Civiltà
Rivolte «antirazziste»? No, lotta contro la figura paterna

Dietro alla furia iconoclasta che vuole distruggere le statue non c’è una ideologia, ma lo sfogo violento contro chi ha costruito il mondo – cioè contro il padre. Una figura che a quei ragazzi forse è pure mancata completamente.
Non lasciamo correre il poderoso editoriale del professore Claudio Risé, apparso sul quotidiano La Verità domenica 28 giugno.
«Negli sfregi, mutilazioni, distruzioni dei monumenti, chi li compie è posseduto da una feroce spinta distruttiva contro qualcosa di forte, stabile: come appunto la statua e la vita della persona cui è dedicata. È una disperata protesta contro chi è stato capace di fare e cambiare il mondo e durare nel tempo».
«È una disperata protesta contro chi è stato capace di fare e cambiare il mondo e durare nel tempo»
Risé parla di una maschera ideologica fatta calare surretiziamente su questi «accessi di follia distruttiva» presentati talvolta come «una buona pratica» culturale o ideologica (per esempio, sindaco e procuratore distrettuale hanno sostenuto le proteste minacciando invece di perseguire quanti si stavano organizzando per difendere la statua di Cristoforo Colombo!) mentre in realtà « qui non siamo neppure nel campo delle suggestioni generiche o delle nevrosi, ma proprio delle psicosi. In questi episodi chi conquista la piazza, venendo pubblicamente omaggiata e portata ad esempio, è la follia di distruzione verso la vita e le sue manifestazioni nella storia e nella società».
«Per apprezzare il passato occorre essere stati iniziati a prove sufficientemente dure e complesse da riattivare le capacità sviluppate dagli antenati nel costruirlo»
Una distruzione della vita che vediamo ovunque in questa era buia della Civiltà pervasa dalla Necrocultura: l’uomo tende più alla morte che alla vita.
«Perché si scatena questo autolesionismo e cosa lo provoca? Sono (anche oggi) le società malate e in decadenza a non reggere il rapporto con la loro grandezza passata, la loro storia. Per apprezzare il passato occorre essere stati iniziati a prove sufficientemente dure e complesse da riattivare le capacità sviluppate dagli antenati nel costruirlo».
«Questo è appunto il dramma dell’Occidente contemporaneo. Abbiamo statue, ma non vogliamo più fare battaglie e sforzi, neppure simboliche, che consentano un contatto vivo con quelle esperienze»
Il significato di quelle statue, il sacrificio di quegli uomini che hanno dedicato la vita – talvolta la hanno persa – per un ideale, non è qualcosa di comprensibile per le masse cresciute con la mancanza della figura paterna – e del rispetto dell’autorità.
«La trasmissione declamatoria, la statua proposta senza che chi la guarda abbia mai dovuto sperimentare uno sforzo simile a quello di chi in essa è rappresentato, è una celebrazione vuota, una rendita parassitaria che non educa chi la riceve, ma anzi lo mette a disagio. Questo è appunto il dramma dell’Occidente contemporaneo. Abbiamo statue, ma non vogliamo più fare battaglie e sforzi, neppure simboliche, che consentano un contatto vivo con quelle esperienze».
«Questo è appunto il dramma dell’Occidente contemporaneo. Abbiamo statue, ma non vogliamo più fare battaglie e sforzi, neppure simboliche, che consentano un contatto vivo con quelle esperienze»
È un osceno consumismo dei segni, la superficialità totale di pensare che dietro ad una statua non ci sia niente. A nostro avviso si può parlare apertamente di ritorno della barbarie.
È possibile vedere come nei millenni questa dinamica fosse conosciuta all’uomo, visto che era analizzata anche dagli antichi. «Orazio, parlando del passaggio dalla Grecia a Roma, sottolineava come il trasferimento del potere (translatio imperi) richiedesse anche il trasferimento del sapere (translatio studi)» scrive Risé.
«A questi demolitori di statue però non è stato trasferito il sapere, le conoscenze, esperienze e abilità, di chi è raffigurato nella statua. L’iconoclasta, più o meno consciamente, lo sente, e ne soffre; anche per questo regredisce nell’atto psicotico, la protesta infantile che precede qualsiasi formazione dell’Io, e attacca la statua. E la società continua nella sua trasmissione di ignoranza, presentando il proprio impoverimento come fosse un’azione culturale».
«E la società continua nella sua trasmissione di ignoranza, presentando il proprio impoverimento come fosse un’azione culturale»
Il mondo moderno invece non ha capito questo meccanismo, anzi lo riproduce e lo sanziona oramai come fatto positivo.
«Lo stesso fenomeno accade nelle famiglie: solo i discendenti che si sono formati con una buona dose di fatica e disciplina nell’azione apprezzano e accettano il valore degli antenati. Come mostrano bene le due forme presenti nella decadenza attuale: il relativismo cinico accompagnato da una dittatura pavida (quella che nella Grecia antica manda a morte Socrate accusandolo di corrompere i giovani».
«Lo stesso fenomeno accade nelle famiglie: solo i discendenti che si sono formati con una buona dose di fatica e disciplina nell’azione apprezzano e accettano il valore degli antenati»
«Naturalmente il razzismo non c’entra nulla: è la scusa usata per liberarsi della propria storia, imbarazzante non perché scandalosa o immorale, ma perché troppo impegnativa (anche dal punto di vista etico, della riflessione seria, non di maniera, sul bene e sul male».
Si tratta insomma dell’«urlo psicotico di una generazione imbarazzata dalla storia impegnativa a cui appartiene. Si tratta della «forma assunta nel nuovo millennio dalla “rivolta contro il padre” lancianta cinquant’anni fa».
Dopo il 1945 «al posto della storia chi tornò dalla guerra trovò pronta un’altra narrazione, onnipresente, che spiegava tutto, condizionava tutto e rimuoveva tutto ciò che non riconoscesse il suo primato: l’economia
Le basi sono state gettate dopo la II Guerra Mondiale, quando «non c’è più stato spazio per la storia degli uomini, i loro ideali, le loro speranze e passioni, i loro scontri e i loro incontri. Al posto della storia chi tornò dalla guerra trovò pronta un’altra narrazione, onnipresente, che spiegava tutto, condizionava tutto e rimuoveva tutto ciò che non riconoscesse il suo primato: l’economia (assieme alla tecnica, le grandi vincitrici del conflitto). Era quello ciò che importava, il centro della vita occidentale: la produzione, il guadagno procurato dal consumo; tutto il resto non aveva più importanza».
Della forma perversa di questo primato del consumo siamo testimoni quando vediamo che le rivolte in USA si trasformano in saccheggi di negozi di elettrodomestici o scarpe da ginnastica.
«La decapitazione della storia occidentale, ristretta ora in un modello di sviluppo materno, centrato sul consumo e la soddisfazione dei bisogni (da moltiplicare continuamente, anche con le invenzioni della tecnica) comincia allora».
«La decapitazione della storia occidentale, ristretta ora in un modello di sviluppo materno, centrato sul consumo e la soddisfazione dei bisogni (da moltiplicare continuamente, anche con le invenzioni della tecnica) comincia allora»
Il ritorno ad una forma anche crudele di matriarcato è visibile nei tanti discorsi ultrafemministi che stiamo vedendo in questi mesi, con casi – alcuni pure indagati dagli inquirenti – dove il patriarcato è considerato nemico assoluto da abbattere ferocemente per poi rifondare una nuova civiltà matriarcale che cancelli completamente il mondo precedente e tutta la sua storia.
«Manca – scrive Risé parlando della situazione attuale – la storia, il passato, il padre (quello terreno e quello celeste). Il percorso accidentato e tormentato, ma bellissimo, dall’ebraismo alla Grecia a Cristo, al mondo romano, al Medio Evo, Rinascimento e conquista del mondo da parte di questo piccolissimo continente che è la nostra terra».
