sede, invece, tenteremo di spiegare.
La prima categoria è quella dei menefreghisti, che lasciano alle grinfie dello Stato industrial-sanitario i loro figli senza nemmeno premurarsi di ciò che viene a loro fatto e inoculato.
La seconda è quella dei complottisti perdigiorno, che vedendo cospirazioni ovunque mettono in pericolo la credibilità e l’onestà della causa, soprattutto di chi la combatte con motivazioni ben solide, argomentate con criteri razionali lontani anni luce dalla banale impulsività.
Occorre capire come mai venga somministrata ai bambini appena nati una dose di Vitamina K senza nemmeno spiegare ai genitori di cosa si tratti e il motivo per cui viene inoculata per via parenterale. Cioè con la siringa
Di questa seconda categoria, non molto tempo addietro, ha avuto modo di parlarne il Dott. Stefano Montanari che insieme alla moglie ha analizzato il KONAKION ® prima infanzia, cioè la famosa Vitamina K.
L’analisi è stata commissionata ai due ricercatori modenesi da un gruppo di persone – probabilmente genitori – come spiega lo stesso Montanari:
«Bisogna sapere che tempo fa un gruppo di persone mi chiese di analizzare una fiala della vitamina K che, per ragioni a me ignote, viene somministrata ai bambini usciti pochi minuti prima dal grembo materno. L’analisi che noi possiamo fare è solo relativa all’eventuale presenza di micro- e nanoparticelle inorganiche e quella fiala ne era priva. Ma per il complottista ad oltranza la cosa non può essere vera: in quella fiala c’è il precursore del cancro».
«Ora, io capisco la delusione di chi sperava che in quella roba noi ci trovassimo la ferraglia che troviamo costantemente nei vaccini ma, nel caso specifico, non è stato così. Al contrario di qualcuno, io mi limito a riferire in modo freddo ciò che risulta dall’osservazione di microscopia elettronica che mia moglie esegue, e, se il risultato non piace, non so proprio che farci”.
Il vero problema della somministrazione della Vitamina K ai bambini appena nati è infatti legato all’atto sanitario in sé e alla «violenza» fatta contro l’innocenza dei bambini. Il tutto, ovviamente, senza nessun consenso dato dai genitori
Proprio così, per il complottista in scricto sensu l’idea della cospirazione ai suoi dannisupera persino la realtà delle cose. Non solo: supera, anche, le analisi fatte secondo metodo scientifico da due scienziati non certo piegati ai diktat delle farmaceutiche (come quelli, e vi sono esempi che tengono nascosto un eventuale pericolo presente nel farmaco), ma da due ricercatori assolutamente liberi e senza conflitti d’interessi di sorta (come spesso invece accade a chi fa “scienza” con i dindi di Big Pharma).
Occorre però capire come mai venga somministrata ai bambini appena nati una dose di Vitamina K senza nemmeno spiegare ai genitori – quantomeno nella maggior parte dei casi – di cosa si tratti e il motivo per cui viene inoculata, peraltro non per via orale (come dovrebbe essere) – ma per via, appunto, parenterale. Cioè con la siringa.
Sappiamo che la deficienza di vitamina K può causare sanguinamenti inaspettati (con un’incidenza dallo 0,25 all’1,7%), durante i primi mesi di vita in neonati in buona salute: questo quadro viene chiamato oggi «emorragia precoce del neonato da deficienza di vitamina K» (VKDB). Tuttavia non abbiamo certezze sul fatto che questo avvenga subito dopo la nascita, così come non abbiamo evidenze sul fatto che la pratica, come al solito, debba essere fatta in maniera massiva.
Il primo atto dunque, non è una dose di amore alla vita, ma la puntura sotto il minuscolo piede o nella coscia
Aldilà di ciò che però si può dire sulle evidenze scientifiche, sulla bontà del farmaco o, invece, come sostiene qualcuno, sulla sua nocività, il nocciolo della questione a nostro parere è un altro: la dea Siringa invocata dalla religione sanitaria mondiale, che include ormai tutto e tutti, deve essere adorata ed incensata da tutto il volgo.
Il vero problema della somministrazione della Vitamina K ai bambini appena nati è infatti legato all’atto sanitario in sé e alla «violenza» fatta contro l’innocenza dei bambini. Il tutto, ovviamente, senza nessun consenso dato dai genitori.
