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Cina

Pechino lancia «guerra» dei droni contro Taipei. Usa rispondono con incursioni e armi

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

I taiwanesi pronti ad abbattere i velivoli senza pilota cinesi. La Cina comunista mantiene la pressione militare sull’isola «ribelle». Washington: manovre di Pechino non creeranno una «nuova normalità» lungo lo Stretto di Taiwan. Biden prepara vendita di armamenti a Taipei per 1,1 miliardi di dollari.

 

 

Il ministero taiwanese della Difesa ha dichiarato che le Forze armate abbatteranno i droni cinesi che violano lo spazio aereo nazionale.

 

Negli ultimi giorni Pechino ha intensificato il sorvolo di velivoli senza pilota sulle Kinmen, isole situate al largo della provincia cinese del Fujian, ma sotto il controllo di Taiwan.

 

L’uso di droni rientra nella «guerra» psicologica lanciata dalla Cina comunista per mantenere sotto pressione l’isola «ribelle»: l’obiettivo è di preparare il terreno per l’eventuale riconquista del territorio, nel caso anche con l’uso della forza.

 

Il 4 agosto Pechino aveva lanciato quattro giorni di esercitazioni in sei aree predefinite attorno a Taiwan, una risposta alla visita nella capitale taiwanese della speaker della Camera USA dei rappresentanti, Nancy Pelosi. Le manovre cinesi sono continuate oltre la data annunciata per la loro fine.

 

Nonostante lo stop ufficiale, ancora ieri le autorità militari taiwanesi hanno individuato la presenza intorno all’isola di 37 aerei e otto navi da guerra cinesi: 12 velivoli hanno oltrepassato la linea mediana dello Stretto di Taiwan, che divide in modo informale il braccio di mare tra le due parti, ma che la Cina non vuole più rispettare.

 

Ieri l’amministrazione Biden ha chiarito che gli Stati Uniti non accetteranno pretese di una «nuova normalità» lungo lo Stretto di Taiwan determinata dalle continue attività militari cinesi. Washington respinge soprattutto la posizione di Pechino secondo cui lo Stretto rientra nel proprio spazio sovrano.

 

In risposta alle operazioni cinesi nell’area, il 28 agosto due incrociatori lanciamissili Usa hanno navigato attraverso lo Stretto. Le autorità statunitensi hanno ribadito che il passaggio navale è stato condotto nel rispetto delle norme sulla navigazione in acque internazionali.

 

Come riporta però Taiwan News, la pagina Facebook Taiwan Adiz avrebbe intercettato trasmissioni radio tra militari cinesi e statunitensi con i primi che accusano Washington di aver inviato due elicotteri MH-60 Seahawk entro lo spazio aereo della Cina tra il 28 e il 29 agosto. Con ogni probabilità le due unità aeree erano di stanza con gli incrociatori in transito nelle acque dello Stretto.

 

Nel frattempo, secondo Politico il governo Usa è pronto a sottoporre al Congresso una nuova vendita di armi a Taipei.

 

Si tratterebbe di un pacchetto da 1,1 miliardi di dollari, con l’inclusione di almeno 160 tra missili anti-nave e aria-aria.

 

Il Taiwan Relations Act impegna gli Stati Uniti a mantenere la capacità militare dell’isola con la fornitura di armi difensive.

 

 

 

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Cina

Arresti per le frodi on line: la Birmania estrada in Cina 31 mila persone

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Il bilancio provvisorio dall’inizio della collaborazione a settembre fra forze dell’ordine dei due Paesi contro le truffe nelle telecomunicazioni. Al centro dell’inchiesta 63 presunti «finanziatori» e capi criminali che avrebbero truffato cittadini cinesi per «somme ingenti» di denaro. La guerra fra militari golpisti e milizie ribelli nella ex-Birmania alimenta il fenomeno.

 

Le autorità del Myanmar hanno consegnato alla Cina 31mila sospetti arrestati per frode nel settore delle telecomunicazioni da quando, nel settembre scorso settembre, le forze dell’ordine di entrambi i Paesi hanno avviato un giro di vite sulle truffe online.

 

Secondo quanto riferisce in una nota il ministero della Pubblica sicurezza, che ha rilanciato oggi la notizia, fra le persone finite al centro dell’inchiesta vi sono 63 presunti «finanziatori» e capi di organizzazioni criminali che avrebbero truffato cittadini cinesi per «somme ingenti» di denaro.  «La repressione – ha proseguito la dichiarazione ministeriale – ha ottenuto risultati significativi nella lotta».

 

Secondo i media statali di Pechino ogni giorno più di 100mila persone sono coinvolte in frodi nel settore delle telecomunicazioni in almeno mille centri votati alla truffa in Myanmar, nell’area confinante con il sud-ovest della Cina, che ha alimentato il fenomeno degli «schiavi del web».

 

Un traffico di enorme portata già denunciato a più riprese in passato e che può contare anche sulla situazione di tensione che si è creata nella zona di frontiera fra i due Paesi, a causa del conflitto in atto fra esercito legato al regime golpista birmano e gruppi ribelli.