«Mancano padri che ti mostrino la strada fatta, e ti insegnino ad andare avanti, con coraggio e fatica. Per questo i figli, ormai privi di un’identità, e quindi di speranze, abbattono le statue dei padri del passato. Per invidia, debolezza, rabbia, disperazione. Per nostalgia per quell’indispensabile figura (oggi «scorretta» e accantonata). Senza la quale non si può vivere».
«Mancano padri che ti mostrino la strada fatta, e ti insegnino ad andare avanti, con coraggio e fatica. Per questo i figli, ormai privi di un’identità, e quindi di speranze, abbattono le statue dei padri del passato. Per invidia, debolezza, rabbia, disperazione. Per nostalgia per quell’indispensabile figura (oggi «scorretta» e accantonata). Senza la quale non si può vivere»
Sono parole da meditare profondamente.
Una società senza padre è una società sprotetta, alla mercé di tutto, di sé stessa e delle sue pulsioni, e soprattutto delle trame degli Oligarchi della morte.
Una società senza difese è una società dove non solo le statue vengono abbattute, ma, a breve, gli esseri umani.
Uccidere i padri significa distruggere la famiglia rendendola debole e indifesa. Uccidere i padri è un passo da fare per il ritorno del sacrificio umano.
Arte
Leggere Dostoevskij per comprendere il presente (e anche il futuro)

Lo spettacolo indecoroso cui stiamo assistendo non è inedito, anche perché i suoi ingredienti fondamentali ne fanno solo una replica – con qualche sostituzione degli attori nelle parti secondarie – di quello a cui assisteva con sconsolata lucidità Dostoevskij, e che annotava nel suo Diario.
Aveva sotto gli occhi l’ingrossarsi come un fiume in piena della «questione d’Oriente». Quando cioè centinaia di migliaia di cristiani venivano massacrati nella indifferenza delle potenze occidentali concentrate nell’accaparramento di propri vantaggi territoriali dalla dissoluzione dell’impero turco, e quindi quasi ansiose che la pulizia etnico religiosa fosse portata a termine, quale arma di contenimento della Russia. Questa, infatti, una volta tolto di mezzo l’Impero Ottomano «si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà».
«Si mentiva spudoratamente su tutto, allo scopo di eccitare all’odio le masse del popolo non contro i massacratori musulmani, ma contro il presunto imminente nemico».
Così come oggi, per bocca di mentitori seriali televisivi, la guerra travestita e preparata dagli Stati Uniti su una terra di confine, per avviare la guerra contro la Russia, capovolge fatti e responsabilità.
«E per di più in Europa si negano i fatti», scriveva il nostro autore, «li si smentiscono nei Parlamenti, non si crede, si fa finta di non credere: no, non è successo, è esagerato, sono loro stessi, i bulgari, che hanno trucidato sessantamila dei loro per accusare i turchi». Forse prendendo spunto dal memorabile «Eccellenza, Lei si è frustata da sé» che si legge nell’Ispettore generale di Gogol’.
Lo stesso paradosso che non solo viene servito con imperturbabile sfrontatezza dai cucinieri occidentali e dai loro alleati ad est, ma anche digerito beotamente dalle moltitudini teleemancipate. Non per nulla, e per l’eterno ritorno dell’uguale, a queste, comprese forse anche quelle tedesche, è apparso subito evidente che, con straordinario slancio autopunitivo, anche i gasdotti siano stati messi fuori uso dai legittimi proprietari, come le popolazioni russofone del Donbass si siano state autoperseguitate e uccise nel corso di quasi un decennio. Tutti del resto conosciamo una vecchia metafora un po’ scabrosa su certe possibili vendette coniugali autolesioniste che è sconveniente citare per esteso.
In quei fatti Dostoevskij ravvisava «l’ultima parola di una civiltà dopo diciotto secoli di evoluzione, di tutta quella umanizzazione del genere umano per cui l’Europa ha distrutto il commercio dei negrieri e il dispotismo, ha proclamato i diritti dell’uomo, creato la scienza, celebrato l’anima umana con l’arte, promesso agli uomini giustizia e verità, per poi voltare le spalle ai cristiani massacrati per ordine del sultano».
Del resto, vale la pena di ricordare come qualche decennio dopo quei fatti, con lo stesso cinismo, gli evoluti occidentali abbiano voltato le spalle anche di fronte al genocidio armeno sul quale rimane steso a distanza di più di un secolo un imbarazzante e imbarazzato silenzio, a fronte del clamore attivato su quello hitleriano, almeno finché il suo ricordo è tornato utile. Infatti, ora anche Auschwitz rischia di tornare in penombra perché, se da un lato i tedeschi hanno interiorizzato la colpa fino a cambiare pelle, mettere da parte ogni orgoglio e memoria identitaria, per adattarsi infine anche alla nuova povertà energetica ed economica, dall’altro il nuovo nazismo ucraino a uso e consumo angloamericano viene alimentato e potenziato in vista di una nuova ma da sempre vagheggiata operazione Barbarossa.
È il nazismo esibito impunemente sul petto da un signore in visita al vescovo di Roma insieme a un plotone di commilitoni in tuta mimetica, secondo la nuovissima etichetta approvata dalla Segreteria di Stato Vaticana. Una aggiornata etichetta nazionalpopolare che ha esteso il bianco, riservato da secoli alle regine cattoliche in visita al pontefice, anche a quelle delle borgate romane rappresentate per competenza territoriale dalla disinvolta signora Giorgia.
Ma leggiamo ancora nel Diario: «da che deriva tutto ciò? Perché non si vuol vedere, sentire, e si mente? perché si getta del fango su se stessi? È perché c’è di mezzo la Russia. Infatti, la Russia disturba, è colpevole di essere la Russia, che come un’orda barbarica si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà, quella civiltà, appunto, che ad un tratto si è rivela un bluff»
Dunque, nulla pare cambiato da allora. E la civiltà è quella che è capace di sequestrare le opere d’arte dell’Hermitage in prestito alle gallerie occidentali. Di impossessarsi indebitamente dei beni privati e dei depositi bancari dei cittadini russi. Che ha sottoscritto trattati di pace solo allo scopo di ingannare strategicamente la controparte, trasgredendo la sola regola cogente vantata dal vantato diritto internazionale elaborato dalla civiltà occidentale, ovvero il pacta sunt servanda. Mentre questa stessa regola rimane «intangibile» per continuare a stringere al collo gli inermi sudditi europei imprigionati a Maastrichtt.
Ma occorre essere realisti. Ha vinto a tutto campo l’utilitarismo anglosassone, versione plebea e becera del fine che giustifica i mezzi adottato anche dagli ottusi abitatori continentali delle istituzioni europee, forniti o meno di titoli nobiliari o accademici che non impediscono di fare affari milionari privati con tutti i malfattori transatlantici, a spese dell’ignaro contribuente della stessa UE. Senza contare gli svizzeri che, dell’utilitarismo essendo i cultori assoluti, hanno messo l’armatura anche alla loro amata e proverbiale neutralità.
Del resto, la separazione tra politica ed etica, era problema antico e presente alla coscienza ben prima di Machiavelli che tuttavia, scriveva Croce, «scopre la necessità e l’autonomia della politica, che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta».
Anche se, aggiungeva, «quello che di solito non viene osservato, è l’acre amarezza con la quale il Machiavelli accompagna questa asserzione della politica e della sua necessità».
Infatti, in ogni caso, l’utilità del tranello e della strage di Senigallia ordita dal duca Valentino si iscrive, nelle intenzioni dell’autore, nell’utile ma non certo nell’onore.
Come nel caso di Remirro de Orco, luogotenente del duca, che pacificata la regione per mezzo di inaudite efferatezze, fu messo una mattina sulla piazza di Cesena «in due parti con un coltello sanguinoso a lato sicché i cittadini rimasero satisfatti e stupidi».