Bisogna rendersi conto che, una volta usciti dal ventre materno, i bambini piaccia o non piaccia vengono siringati dai camici bianchi.
Venuti fuori da quel guscio caldo e sicuro che è la pancia della mamma, sono subito siringati in gloria alla «prevenzione»
Il primo atto dunque, non è una dose di amore alla vita, ma la puntura sotto il minuscolo piede o nella coscia.
Venuti fuori da quel guscio caldo e sicuro che è la pancia della mamma, sono subito siringati in gloria alla «prevenzione».
Più che riflettere sul possibile danno a lungo termine che potrebbe esser prodotto inoculando la Vitamina K via parenterale piuttosto che per via orale, magari non nella prima mezz’ora di vita ma dopo qualche settimana, sarebbe bene riflettere sull’esigenza di bucare tutto e tutti senza sosta.
Su questo dobbiamo infuriarci. Abbiamo il dovere di infuriarci quando un operatore sanitario toglie dalle braccia della mamma il bambino per elevarlo al rito di iniziazione in sacrificio alla dea Siringa
Su questa ossessione, forse gli psicanalisti potrebbero trarre qualche pensiero.
Come il sistema educativo statale vuole imporsi anche sopra la volontà e la potestà educativa dei genitori, inoculando nel cervello le direttive di un sistema avente scopo di creare giovani senz’anima e senza spina dorsale, analogicamente il sistema sanitario inocula farmaci in maniera massiva, senza alcuna distinzione soggettiva: è la massa quella che conta.
È, appunto, il gregge.
Su questo dobbiamo infuriarci. Abbiamo il dovere di infuriarci quando un operatore sanitario toglie dalle braccia della mamma il bambino per elevarlo al rito di iniziazione in sacrificio alla dea Siringa.
La generazione dei nostri figli e la loro conseguente nascita, crescita, è il miracolo più grande che dobbiamo difendere con le unghie e con i denti da chi si vuole imporre su questa chiamata alla custodia della loro incolumità fisica e moral
Bisogna combattere per riaffermare il nostro essere genitori in lato sensu. Genitore, deriva dal latino «gignere», ovvero generare.
La generazione dei nostri figli e la loro conseguente nascita, crescita, è il miracolo più grande che dobbiamo difendere con le unghie e con i denti da chi si vuole imporre su questa chiamata alla custodia della loro incolumità fisica e morale.
Cristiano Lugli
Contraccezione
Pillole anticoncezionali maschili sperimentate entro l’anno

Gli scienziati affermano di aver creato una pillola anticoncezionale per gli uomini e potrebbero iniziare la sperimentazione umana già quest’anno. Lo riferisce il sito americano Gizmodo.
I ricercatori dell’Università del Minnesota hanno sviluppato il composto, soprannominato GPHR-529, come forma di pillola maschile non ormonale. Nei test, sono stati in grado di mantenere sterili i topi di laboratorio per quattro o sei settimane con un’efficacia del 99%.
L’equipe ora spera di condurre prove umane per la pillola entro la fine del 2022.
Sebbene in passato ci siano state pillole anticoncezionali maschili in fase di sviluppo e sperimentazioni sull’uomo, spesso utilizzano trattamenti ormonali – un processo che prende di mira e diminuisce il testosterone – per raggiungere la sterilità, che può provocare effetti collaterali indesiderati come diminuzione del desiderio sessuale e colesterolo alto.
Poiché la pillola del team dell’Università del Minnesota non è ormonale, potrebbe ottenere i risultati desiderati senza impoverire gli uomini del loro prezioso testosterone.
«Dal momento che gli uomini non devono subire le conseguenze della gravidanza, la soglia per gli effetti collaterali delle pillole anticoncezionali è piuttosto bassa», ha detto a Gizmodo il dottor Abdullah Al Noman, ricercatore capo dello studio e studente laureato in chimica medicinale alla UM.
«Ecco perché stiamo cercando di sviluppare pillole anticoncezionali non ormonali per evitare effetti collaterali ormonali».
Gli scienziati affermano inoltre che anche i topi non erano più sterili dopo aver smesso di assumere GPHR-529 dopo quattro o sei settimane. Quindi gli effetti sarebbero tutti potenzialmente temporanei per gli uomini che lo assumono.
La creazione di un contraccettivo medico per uomini – chiamato negli anni dalla stampa italiana «il pillolo» – non ha mai dato esiti positivi, scrive Futurism. Negli anni essa ha generato effetti collaterali indesiderati e ha perfino creato, involontariamente, il consumo ricreativo di certe sostanze – i SARM (acronimo che sta per modulatori selettivi dei recettori degli androgeni) – presso atleti e culturisti quando si è scoperto che taluni di questi farmaci sperimentali potevano aiutare i muscoli. I SARM, di fatto, sono considerati l’alternativa moderna ai derivati sintetici del testosterone, cioè agli steroidi. Alcuni SARM hanno effetti sterilizzanti, altri inducono, esattamente come gli steroidi, alla soppressione del testosterone naturale – cioè la compromissione materiale della fonte della maschilità.
Nuove tecniche di contraccezione maschile sono già in fase di sperimentazione, ma con possibili gravi conseguenze per l’uomo, come nanomateriali magnetici iniettati nei testicoli. Questa tecnica sviluppata da scienziati cinesi consiste nell’iniettare nanomateriali magnetici, usando magneti esterni per guidare le particelle nei testicoli, e poi usando un altro campo magnetico per riscaldare i genitali al punto tda temporaneamente fermare la produzione sperma.
Tutti questi avanzamenti nella sterilizzazione altro non sono che parte di un progetto di indebolimento dell’uomo (e del maschio) e la conseguente denatalità.
Senza contraccettivi, vi sarebbe quindi la sovrappopolazione?
La sovrappopolazione, il lettore di Renovatio 21 lo sa, è un mito tossico artificiale iniettato nel mondo moderno dai potentati della Necrocultura.
Non solo la sovrappopolazione non esiste – l’intera umanità di 7 miliardi di individui potrebbe, utilizzando gli spazi che usa quotidianamente, risiedere in Texas! – ma è la denatalità la minaccia che dobbiamo affrontare ora.
Il magnate Elon Musk ci sta avvertendo in merito: «Penso che uno dei maggiori rischi per la civiltà sia il basso tasso di natalità e il rapido calo del tasso di natalità».
Bioetica
Donatore di sperma ha 55 figli

Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
L’anno scorso è apparso sul New York Times come uno dei numerosi «re dello sperma» che viaggiano per il mondo creando progenie per le coppie lesbiche.
«Le persone sono stufe delle banche del seme», ha detto Kyle Gordy, 29 anni, che vive a Malibu, in California. Si diletta nel settore immobiliare ma trascorre la maggior parte del suo tempo donando il suo sperma, gratuitamente (tranne il costo del viaggio), alle donne.
Gestisce anche un gruppo Facebook privato, Sperm Donation USA, con circa 21.000 membri che offre alle donne centinaia di donatori approvati.
La scorsa settimana è apparso su The Sun, un tabloid britannico. Quando è stato intervistato dal NYTimes, aveva generato 35 figli con cinque in arrivo. Ora quelle cifre sono salite a 46 e nove, per un totale di 55 figli. Ne ha incontrati solo nove, ma ha detto a The Sun di rimanere in contatto con gli altri.
«Ho sempre voluto avere figli. Ho avuto alcune relazioni fallite, ma è qualcosa a cui sono aperto in futuro con la persona giusta», ha detto Gordy.
«Ci vorrà qualcuno di speciale per accettarmi per quello che faccio. Stavo per rivolgermi a una banca del seme, ma mi è sembrato così freddo e clinico».
Michael Cook
Arte
Karate e assenza del padre. Renovatio 21 recensisce Cobra Kai

L’inevitabilità di Karate Kid: chiunque sia nato negli anni Settanta o nei primi Ottanta non può non essere passato attraverso il viaggio di Daniel LaRusso.
Vi sono tormentoni che sono rimasti attaccati in qualsiasi lingua il film fosse servito («dai la cera / togli la cera»), ci sono personaggi le cui fisionomie (il crudele biondo figlio di papà, il cattivo maestro militarista, la bella ragazzina di cuore, la madre single scombiccherata) sono rimaste per sempre con noi.