Possiamo inoltre osservare come la stessa politica internazionale abbia uno statuto «etico» a sua volta differenziato anche rispetto a quello della politica interna. Si tratta di una diversità venuta a formarsi spontaneamente per la diversità degli interessi e degli obiettivi in gioco, che sono, anzi dovrebbero essere, in una visione ideale, la pacifica convivenza fra i popoli da un lato, e il bene della comunità nazionale dall’altro.
Ma anche questa differenza cade, quando, come oggi, le nazioni europee, non più indipendenti e sovrane, non godono più di autonomia politica perché in stato di vassallaggio rispetto gli Stati Uniti, non solo dal punto di vista militare, ma anche, tramite l’UE che ne è la longa manus, per le direttive educative, culturali, economiche e «ideologiche». Sicché neppure di vassallaggio è corretto parlare, quanto di totale, mortificante asservimento.
Ma Dostoevskij, a partire dalla autonomia di fatto riconosciuta proprio della politica internazionale, fa un passo ulteriore. Egli non era di certo un ingenuo e sprovveduto idealista incapace di afferrare il problema filosofico della doppia moralità che segna rispettivamente il proprium della politica e della vita individuale.
Tuttavia, si chiede: «Dove sono le verità conquistate con tante sofferenze? Basta una causa pratica, e tutto vola via?».
Infatti, aveva ben presente quello che Machiavelli non poteva ancora prendere in considerazione perché venuto dopo di lui. Tutto il lavorio di pensiero, tutta quella riflessione sulla realtà della politica, e tutti quei fatti storici che avevano portato, attraverso un travaglio interconnesso di eventi e di idee, alla concezione dello stato moderno e alle altre conquiste di cui si fregia il pensiero politico della cosiddetta civiltà occidentale.
Quella approdata poi malamente alla vuota retorica sui diritti, sulla democrazia, sulla coesistenza pacifica, sulla libertà e l’uguaglianza, sullo stato di diritto, sulla protezione delle minoranze, e chi più ne ha più ne metta, ovvero su tutta una congerie di parole prive di senso vero che servono a mascherare l’involuzione verso il rinnegamento di quello che era stato venduto, ma anche sentito dalle masse, come progresso.
Così leggiamo ancora nel Diario:
«Tuttavia non è neppure giustificato rimanere attestati sul piano brutale del doppio binario e non elevarsi ad un piano speculativo più alto e convincente. Infatti, con questo riconoscimento della santità degli interessi correnti, del guadagno diretto e immediato, del diritto di sputare sull’onore e la coscienza pur di strappare per sé un fiocco di lana, si può andare di certo molto lontani. Ma solo i vantaggi pratici, solo i guadagni correnti rappresentano il vantaggio vero di una nazione e la sua politica “alta”? Al contrario, non è per una grande nazione proprio questa politica dell’onore, della magnanimità e della giustizia la migliore politica, anche se apparentemente in contrasto, ma in realtà non in contrasto, con i suoi interessi? La politica del disinteresse e dell’onore, ovvero le idee grandi e oneste sono quelle che trionfano alla fine nei popoli e nelle nazioni. La politica dell’onore e del disinteresse non è soltanto la più nobile ma forse anche la più vantaggiosa per una grande nazione, appunto perché nobile… mentre il continuo gettarsi di qua e di là, dove è più vantaggioso, riduce uno stato alla meschinità, alla interiore impotenza».
Non avrebbe dovuto essere questo il nuovo traguardo della civilizzazione almeno per l’Europa?
E ripudiare quelle leggi belluine per cui anche Machiavelli sentiva disgusto? Dopo gli esiti osceni di una rivoluzione approdata nella follia e nelle rapine napoleoniche, dopo le guerre fratricide e i crimini del colonialismo?
Ma quell’auspicio era utopistico e la contraddizione è risultata ben più paradossale, perché siamo approdati ad un grado allora inimmaginabile di dissennata disumanizzazione, con le immani tragedie e le oscenità in cui è sfociato nel Novecento il miraggio e la presunzione del progresso dell’umanità, nella degenerazione e nella contraddizione delle idee che avrebbe dovuto assicurarlo.
L’Europa è stata risucchiata dentro la egemonia tentacolare statunitense in cambio della distruzione materiale subita, mentre la sbandierata democrazia indigena o di importazione si è trasformata nel dispotismo formalmente autorizzato, modello 1933. E sempre in virtù di un trasformismo indisturbato, ora, dopo ottant’anni di pacifismo di facciata, interrotto senza remore ogni volta che un potere egemone lo ha deciso, dopo ogni tipo di inganno perpetrato ai danni della popolazione inerme in balia delle oligarchie anglosassoni, si getta a capofitto nella guerra che queste hanno programmato ad hoc.
Oligarchie tentacolari e aperte ad ogni corruttela, guidate dall’utilitarismo e dalla volontà di potenza che possono sfoggiare impunemente in ogni sorta di menzogna, in ogni rovesciamento di principi prima sbandierati, in ogni falsa morale e farisaica decisione, ogni tradimento e ogni meschinità, ogni intento distruttivo senza pudore e senza assunzione di responsabilità, dietro varie maschere di scena.
Come quelle andate a commemorare senza ritegno le vittime della bomba atomica insieme a chi quella bomba non si vergogna di averla sganciata e di quell’orrore non si è mai pentito. Un quadro desolante che sembrava impensabile, quello dei due tristi figuri, l’europea e l’americano insieme, in mezzo ad altrettanti tristi e meschini figuranti. Di cartapesta, si dirà, eppure in grado di muovere indisturbati i destini di infinite e irripetibili vite perché il gregge da cui traggono esistenza è stato debitamente narcotizzato e svirilizzato.
Le oligarchie dominanti hanno preso in mano il potere politico grazie alle degenerazioni del sistema democratico e rappresentativo, ma soprattutto alla riduzione preventiva delle capacità di comprensione e reazione dei sudditi. Di uomini a una dimensione, figurine piatte incollate nell’album della storia da burattinai capaci di tutto perché mancanti della coscienza propria degli uomini veri.
I politicanti e le politicanti che pullulano oggi nel prestigioso mondo occidentale, ovvero nel giardino fiorito di Borrell, di qua e di là dell’Oceano, prefigurano i pericolosi automi progettati per sollevare l’umanità residuale del futuro dalla fatica di vivere umanamente e di pensare.
Non per nulla quelle che erano un tempo le arti della diplomazia, disciplina troppo impegnativa per essere coltivata dalle menti deboli di automi semianalfabeti, sono state soppresse e sostituite da un vaniloquio che oscilla minacciosamente fra tracotanza, stupidità, e menzogna. Cosa che scopre la pericolosità di costoro e degli apparati in cui essi sono annidati.
Basti pensare alle dichiarazioni del sempre querulo Stoltenberg, che non perde mai nessuna occasione per mostrare la propria caratura. Esemplare il discorso recentissimo sull’avvicinamento ad una applicazione estensiva dell’articolo 5 del trattato della NATO.
Un capolavoro di ipocrisia farisaica per dire in soldoni che sulla lettera della norma prevarrà manu militari l’interpretazione, sicché tutti i firmatari saranno obbligati a partecipare anche con i propri eserciti alla guerra accanto alla Ucraina, anche se questa non fa parte della alleanza. Ovvero ha fatto balenare nella nebulosa truffaldina delle parole l’istituzione di fatto di una belligeranza diretta obbligatoria.
Più esplicito, nella volgarità della sua violenza primigenia, il ministro ucraino che dopo l’attentato di Lugansk dice: se non ci darete le armi che chiediamo, anche voi dovrete aspettarvi degli attentati. Cosa che penalmente parlando si chiama minaccia, ma la cui abnormità e volgarità sembrano non arrivare ad essere percepite come tali neppure da quanti dovrebbero avere dimestichezza, diretta o attraverso la filmografia, con il codice comunicativo e operativo delle varie cose nostre, gloria nazionale universalmente conosciuta ed esportata.