Per quanto in molti non lo possano riconoscere (ma il Box Office sì), il film aveva in sé qualcosa di irresistibile, un ingrediente magico, un elemento che sincronizzava questo high school movie basato (molto vagamente) sulle arti marziali con il sentire collettivo.
Per anni, ammettiamo, non abbiamo capito cosa fosse.
Ora, la serie Cobra Kai ha dato una risposta. Lucida e più dolorosa del previsto, in un universo che diverte e spaventa, e forse spezza un po’ il cuore.
Karate Kid: bullismo e morale
Cobrai Kai è nato nel 2018 come produzione di YouTube Red (oggi YouTube Premium) e poi migrato su Netflix, dove si attende per fine 2021 la quarta stagione. È il seguito di Karate Kid (1984), in particolare il primo film, quello che termina con il celeberrimo calcio a gru di Daniel LaRusso (Ralph Macchio) su Johnny Lawrence (William Zabka). Tuttavia, nel corso della serie emergono rimandi concreti alle storie anche dei meno fortunati seguiti, storie che sono trattate talmente bene che vengono addirittura risolte, spostate su un livello narrativo e soprattutto morale più alto.
Cobra Kai, dichiarando qual era il vero tema di Karate Kid, innalza tutto il suo universo, lo rende un’opera di riflessione altissima, di fatto raramente tentata in ambito audiovisivo, soprattutto americano – perché tutto si incentra sul tema dell’assenza del padre e i suoi effetti devastanti sulla società. Perché racconta e analizza senza pudori il bisogno della gioventù di ricevere un’iniziazione che è ora perduta a causa della mancanza di chi l’iniziazione, nei millenni, l’ha officiata: la figura paterna.
Cobra Kai, dichiarando qual era il vero tema di Karate Kid, innalza tutto il suo universo, lo rende un’opera di riflessione altissima, di fatto raramente tentata in ambito audiovisivo, soprattutto americano – perché tutto si incentra sul tema dell’assenza del padre e i suoi effetti devastanti sulla società
Vi era stato un video di YouTube molto popolare che anni addietro tentava, e con un certo successo, di rovesciare la storia di Karate Kid. Era Daniel, e non Johnny, il vero bullo.
Daniel ruba al legittimo campione la ragazza. Daniel lo provoca sulla spiaggia e accende uno scontro in cui Johnny non fa che difendersi. Daniel umilia Johnny ad Halloween rovinandogli con l’acqua il costume. Poi quando passa il segno, Daniel si fa difendere dal «child batterer» («picchiatore di bambini») signor Miyagi, il quale è accusato anche di praticare la stregoneria visto che riesce a rimettere in piedi il ragazzo anche dopo un grave infortunio alla gamba. E alla fine, se ricordate, a dare il premio a Daniel è proprio Johnny, il difensore del titolo, che ammette la sconfitta e gli consegna il coppa.
Se ci pensate, ha tutto senso. Devono averlo pensato anche Jon Hurwitz e Hayden Schlossberg, i creatori della serie, che hanno anche loro ribaltato l’assunto hollywoodiano: lo stronzo in realtà era proprio LaRusso, e Johnny era in fondo un bravo ragazzo, anche se imperfetto, come tutti gli eroi.
Cobra Kai e il sacrificio del padre assente
Da qui parte la storia di Cobra Kai, che è la storia, in particolare, di Johnny Lawrence. Sono passati 34 anni da quella finale del torneo di karate, e la sua esistenza è quella di un loser totale. Vive con lavoretti manuali. La ricchezza che sfoggiava nel primo film, apprendiamo, non era la sua, ma del patrigno (perché anche lui, scopriamo ora, era senza un vero padre), che odiava quanto amava sua madre. Non ha interessi particolari, non ha hobby, non ha vere opinioni, né relazioni forti. Si mette sempre nei guai, perché non conosce materialmente le regole del politicamente corretto (cosa davvero pazzesca per un eroe di una fiction moderna). Non è aggiornato su nulla, non ha uno smartphone e nemmeno conosce internet. Ha passato tutti gli anni Novanta, dice, andando a troppi party. Ha incontrato le donne sbagliate, ma in realtà, nel suo stupore di sconfitto alcolico, non ne soffre nemmeno troppo. Dorme in un tugurio nello stesso quartieraccio da cui proveniva Daniel, la sera si sfonda di birra, raccolta da un frigo vuoto, guardando programmi-spazzatura in TV, dove però abbondano gli spot di Daniel LaRusso.
Il quale invece ha fatto i soldoni, è diventato un grande concessionario di auto, un uomo importante, rispettato nella comunità degli abbienti losangelini. Daniel ha messo su famiglia: una figlia irrequieta che è, in un suo modo insopportabile, promiscua e combinaguai. Un figlio dipendente dai videogame che per la storia è al momento irrilevante (anche se prima o poi partirà una riflessione sulla paternità anche lì…).
Johnny è quello che in America chiamano un deadbeat dad, un padre fannullone, uno di quelli che a seguito della separazione comincia lentamente a sparire dalla vita dei figli, solo per comparire raramente e per cose futili
Anche Johnny ha un figlio: ma anche questo è un elemento, forse il maggiore, del suo fallimento. Johnny è quello che in America chiamano un deadbeat dad, un padre fannullone, uno di quelli che a seguito della separazione comincia lentamente a sparire dalla vita dei figli, solo per comparire raramente e per cose futili.
In definitiva: Johnny Lawrence stesso è diventato un padre assente. La storia di Cobra Kai è quella del suo riscatto: perché – è il messaggio illuminante che si può e si deve portare nell’orrore della società della disgregazione familiare – dietro ad ogni uomo fallito c’è un uomo, dietro ad ogni padre assente può esserci un padre. La trasformazione, come nel karate, avviene solo attraverso il dolore e il sacrificio – e l’esercizio.
La sindrome dell’abbandono americano
Il tema non è da poco. La quantità impressionante di divorzi in America , secondo alcuni, produce persone insicure ed irrisolte: sono in molti a raccontare dei figli degli innumeri divorzi americani come possibili prede della cosiddetta sindrome dell’abbandono, un complesso psicologico di angoscia che i propri legami affettivi svaniscano.
La sindrome dell’abbandono, per alcuni, è uno dei tratti psicologici specifici non solo dell’America come società, ma perfino della politica USA.
La sindrome dell’abbandono, per alcuni, è uno dei tratti psicologici specifici non solo dell’America come società, ma perfino della politica USA
Reazioni violente, per le quali ci si basa su indizi superficiali e di cui non si calcolano le conseguenze a lungo termine, possono essere lette come la matrice delle tantissime disastrose operazioni militari internazionali condotte da Washington.
Nel mondo dove la realtà ultima è l’abbandono, ogni manchevolezza di una controparte è letta come un messaggio di terminazione del rapporto. Con conseguente senso di angoscia da far cessare il prima possibile. Tutti potete riconoscere le storie di quei tanti dittatori passati dall’essere cocchi USA a divenire nemici globali eliminati senza pietà – e talvolta senza ragione.
Gli homeless: l’altra faccia del sogno americano
L’abbandono ha negli USA una sua visibilissima tipologia di cittadino specifica: quella degli homeless. I barboni costituiscono, in città come Los Angeles, una percentuale considerevole della popolazione umana. Come noto, uno dei motivi del grande esodo dalla California da parte di certa classe media (di tutti i partiti e morfologie) è la soverchiante presenza di homeless che oramai lambiscono le aree residenziali e rendono impraticabili centri cittadini un tempo sereni, e che ora versano, appunto, in stato di abbandono.
Gli homeless sono decisamente l’altra faccia del sogno americano: non più ascrivibili alla triade lavoro-benessere-famiglia, ma disoccupazione-miseria-solitudine.
Gli homeless sono decisamente l’altra faccia del sogno americano: non più ascrivibili alla triade lavoro-benessere-famiglia, ma disoccupazione-miseria-solitudine.
Essi sono il volto stesso dell’abbandono, in quanto sono stati piantati dalla rete sociale fatta dalla famiglia, dalla professione e dallo Stato, dal senso stesso del mondo come comunità umana. Essi agiscono da promemoria del collasso sociale, e al contempo, per gli americani, sono grandi segnali visibili di cosa può accaderti se non fai attenzione: basta poco, dicono in USA, per passare dalla classe media al mondo dei senzatetto. Una malattia che magari produce un conto di un ospedale andato fuori controllo, una causa, un divorzio, oppure la dipendenza dagli antidolorifici oppioidi (indotta dalle case farmaceutiche ora per questo condannate)…
È significativo che nel primo episodio della prima stagione dei ragazzini bulli chiamino homie (diminutivo dispregiativo di homeless) il povero Johnny, seduto su un marciapiede con la sua camicia a quadrettoni e un pezzo di pizza al trancio come cena.