Ora, a proposito di tante manifestazioni eloquenti di un degrado generalizzato, di strumenti truffaldini della politica sempre più sfacciatamente ostentati, c’è da osservare che, a giustificare ogni aporia in nome della ragion di Stato, nell’epoca dell’azzeramento mediatico di ogni coscienza critica, la massa finisce per assorbire l’idea della normalità di quell’etica e di poterla fare propria anche nella vita quotidiana.
Se non si percepiscono più come tali la menzogna o il tradimento, il discorso truffaldino e il ricatto, l’obiettivo distruttivo nascosto o la falsificazione della realtà, anche perché genericamente normalizzati e dunque genericamente legittimati; se non li si inseriscono più neppure nel recinto chiuso di una politica che obbedisce ad un codice proprio e particolare, il passaggio verso l’assorbimento di quell’habitus nella morale corrente è quasi obbligato. Quell’etica deviata e particolare di cui non si vedono più la genesi e le articolazioni finisce per diventare moneta corrente anche al di fuori del recinto della politica e anzi diventa un modello accettabile per i rapporti privati arrivando a pervertire la coscienza individuale.
Dunque, inutile dire come, in un momento storico al quale non sappiamo neppure se ne potrà seguire realmente un altro, l’auspicio di Dostoevskij di una politica «alta», suoni inattuale. Quanto mai lontana e utopistica appare la possibilità della messa a frutto della ricchezza di storia accumulata dal pensiero occidentale, insieme ad una ininterrotta riflessione filosofica, e al patrimonio della spiritualità cristiana prima della sua contaminazione. Sembra impossibile in questo sfascio culturale, la sublimazione con cui la vita matura controlla gli eventi guardando al di là di ciò che è meschino e particolare, fasullo e insignificante da un orizzonte più ampio ed elevato.
Questo è il momento degli sciacalli e delle iene, o forse dei marabunta. E nell’avvento di animali superiori pare quasi impossibile anche poter sperare.
Tuttavia, non bisogna neppure dimenticare che anche i figuranti di cartapesta, per quanto nefasti, al pari del terribile giudice Morton nemico di Roger Rabbit, con un po’ di impegno e tanta fortuna potrebbero essere dissolti nel nulla proprio grazie alla loro reale inconsistenza.
Almeno in questo dobbiamo tornare a sperare, forse… anche al di là di ogni ragionevole dubbio!?
Patrizia Fermani
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
Civiltà
Perché oggi non dovremmo dirci occidentali

«Dico che la fine di una civiltà è per l’uomo la scena più satura di malinconia. La possibilità che una civiltà muoia duplica la nostra mortalità».
Ortega y Gasset
Non è un caso che l’interesse per il «tramonto dell’Occidente» si sia riacceso in modo particolare negli ultimi tempi di fronte a fenomeni straordinari come il dissolvimento della democrazia, o le degenerazioni del capitalismo, emersi ormai in tutta la loro impietosa realtà.
Infatti, la crisi ingloriosa della prima e certe conseguenze devastanti del secondo, dopo avere impegnato il pensiero politico e la filosofia della storia, sono risaliti con prepotenza anche alla coscienza comune perché è impossibile ignorarne la portata e le conseguenze.
Tuttavia, è anche fuorviante fissare l’attenzione soltanto su fenomeni, pur tanto significativi, che però si inseriscono in una ben più ampia crisi di civiltà, che vede lo stravolgimento della legge naturale e dei canoni più elementari e irrinunciabili dell’etica.
L’Occidente, erede della Civiltà antica, che dopo secoli di oblio rinacque forgiando una nuova Civiltà europea e modelli di valore universale, ha fatto perno sul cristianesimo ed è approdato poi all’illuminismo. E sulle conquiste e sui lasciti di tutta quella storia pregressa va misurata la gravità di una decadenza, che infatti si è presentata sia come deterioramento della dottrina e della morale cristiana, sia come degenerazione dei sistemi politici economici e sociali di cui il razionalismo illuministico aveva vantato la paternità.
Ma non si è trattato di parabole parallele, separate tra loro. Anche un pensatore laico, come Huizinga vedeva alla base di questo decadimento anzitutto quell’oblio delle norme morali derivato dall’«amoralismo filosofico», frutto estremo dell’illuminismo che «con la negazione della morale cristiana indusse anche la negazione della morale borghese». Era quanto, con esemplare chiarezza di pensiero e di parole, aveva avvertito e presagito Pio X nella Pascendi, prima che fosse lanciato al mondo l’annuncio nichilistico della morte di Dio.
Poi due guerre di annientamento diedero forma tragica al tramonto dell’Occidente che emerse con il volto definitivamente sfigurato dalle macerie di tali immani catastrofi. Tuttavia, anche allora non mancarono quelli ancora convinti che una Civiltà tanto ricca di tradizione e di capacità creative, avrebbe potuto ritrovare, «oltre la linea» estrema del degrado, una nuova aurora.
Invece, consumate le illusioni tratte dal nuovo benessere, il decadimento morale, culturale, politico, economico e religioso ha subito in pochi decenni una tale accelerazione da far apparire il processo come ormai inarrestabile.
Questa volta però ad oscurare un nuovo orizzonte non sono stati soltanto i persistenti fattori interni di decadenza culturale e morale, il male oscuro contenuto nella nuova civiltà della tecnica temuto e predetto da tempo, o le fatali ansie di «aggiornamento» del cattolicesimo romano.
Sull’Occidente europeo si è andata stendendo sempre più l’ombra e la mano di un altro Occidente, transatlantico, munito di diversi codici morali, di disinibite visioni di potere, di illimitata fiducia nei vantaggi della distruzione «creativa» da applicare anzitutto, ma non solo, in via militare, nel mito della guerra quale fonte primaria di arricchimento.
Questo diverso «Occidente», all’Italia in particolare, sottomessa con la firma del Dettato di pace che tanto aveva sconfortato Benedetto Croce, aveva messo al collo il cappio che si stringe automaticamente ad ogni minimo tentativo di fuga. Ma siccome anche le corde possono essere tagliate e i trattati disattesi, come insegna la più moderna etica internazionale, occorreva una prova d’amore siglata col sangue.
Così, pochi anni dopo l’atto di sottomissione, un governo italiano, che oggi pare giganteggiare al confronto con i nani insediati democraticamente in tutti i palazzi del potere, consentì l’installazione di basi militari munite di adeguato corredo atomico a due passi da tutte le più vantate bellezze italiche che da quella vicinanza traggono indiscutibile vantaggio.
Una volta diventati definitivamente «servi in casa nostra», siccome secondo la migliore pedagogia penitenziaria i prigionieri vanno anche rieducati, ci sono state elargite a titolo gratuito anche le più innovative dottrine in tema di morale famigliare, di aborto, eutanasia, fino alle più recenti geniali declinazioni dell’omo e transessualismo genderista, ora propagandato anche dalla prestigiosa ditta Disney.
Non solo. Poiché da che mondo è mondo i figli degli schiavi appartengono al padrone, la nuova pedagogia «creativa» è stata portata nelle scuole di ogni ordine e grado, sotto l’alto patrocinio dell’ONU, dell’OMS, e dell’UE, cioè di tutti i falsari dell’Occidente democratico a trazione transatlantica, impegnati a trafficare con i «diritti» e lo «stato di diritto», tutte cose che mantengono, specie tra i più acculturati, una certa esoterica suggestione.
Attraverso una egemonia politico economica, nuovi fattori di disfacimento culturale sono penetrati dunque nelle maglie larghe della crisi morale e culturale di un’Europa già in balia dei nuovi venti di dottrina e resa incapace di reagire anche grazie all’indottrinamento mediatico imposto da un padrone illuminato. Sulla base della distinzione aristotelica tra animali non parlanti e animali muniti di voce come gli schiavi, qualunque iniziativa culturale a beneficio della popolazione schiavile addomesticata è destinata ad avere successo.