Robert Bly e il crollo dell’iniziazione maschile
Scavando più sotto ancora del tema dell’abbandono, troviamo vivissimo quello del maschio, cresciuto a metà a causa dell’assenza del padre e quindi incastrato in un meccanismo di perpetuazione di esistenze incomplete. Si tratta di una riflessione profondissima, ancora più tabuizzata della precedente su divorzio e abbandono, che però è giusto demandare, quantomeno, all’arte.
Infatti, colui che ha trattato con più energia e lucidità l’argomento non è un sociologo, un filosofo, uno psichiatra, ma un poeta: Robert Bly. Oltre alla sua attività di scrittore di versi, il pacifista Bly, influenzato da Carl Gustav Jung (di cui supera pragmaticamente le teorie), ha scritto saggi di spessore e creato un movimento chiamato Mythopoetic Men’s Movement. Il pensiero di Bly riguarda la crisi del maschio contemporaneo, causato, secondo il poeta, dal fatto che gli adolescenti oggi sono «non guidati» verso l’età adulta – da qui il titolo di un suo libro, La società degli eterni adolescenti – a causa dell’assenza delle funzioni paterne.
La scomparsa della figura paterna crea la parallela scomparsa del rito di passaggio: il ragazzo non sa esattamente quando diventa adulto, né probabilmente lo vuole diventare
La scomparsa della figura paterna crea la parallela scomparsa del rito di passaggio: il ragazzo non sa esattamente quando diventa adulto, né probabilmente lo vuole diventare. Interrotta l’iniziazione paterna, gli individui – come Johnny Lawrence – restano invischiati in un limbo che porta necessariamente al caos. La droga, la depressione, la delinquenza, il suicidio, le turbe maschili, tutti deriverebbero dallo spegnimento della tradizione di padre in figlio e dall’instaurarsi di una società orizzontale che Bly chiama «società fraterna».
I mezzo-adulti, dice Bly, avranno quindi difficoltà nel lavoro e nella vita famigliare – perché non sono formati alla responsabilità, intrappolati come sono tra l’infanzia e l’età matura. Ciò li porta a poter divenire, salvo sacrificio e trasformazione, dei padri assenti, dei padri di figli che non cresceranno mai del tutto.
Fight Club è un Karate Kid che non ce l’ha fatta
La più grande illustrazione del pensiero di Bly è stata, non si sa quanto volontariamente, la storia di Fight Club, un romanzo e una pellicola epocali.
L’autore della storia, Chuck Palahniuk, in un’intervista dichiarò che avrebbe scoperto solo poi il pensiero di Bly, e quanto profondamente esso rispecchiava il suo racconto, in parte autobiografico. Ricorderete la scena: il narratore (nella pellicola, Edward Norton) fa un bilancio esistenziale con Tyler Durden (Brad Pitt) mentre, pieni di lividi, riposano in bagno.
«Io non conosco mio padre. Insomma, lo conosco, ma se n’è andato via quando avevo sei anni. Ha sposato un’altra donna, ha avuto altri figli. Lo fa ogni sei anni: va in una nuova città e mette su una nuova famiglia» dice il protagonista.
Interrotta l’iniziazione paterna, gli individui – come Johnny Lawrence – restano invischiati in un limbo che porta necessariamente al caos
«Il cazzone ha aumentato le filiali! Il mio non ha fatto l’università, perciò era essenziale che ci andassi io» risponde Tyler Durden. «Così mi laureo, gli faccio un’interurbana e gli dico: papà, e adesso? E lui: trovati un lavoro!»
«Stessa cosa!»
«A venticinque anni faccio la mia telefonata annuale e gli dico: papà, e adesso? E lui: non lo so, vedi di sposarti!» continua Pitt.
Norton risponde: «Non puoi sposarti. Sei un bambino di 30 anni».
«Siamo una generazione cresciuta dalle donne. Mi chiedo se un’altra donna sia davvero la risposta».
Fight Club era l’urlo, sardonico quanto sadico, lucido quanto distruttivo, della crisi del maschio americano in quanto orfano di padre.