Tuttavia, l’Occidente europeo è un suddito non solo da domare, ma anche da combattere come concorrente. Perché lo schiavo può diventare per bravura anche potente, come capitava a certi liberti di genio della Roma antica, e magari arrivare a ribellarsi mettendo in discussione il principio di autorità. In questi casi, gli ostacoli vanno neutralizzati con ogni mezzo, l’omicidio, il ricatto, il taglio di un gasdotto, una sommossa telecomandata e via discorrendo.
Il quadro appena tracciato non contiene di certo nulla di originale, ma deve essere tenuto a mente anzitutto quando si parla di declino dell’Occidente, per ricordare che lo straordinario decadimento politico, intellettuale ed etico, che ha alimentato anche le degenerazioni della democrazia e del capitalismo, non è affatto tutta farina del sacco europeo.
La decadenza di questa Civiltà va valutata alla luce di fattori legati di certo alla sua storia e alla sua cultura. Ma su questi si è andata innestando, grazie ad una intervenuta sudditanza politica, una degenerazione culturale di importazione.
Molto deve il declino della Civiltà europea al contributo americano in termini di canoni morali, dottrine politiche, costumi, filosofia di vita, dottrina economica, etica sociale e di politica internazionale, mentre il militarismo più sfrenato è stato premiato con il Nobel della pace. Però troppo spesso di questa matrice poco si è tenuto conto.
Così le aberrazioni genderiste, ad esempio, hanno potuto insinuarsi senza tanto clamore, perché considerate spesso come un fenomeno marginale, quasi modaiolo, di cui si è ignorata la matrice politica e la forza dirompente, funzionale alla destabilizzazione socioculturale programmata dall’imperialismo globalizzante che ha bisogno di sudditi sradicati anche dalla legge naturale. Non per nulla nella caserma romana degli schiavi era inibita la formazione della famiglia.
In questa prospettiva è allora necessario e urgente ridefinire un concetto indebitamente distorto di Occidente che ha prodotto e produce conseguenze pratiche molto pericolose, anche sul piano della nostra falsa coscienza.
Infatti, attraverso una manipolazione terminologica non innocente, da troppo tempo questo termine viene usato arbitrariamente per indicare una unica realtà politico culturale, che abbraccia l’Occidente europeo e insieme quello atlantico o statunitense che dir si voglia.
La conseguenza diretta è evidente: la potenza considerata egemone ritiene di dover parlare a nome di quanti vengono definiti geograficamente occidentali, ovvero di quelli che essa decide debbano essere considerati politicamente e «ideologicamente» occidentali.
Ma l’assimilazione tra concetto geografico e concetto culturale e la sua trasposizione allo spazio transatlantico induce alla sovrapposizione e assimilazione di spazi non solo culturalmente estranei, ma persino antitetici e in conflitto di interessi, e ed è dunque doppiamente incongrua e arbitraria.
Infatti, anzitutto dovrebbe essere evidente che una «civiltà americana» ha a che fare con quella europea quanto il prestigioso Gugghenheim veneziano in cemento armato ha a che fare con la vista sul Canal Grande. Mentre fare del concetto geografico un concetto politico è in questo caso come riconoscere a Cesare e Vercingetorige interessi comuni.
Gli Stati uniti sono stati portatori di una nuova antropologia, e hanno sentito precocemente la propria autonomia e originalità tanto da guardare al Continente Europeo prima come ad un modello, poi come ad una terra di conquista, oggi come a un suddito di cui disporre a piacimento e all’occorrenza, da distruggere.
Con il pragmatismo ereditato dalla radice anglosassone, si sono guardati fin dall’inizio e durante tutta la loro storia, dall’osservare i principi che bene o male disciplinavano il diritto internazionale europeo, secondo la precoce inattaccabile diagnosi schmittiana.
Quel nuovo modo di considerare i rapporti internazionali, avallato dal crescente potere economico e militare, ha finito per contaminare tutto un sistema politico e diplomatico e stravolgere le più elementari regole della convivenza tra stati sovrani comunemente riconosciute. La deregulation alla base della nuova economia di mercato è stata trasferita sul piano dei rapporti internazionali dove tutto diventa plausibile se corrisponde a disegni strategici, peraltro spesso anche fallimentari, orientati a un espansionismo ossessivo perché creduto economicamente irrinunciabile.
Anzi, proprio nel campo dei rapporti internazionali anche la contaminazione «culturale» è ormai tanto avanti, grazie alla poderosa macchina propagandistica appaltata agli agenti pubblicitari europei, che ogni operazione disonorevole come quella dei famigerati accordi di Minsk non smuove le assopite coscienze dei sudditi europei, come ogni intervento moralmente ripugnante è messo al riparo, per assuefazione, dal dissenso interno.
Brutalità, cinismo, menzogna ed ipocrisia sono le regole di comportamento valide sia in pace che in guerra sotto la guida suprema dell’utile. Vale per tutto il criterio che presiede la guerra aerea condotta con la regola del bombardamento a tappeto sulle città, già sperimentato con successo in Europa e che comporta il massimo risultato col minimo sacrificio umano proprio.
Metodo perfezionato definitivamente contro la Serbia, che non aveva dichiarato guerra a nessuno, ma era stata eletta a nemico di turno necessario per far girare la preziosa industria militare made in USA. Vi furono sganciate eroicamente 300.000 bombe in poche settimane, e nessun soldato «occidentale» rimase sul campo. Ma era stata inaugurata una nuova serie di altre eroiche imprese, del cui orrore è meglio tacere. Ogni europeo dovrebbe finalmente chiedersi che cosa ha a che fare con tutto ciò l’Europa che da quasi un secolo si straccia le vesti per la barbarie nazista.
Ora dovrebbe risultare evidente che la formula geografica serve a creare, oltre ad una falsa assimilazione culturale, anche la suggestione di una assimilazione politica data per scontata come ineludibile, al pari della monacazione di Gertrude.
In conclusione, poiché l’Occidente europeo è cosa storicamente e culturalmente e ideologicamente diversa dall’Occidente americano, e i rapporti di forza determinano tra i diversi soggetti politici condizioni totalmente squilibrate, l’allargamento del concetto di Civiltà occidentale dai confini europei allo spazio transatlantico, comporta una assimilazione artificiosa, incongrua e soprattutto pericolosa per le sue conseguenze imbarazzanti quanto indesiderabili, e il problema stesso della crisi della Civiltà europea ne viene totalmente viene sviato.
Questo uso estensivo di «Occidente» avalla cioè una pretesa continuità culturale e politica che condiziona non solo modi di pensare e scelte irrazionali, ma soprattutto decisioni aberranti come l’attuale bellicismo ad ampio spettro parlamentare.
È vero che un allargamento del concetto di Civiltà occidentale dai confini europei allo spazio transatlantico era avvenuto sia in virtù del credito acquistato dagli Stati Uniti con la leggendaria dichiarazione di indipendenza e poi grazie ai due interventi «liberatori» dell’Europa, sicché per molto tempo la distanza sempre crescente tra le due entità geopolitiche non è stata adeguatamente avvertita.
Non per nulla lo stesso Spengler, parlando di Occidente, faceva letteralmente riferimento a quello europeo e americano insieme, anche se la Civiltà occidentale di cui si occupava misurandone la senescenza era essenzialmente quella centroeuropea.
Perfino Guénon, nel 1927, a quasi dieci anni dalla fine della prima guerra mondiale, dava per scontato che Occidente fosse l’Europa e l’America insieme. Ma si trattava di una assimilazione superficiale quanto improvvida, laddove Schmitt aveva già misurato perfettamente anche la forza distruttiva della mentalità della politica e della cultura americana sull’indebolito spirito europeo oggi capace soltanto di reazioni scomposte e di votarsi all’autoannientamento.