La droga, la depressione, la delinquenza, il suicidio, le turbe maschili, tutti deriverebbero dallo spegnimento della tradizione di padre in figlio e dall’instaurarsi di una società orizzontale che Bly chiama «società fraterna»
Cobra Kai è un Fight Club inserito in una teen comedy, dove la soluzione non è il rovesciamento della società a partire dall’abbattimento dei palazzi del danaro (non una brutta idea, in realtà) ma la ricerca della possibilità di una ricomposizione di umanità tradizionale tra padri e figli – e la conseguente guarigione della società tutta.
Ci abbiamo messo decenni, ma alla fine lo abbiamo capito. Karate Kid, ancora quasi 40 anni fa, parlava solo di questo: l’accesso ad un percorso di iniziazione, la ricerca da parte di un orfano di un padre che gli trasmetta la conoscenza necessaria a sopravvivere e prosperare. Fight Club è la storia di un tizio che impazzisce perché non è riuscito a trovare un Mister Miyagi che gli facesse da padre.
In ognuna delle tre stagioni di Cobra Kai tutti questi temi sono scandagliati con dovizia, senza mai dare risposte facili.
Vittime WASP
La serie ha pure il pregio, davvero prezioso, di tentare di andare oltre al politicamente corretto: il protagonista usa talvolta parole e modi etnicamente sbagliati, ma nessuno lo «cancella» – anzi, le stesse minoranze, bullizzate, ne rispettano l’autenticità.
I bulli, del resto, non sono più gli WASP, biondi e ricchi, un tempo unici residenti delle colline dell’upper class: sono insiemi di fighetti interetnici dove il più odioso è un asiatico, che nella sua boria mai ha pensato alle arti marziali. Anche questo contribuisce a fare di Cobra KaI una sagace riflessione sui cambiamenti sociali e sui tabù dell’America woke, come la «cultural appropriation» (cioè, la proibizione da parte di una cultura, specie quella bianca, di usare temi e costumi di un’altra), il cui spettro potrebbe rendere proibite storie come questa da un momento all’altro.
Karate Kid, ancora quasi 40 anni fa, parlava solo di questo: l’accesso ad un percorso di iniziazione, la ricerca da parte di un orfano di un padre che gli trasmetta la conoscenza necessaria a sopravvivere e prosperare
Non è sociopoliticamente banale il rovesciamento sociale che viene messo in scena, ed indagato in più episodi: la classe dominante degli anni Ottanta (gli WASP che schifavano l’italiano del New Jersey, doppiamente immigrato e incontrovertibilmente tamarro – Jersey Shore docet) è interamente decaduta, ridotta addirittura al ruolo di forgotten men, o di quasi homeless.
Anche qui: il biondo ciuffo – non quello di Johnny, ma di Donald Trump – è dietro ogni angolo…
Cobra Kai, una serie che è impossibile non amare
Cobra Kai è spassoso per diverse ragioni, e il suo appeal va ben al di là dei nostalgici del vecchio film (che sono qui anche presi per i fondelli tramite il memorabile personaggio, apparso nella stagione 2, di Sting Ray).
È difficile non farsi quattro risate vedendo le disavventure del gruppone di personaggi, come al contempo è impossibile rimanere impassibili dinanzi alle umiliazioni che devono subire e al dramma interiore del protagonista.
È impossibile non amare questa serie. Molti si possono vergognare ad iniziarla, perché in fondo sembra proprio un prodotto per adolescenti, e in larga parte lo è. Tuttavia nessuno di coloro che ha cominciato si è pentito.
Bill Burr, il grande comico americano noto per le sue battute abrasive, si è speso varie volte, in podcast e trasmissioni TV, a decantare la qualità suprema di questa serie. «Non posso dirvi abbastanza quanto sia grande questa serie. È così fottutamente interessante… è tutto: è drammatica, prende in giro se stessa, è spassosa, è triste, ti fa pensare… I just fucking love it».
Ci ha ragione. È davvero raro trovare qualcosa che, con estrema levità e pure capacità di farti ghignare, può parlare del dramma interiore di due generazioni, e quindi della tragedia sottotraccia di un’intera nazione.
Articolo previamente apparso su Mondoserie.it
Immagine screenshot da Youtube pubblicata su Fair Use
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