Insomma, quella assimilazione terminologica deve essere esorcizzata e respinta con forza perché più minacciosa che impropria. Perché, anche al di là delle fasulle vicinanze culturali, falsifica un insanabile conflitto di interessi le cui conseguenze inquietanti dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti. Perché dà corpo ad una follia collettiva che ha messo fuori uso la ragione e la capacità di vedere e capire la realtà.
L’Europa come Pinocchio, in balia della propria stoltezza, è entrata nelle fauci di un Occidente più grande, ovvero della balena che minaccia ora di digerire il burattino da un momento all’altro, anche per interposta guerra provocata ad hoc.
Patrizia Fermani
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
Civiltà
Vivere liberi lontani dal mondo moderno, restando in Italia. Intervista a Gipi dei Malvisi

In tanti ci chiedono, di fronte alle notizie apocalittiche che Renovatio 21 fornisce ad abundantiam ogni dì, se mai ci sia un posto sulla Terra, un Paese straniero, in cui migrare per evitare l’orrore onnipervadente del mondo moderno che, slatentizzato, diviene sempre più sorveglianza e sottomissione, prigione tecnologica, incubo biologico ed alimentare.
Tuttavia, conosciamo qualcuno che da anni è riuscito a disconnettersi dal mondo delle macchine restando in Italia, prendendo dimora in un antico borgo disperso fra i boschi degli Appennini, dove c’è tutto quello che serve: il campo da arare con i buoi, la stalla per le mucche, la corte per le capre e gli asinelli, le oche e il gallo, il vitello e il pipistrello, la casetta con la stufa e il gatto, l’orto di immane generosità, il ruscello per sciacquare i panni.
Si chiama Villa Melesi, o comunità contadina dei Melesi. L’ha fondata lui. Sta sui monti a cavallo tra Parma e Piacenza, comune di Vernasca.
Gipi dei Malvisi è un personaggio piuttosto incredibile, che avevamo conosciuto nella scena pan-italiana degli appassionati del tabarro, dove la sua originalità torreggiava (e, considerando la galleria di personaggi che si intabarrano, capite che si tratta di tanta roba). Artigiano e artista – sono incredibili, e ben vendute, le sue sculture in fil di ferro – il dei Malvisi è oggi un uomo che ha appreso tecniche agricole antiche, ottocentesche, medievali, persino neolitiche, con le quali condurre questa vita lontana dal mondo tossico inflitto alla popolazione occidentale e non solo a quella.
Parlare con lui è trovarsi affogati in un vortice di racconti biografici, erudite citazioni e pensieri abissali espressi in una lingua euro-sincretica diacronica che all’italiano aggiunge parole – preposizioni, lemmi, espressioni, tutto – in francese, tedesco, spagnuolo, latino, inglese, italiano aulico… e giuriamo che parla davvero così, con questo eloquio antico e proteiforme, irresistibile.
Se il lettore ha problemi a comprendere, in fondo Gipi è stato così gentile da darci i suoi recapiti. Così che magari, qualche lettore curioso, può organizzarsi per andare a trovarlo. E toccare di prima mano la libertà di cui qui andiamo a parlare.
Signor dei Malvisi, è vero che questo non è il suo nome?
Primieramente yo non sono «signore» bensì contadino. Nel mio dialetto, un’isola di accento emiliano tra quello ebraico y quello ligure, il «siur» indica un benestante che non si sporca le mani. Sulle mie braghe di fustagno porto tre bottoni: antico segno del possedere un po’ di terra tuttavia non sufficiente per poter guatare gli altri lavorarla. C’est vrai: il mio cognome deriva da un guardiano delle oche astigiano. Da quando però sono ritornato ai siti aviti l’ho sostituito con la mia provenienza geografica: i Malvisi sono un villaggio della montagna piacentina dove i miei antenati vivono da 600 anni. Una volta era d’uso: Guido da Verona, Tommaso d’Aquino… Gipi era il nome di battaglia di un chirurgo partigiano, affibbiatomi da mio padre al primo vagito.
Ora dove vive?
Più che vivere, ahimè, sopravvivo: a me stesso. Purtroppo la banalità del male (i.e. una zia apparentemente affettuosa, circuita da un bieco figuro, ha venduto i miei sogni per un piatto di lenticchie) mi ha travolto ed ho dovuto abbandonare la mia terra per divenire un vagabondo. Il carico di ricordi, lo strazio per la Patria si’ bella e perduta non mi abbandonano mai. Fuggo dunque: senza posa né requie, evangelicamente pensando alla volpe provvista di una tana a me negata. Il viaggio è la mia droga quotidiana: terminato l’effetto del trip (sic), la giostra deve ripartire. Bergson definì quello ebraico «popolo ospite»; parimenti la mia magione è quella di colui che mi accoglie. Ben conscio peraltro che il mio puzzo ammorberebbe l’aere dopo tre di’ più del carducciano Cruciato, tolgo gli ormeggi sordo a qualsivoglia richiamo di sirena entro quel termine.
Come vive? Lei dice: «vivo nell’Ottocento»…
Vivevo nell’800, tra manze mugghianti, cani da caccia, gatti e polli. Una casa di pietra, nel tetto pure, con il fuoco che scaldava pentole ma più ancora animi. Una bottega di falegnameria del Trisnonno, la più antica funzionante della provincia. La spesa nell’orto e nel frutteto ed il surplus venduto tramite amici o passaparola. Una cavalla, facente funzione di automobile, che anche con temperature abbondantemente sotto lo 0 partiva imperterrita, senza antigelo. Non rifiutai la corrente elettrica similmente al mio bisnonno che, tornato da Boston nel 1911, nel ’29 fu tra i primi a volerla in casa (ho ancora le bollette, si sa mai che mi contestino il mancato pagamento). Avevo infatti un frigo (che morì, dato che il freddo della cucina era troppo intenso) ed una radio per le nuove. Oggi mi sposto per insegnare quelle nozioni così faticosamente apprese dagli ultimi che potevano insegnarmele, legate al mondo che fu. Una panda a metano che percorre 70.000 km all’anno con aspirazioni opposte. Talvolta formato Tir, sovraccarica di opere artigianali e banchi da lavoro ed esposizione per gli eventi cui prendo parte. Talaltra in veste di macchina formula 1, superando i 180 km/h, onde spostarmi dal Manzanarre al Reno con celerità superiore al pensiero (anche se il filosofo sarebbe contrario). Un equilibrio sûrement non perfetto tuttavia con una idea molto chiara, continuamente corroborata nel passare dei lustri: la mia libertà è bene imprescindibile.
Come è arrivato a questo amore per la vita di un tempo?
Allorché arrivai ai monti sorgenti dal piano padano, finiti con mio sollievo (e dei miei docenti pure) gli studi classici, avevo perfettamente chiari i miei intenti: praticare una esistenza immersa nella natura (quasi) incontaminata della mia valle. Eravamo allora nel pieno dell’edonismo reaganiano e ben pochi erano quelli che credevano in un mondo altro, diverso. Passavo (molti lo pensano ancora) per un lavdator temporis acti, lodatore del tempo passato, per posa o per ignoranza oppure per protesta. In realtà la mia decisione si è rafforzata crescendo: a 4 anni dissi, e seriamente, ai miei genitori: «vado a vivere lassù». L’imprinting del nonno, incosciente del seme immesso nel mio giovanile corazón, ha travolto irrefrenabile qualunque ostacolo. Furono lui e tutti quelli della sua generazione, nati tra fine ‘800 e primo’ 900, a stimolare la curiosità e a farmi approfondire vieppiù quel contesto che andava repentinamente scomparendo. Conoscevo il virgiliano Tityro e l’Arcadia tuttavia quei richiami non potevano che apparire frutto della fantasia del poeta, dell’interpretazione distaccata ergo finta dello scrittore. Non c’erano ombre fresche sui flautini bensì lezzo di sudore e falci fruscianti e paura delle carestie in quelle parole pronunciate nelle vespertine veglie. Potevo non innamorarmi di una storia scritta da giganti? E quanto mi apparivano sconcerie da nani gli agi milanesi?
Ci ha detto che conosce tecniche che «vengono direttamente dal Neolitico»…
C’est vrai. Mi sovviene un paragone, affatto iperbolico a mio modesto avviso. La differenza di movimento tra le legioni di Cesare e la Grand Armée del piccolo Corso non è così significativa. Ambedue usavano equini e bovini da trasporto, con conseguente notevole lentezza negli spostamenti e penuria di sussistenza. Intendo dire che in certi ambiti le evoluzioni sono state modeste se non addirittura nulle. Le persone che ho avuto la fortuna di incontrare avevano appreso tecniche dai loro padri, nonni, compaesani, che permettevano loro di vincere la natura feroce ed i duri materiali, migliorando così la propria condizione di vita, già grama. Due esempi. Senza seghe, so ricavare da un tronco quattro travetti, bastando i cunei di ferro da infilare nella corteccia: i nostri antenati, privi di altro, usavano sassi appuntiti, a tagliola, battuti da un ramo, parimenti una rudimentale mazza. Il tramezzo: pareti interne (delle case) o esterne (delle cascine) composte da pali verticali ed un intreccio di rami forti, poi intonacate con letame fresco (in Africa si usa tuttora). Un sistema che è alla base della cesteria e della tessitura e che ebbe l’ultimo colpo di coda massiccio nelle trincee della Grande Guerra (ci costruirono anche finti cannoni atti ad ingannare la ricognizione aerea avversaria!).
Cosa pensa della situazione del mondo pandemico?
Il mio pensiero non può che andare ai nostri vecchi, scomparsi con il sospetto che il mondo che avevano contribuito a creare non fosse migliore di quello che stavano lasciando. Gente che di apocalissi (usando un’espressione di Paolo Caccia Dominioni) ne aveva vissute parecchie. Gente che era usa alle fatiche, alla fame, al dolore, forse rassegnata ma mai doma. Questi hanno affrontato la Spagnola e i virus degli anni ’50 e del’ 69 ricordando benissimo i racconti dei loro nonni circa l’ondata di colera del 1855. Ebbene c’era lo spavento della guerra, giammai quello della malattia. Strano, nevvero? Il morbo veniva affrontato con una serenità di fondo. Alla base di questa solidità d’animo c’erano una fede che vince la morte ed una società costruita su relazioni familiari e sociali strette. Noi al contrario siamo monaci senza vocazione alcuna e, per giunta, senza noviziato di prova. Investiti dal «labora» (la nostra non è forse una Costituzione basata sul lavoro piuttosto che sul valore della persona ergo sulle braccia invece che sull’anima che vive di «ora» pure?), travagliamo senza pensare, come direbbe quel cattivo maestro di Sartre. Ritirandoci poi nella nostra personale cella, pardon: l’abitazione, dove ci attendono i panem et circenses promessi. Orbene: in un tessuto siffatto la presunta pandemia non poteva che accelerare il processo di distacco, alterando completamente il senso del rapporto umano. Questa influenza dai numeri troppo esigui ha spinto a dividerci ulteriormente, quasi appartenga più al campo dell’ideologia che non a quello – scontato? – della salute. Posso dirlo apertis verbis: ad oggi rivolgo la mia attenzione non tanto alla scaturigine della malattia quanto alle conseguenze che sta subendo il mondo, con ripercussioni a livello politico, economico e massimamente sociale.
Ha comperato dei buoi in previsione di un vaccino obbligatorio per la patente?
I buoi, devo ammetterlo, sono sempre stati tra i miei desiderata. Appartengono alla storia dell’agricoltura: tra le incisioni rupestri camune se ne riconosce perfettamente una coppia aggiogata che tira l’aratro. Yo ho ben conservati todos gli attrezzi: carro, carretto a due ruote, erpice, slitta… Mancavano solo i trattori ruminanti e non potevano che essere dell’antica razza (qualcuno dice portata dai Longobardi; ipotesi simpatica ma difficilmente suffragabile) «montana», diffusa tra Parma et Genova. Estinta nel mio Ducato, rimane qualche capo nell’Oltrepò ed in Liguria ma sapevo chi poteva avere ciò che cercavo, conoscendo (oltre che artigiani) contadini ed allevatori in tutta Italia. Allorché cominciò il blocco, capii che era giunto il momento e, seguendo il consiglio di Orazio, colsi l’attimo aggiudicandomi due bestie giovani e domate da lavoro nei campi. Può sembrare una follia, certo, eppure la tendenza generale è quella di stringere un cappio intorno alla nostra libertà. Lo stesso ricatto posto ai genitori, ovverosia di portare a scuola solo bimbi vaccinati, domani potrebbe essere posto a chi guida. Personalmente, di fronte all’alternativa di perire tra i flutti o di costruire un’arca, preferisco, di gran lunga, la seconda.
È vero che per un periodo si è spostato a cavallo?
Naturlich! A differenza di tanti rodomonti nostrani, ho tratto logiche e severe conseguenze dalle lunghe e vespertine discussioni con amici e dalle solitarie meditazioni circa la salvaguardia dell’ambiente. Coerentemente con altre decisioni prese sul mio stile di vita, per 11 anni sono andato a piedi per tragitti fino ai 15 km, diversamente in corriera y treno. Un incontro inaspettato mi ha portato infine a scegliere Stella, una cavalla bardigiana (1,47 al garrese, razza rustica e robusta, talvolta nevrile ma in genere docile). Una automobile perfetta: si muoveva in tutte le stagioni, mantenimento a costo 0, niente balzelli sul mero possesso. In più mi sfornava un puledro da vendere all’anno: una meraviglia! Il fatto più divertente era andare in posta, banca o in comune e parcheggiare davanti: la gente stupita usciva dai bar per vedermi e, mentre sbrigavo le mie faccenduole, l’equino rasava il prato antistante. Comodo invero per tutti, no?
Perché ora ha comprato dei muli?
In realtà è una: Julia, tre anni, figlia di una cavalla bardigiana. Nata in un pascolo d’alta quota nella montagna piacentina e sopravvissuta ai lupi, è stata domata da sella e tiro. Nell’ottica di un restringimento delle libertà individuali mi sono deciso a cercare e comprare un mulo in quanto mezzo di trasporto ideale per le condizioni del territorio in cui vorrei o dovrò vivere. Una bestia siffatta può agevolmente portare 120 kg di legna o frutta con il basto e le ceste: niente di meglio dunque per salvaguardare la mia schiena ed arrivare in posti impervi. Non solo: percepisce il pericolo, come tanta aneddotica militare racconta.
Cosa pensa del nuovo ecologismo?
È uno dei frutti amari, terribili financo, di questo mondo moderno. Una mia amica carissima, anni fa, mi definì l’ultimo degli umanisti, riferendosi all’ immagine vitruviana dell’uomo al centro dell’ universo. Oggi invece c’è l’animale e non parmi un guadagno. Nemmanco i pagani avrebbero posto una bestia sull’ara, se non per sacrificarla (mi sovvengono, ad esempio, i suovetaurilia). Hanno classificato la religione quale superstizione invocando la ragione (gente come Massimo D’Azeglio, salvo poi passare le sere ad invocare gli spiriti e far ballare i tavolini con un medium) ed ora, in nome della stessa, adorano chi ne è privo. Sento spesso dire che siamo il cancro del pianeta ed è un’affermazione che mi fa primieramente sobbalzare indi mi ferisce. A coloro che lo sostengono porgo invariabilmente un invito: andare a Pienza ed affacciarsi dalle mura in direzione dell’Amiata. Il paesaggio è straordinario, da sindrome di Stendhal. Campi e boschi, siepi e calaie: tutto ha un ordine calibrato. C’è un perfetto equilibrio tra uomo e natura, creato dal lavoro millenario di etruschi, romani, medievali per giungere fino a noi. È la mano del contadino che pianta sapientemente il vigneto, l’oliveto e lo difende dalle infestanti e dai selvatici. Il mondo occidentale era ecologico perché dotato di buon senso. Certo, alcune montagne sono state disboscate per fini commerciali, produttivi, tuttavia fino all’arrivo della casta di rapaci individui (parola di un Gramsci) l’insieme era stato preservato. Tornando al nostro presente, quella coscienza propagandata dalla ragazzina svedese mi appare ideologica, ipocrita, inutile. Ciò che stiamo ottenendo (mi fermo al caso italiano) è la distruzione totale della nostra agricoltura in favore della creazione di un ambiente dicotomico e in egual misura caotico: agglomerati urbani più o meno grandi e foreste selvagge. Uno scenario folle che solo la discendente di un popolo barbaro può volere. I latini tagliavano per seminare e creavano giardini, di là del Reno si guardavano bene dal ferire troppe piante. Aridatece i monaci di Camaldoli, primi compilatori di un manuale di silvicoltura, o quelli di Chiaravalle e le loro marcite, altro che Greta!
Che rapporto ha con la tecnologia? Per esempio come usa lo smartphone?
Ogniqualvolta ho un colloquio con gli organizzatori di manifestazioni cui desidero prendere parte, mi scuso anticipatamente per la mia scarsa dimestichezza con la tecnologia. La frase tipica, tra serio e faceto, è: «sono un uomo dell’800». In effetti non so nemmeno accendere un computer… Guardo stupito gli altri che fanno, brigano, disfano, muovono: ne colgo l’utilità ma non mi appartiene. Per poco meno di 10 anni ho avuto il telefono fisso in casa e mi sembrava di non inficiare la coerenza: come affermava orgoglioso il mio bisnonno, erano stati personaggi nati come lui nel XIX secolo ad inventare certe faccenduole come la lampadina e la radio! Quando sono partito per l’esilio perpetuo gli amici mi hanno regalato uno smartphone (che yo chiamo acutofono) e mi hanno, bontà loro, insegnato ad usarlo. I contatti, per me che vivo di relazioni ed ho sodali sparsi da Aosta a Ragusa, sono fondamentali. La funzione telefono è surely la più gettonata, passando almeno 5 ore al giorno in comunicazione con qualcuno! Whatsapp l’ho trovata di grande aiuto per le immagini: poter inviare la foto di un pezzo di ciliegio per indicare senza fraintendimenti un colore preciso non ha prezzo. Faccialibro lo uso poco o punto. Trovo che uno dei termini più abusati oggi sia «amicizia». A mio modesto avviso ci deve essere una corrispondenza tra ciò che vivo nel reale, nel quotidiano, e quello che passa nel virtuale, in rete. Non è possibile sostituire lo sguardo, un abbraccio, il tono della voce e, magari, le gambe sotto al tavolo: antico sono. Last but not least la mia garzona ha creato un profilo Instagram per poter pubblicizzare le mie opere tuttavia, almeno per ora, il passaparola vince incontrastato nella classifica di motore di vendita.
Lei è un grande sostenitore del tabarro…
Chi mi incontra senza conoscermi di primo acchito immagina yo sia un teatrante, un eccentrico, nel peggiore dei casi un picchiatello. Li capisco, per carità: rara avis vedere un tabarro. A maggior ragione se accoppiato ad un bustino (o gilet, che dir si voglia) con la catenella della cipolla. Ancor più se le braghe sono in fustagno e con tre bottoni finali (avendo un po’ di terra, i miei vecchi hanno acquisito il diritto a portarli. Un mezzadro non ne aveva affatto mentre un ricco poteva esibirne un fottio: un codice antico come quello dei ventagli e irrimediabilmente perduto): le stesse che nell’ iconografia classica porta Renzo Tramaglino. Tornando alla nera ruota: come potrei non portarlo, dato che non ho ombrelli e nemmanco cappotti? Da 20 anni mi copro con quello: in caso di pioggia anche il 15 agosto. Ne sono orgogliosissimo, me lo sento addosso come una seconda pelle ed è un biglietto da visita che mi fa identificare da lontano. I miei valori, la mia cultura si presentano visivamente, esteticamente: l’ho compreso nel tempo. No, non potrei farne a meno (ci dormo pure dentro, avvolto come in un bozzolo).
E il camminare scalzo? Ci racconta qualcosa…
Ho iniziato a Giugno di 30 anni fa, quasi timidamente. Il caldo rendeva i miei scarponi (utili per andare a falciare) opprimenti e l’istinto mi disse: ya basta! Prima solo durante i mesi estivi, successivamente ci presi gusto, allungando vieppiù la resistenza al cuoio. Ora da metà marzo a metà novembre cammino scalzo. È un fatto di salute, certamente, ma sarebbe riduttivo credere sia solo quella la motivazione. Intanto è tradizione: una volta i poveri giravano costantemente senza scarpe, le quali venivano riservate alla messa, alla festa (per me neppure quella: sono un pellegrino). In secvndis i piedi sono senzienti, similmente alle mani. Un piacere senza pari è il percepire la carezza dell’erba, il fresco del marmo, le asperità del granito, il massaggio del selciato di fiume. Mi è capitato più e più volte di affrontare la pioggia in città o di attraversare un corso d’ acqua: et voilà, il tempo di un amen e sono asciutto, diversamente le calzature bagnate. Viaggio con un occhio vigile nel guatare vetri e spine onde bellamente evitarli ma è dopotutto un piccolo prezzo che pago volentieri per il senso massimo di libertà che mi regala.
Parliamo della sua arte…
Nella mia famiglia sono più di 200 anni che c’è un falegname: ogni generazione ne ha espresso uno. Fin da piccino ho sempre sentito una forte attrazione per il legno: colori, profumi, alterazioni. Iniziai con riproduzioni di armi dell’ultima guerra per le manovre campali con gli amici poi la mia attenzione si riversò verso la scultura. Dopo aver recuperato la bottega in casa (che già fu del trisnonno) andai a garzone dal mio maestro (dopo 27 anni mi reco ancora da lui: non si finisce giammai di imparare) e dopo un anno potevo menar vanto di essere diventato un ebanista. Scelgo accuratamente i tronchi nei miei boschi, li sego e li lascio riposare in una lenta essicazione naturale. Dalle assi mature ricavo mobili scolpiti ed intarsiati, cornici in stile, taglieri, attrezzi da cucina e contadini, giuocattoli. Finisco con olio d’oliva extra vergine e di lino, gommalacca e sandracca. Il bisnonno, carpentiere negli Stati Uniti, sapeva usare il fil di ferro ed yo ho voluto fortissimamente, come Alfieri, imparare da autodidatta. Et voilà: cesteria (in tecnica mista con essenze legnose o puro), complementi di arredo, manichini, lampade, bugie con meccanismo di risalita, porta-bottiglie e porta-vasi pensili. Costruisco muri in pietra a secco, erigo tramezzi (le antiche pareti) e copro le case in lastre di arenaria. Infine, da appassionato cultore di tutto ciò che è tradizione, insegno (oltre a tutte le tecniche sunnominate) danza popolare, con coreografie supportate da un repertorio musicale più o meno antico ed abbastanza ben conservato.
Questa intervista genererà interesse e richieste di contatto da parte dei nostri lettori. Possiamo dare la sua mail e il suo numero di telefono a chi ce lo chiederà?
Claro que sì! Il mio recapito telefonico è 3335347433 (ed ha, incredibile dictv, Whatsapp) ed il mio indirizzo di posta elettronica è: gipi.malvisi@gmail.com.
Grazie signor dei Malvisi. Grazie per la testimonianza e l’esempio che ci dà.
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