 

La polizia cinese ha iniziato a reprimere le frodi a settembre, lanciando quelli che ha definito «attacchi rapidi» alle bande criminali in Myanmar. La settimana scorsa il capo di una banda criminale in Myanmar si è suicidato mentre era in fuga dalle autorità del Paese e tre membri della sua banda sono stati consegnati in un secondo momento alle autorità.

 

A causa dell’aumento delle truffe nel settore delle telecomunicazioni in Myanmar ai danni di cittadini cinesi, il vice-ministro degli Esteri Nong Rong ha visitato il Paese a novembre, sottolineando l’asse fra Pechino e Naypyidaw nel combattere la criminalità transfrontaliera.

 

Nel mirino vi sono non solo le truffe, ma pure il gioco d’azzardo on-line. L’alto funzionario cinese ribadisce il sostegno al Myanmar nel tentativo di mantenere stabili i confini, a fronte di una escalation militare nella ex-Birmania vista con preoccupazione da diverse nazioni nell’area.

 

L’esercito al potere in Myanmar sta affrontando attacchi su più fronti nelle terre al confine, mentre un’alleanza di gruppi di insorti appartenenti a minoranze etniche si combina con i combattenti pro-democrazia per sfidare il governo emanazione della giunta miliare.

 

Al riguardo, il ministero cinese degli Esteri sottolinea il ruolo «costruttivo» di Pechino nel «promuovere i colloqui di pace e sollecitare le parti interessate a mettere al primo posto gli interessi del popolo, al cessate il fuoco e a porre fine alla guerra il prima possibile».

 

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Immagine di Dudva via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

 

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Cina

Arabia Saudita e Cina creano un accordo di scambio per il commercio senza dollari

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Continua il connubio saudita cinese che fa tremare il petrodollaro e l’ordine economico-politico mondiale costruito su di esso.   Il giornale cinese South China Morning Post ha riferito il 20 novembre che la banca centrale dell’Autorità monetaria dell’Arabia Saudita e la Banca popolare cinese (PBC) avevano annunciato un accordo su uno scambio di valuta di 50 miliardi di yuan per il successivo rimborso di 26 miliardi di riyal – cioè per importi equivalgono a circa 7 miliardi di dollari.   Nessuna delle due nazioni ha bisogno di prestiti per la stabilizzazione valutaria; l’accordo dovrà evidentemente essere utilizzato per espandere la quota di commercio tra i paesi nelle rispettive valute nazionali.   Ad oggi, questo non ha incluso alcuna vendita di petrolio o prodotti petroliferi, ma la testata di Hong Kong lascia intendere che questo scambio potrebbe dare inizio a tali vendite.   L’accordo è il trentesimo scambio di valuta stipulato dalla PBC dal 2014; li ha già con le banche centrali di Egitto, Emirati Arabi Uniti e Qatar.   Lo scambio di petrolio senza l’intermediazione del dollaro, iniziata l’anno scorso con le dichiarazioni dei sauditi sulla volontà di vendere il greggio alla Cina facendosi pagare in yuan, porterà alla dedollarizzazione definitiva del commercio globale.   A gennaio, il ministro delle finanze dell’Arabia Saudita Mohammed Al-Jadaan ha dichiarato al World Economic Forum che il Regno è aperto a discutere il commercio di valute diverse dal dollaro USA.

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«Non ci sono problemi con la discussione su come stabiliamo i nostri accordi commerciali, se è in dollari USA, se è l’euro, se è il riyal saudita», aveva detto Al-Jadaan in un’intervista a Bloomberg TV durante il WEF di Davos. «Non credo che stiamo respingendo o escludendo qualsiasi discussione che contribuirà a migliorare il commercio in tutto il mondo».   Il rapporto tra la Casa Saud e Washington, con gli americani impegnati a difendere la famiglia reale araba in cambio dell’uso del dollaro nel commercio del greggio (come da accordi presi sul Grande Lago Amaro tra Roosevelt e il re saudita Abdulaziz nel 1945) sembra essere arrivato al termine.   Nel frattempo, è stato previsto che la Russia supererà l’Arabia Saudita come il più grande produttore di petrolio OPEC+.   La de-dollarizzazione  coinvolge da mesi, pur sottotraccia, non solo i Paesi in via di sviluppo, ma anche oramai da più di un anno, le Banche Centrali di Paesi come il Brasile e perfino Israele. L’Argentina aveva annunciato che utilizzerà lo yuan per pagare il FMI e non toccherà le riserve in dollari. Anche la Bolivia ha iniziato a commerciare in yuan, allontanandosi dal dollaro. La recentissima elezione di Saverio Milei, il neopresidente ultraliberista che vuole dollarizzare l’intera economia argentina, va in senso opposto.   Il processo della de-dollarizzazione è iniziato con l’avvio delle sanzioni contro la Russia per la sua operazione militare speciale. Victoria Nuland, la grande pupara neocon dietro la guerra in Ucraina, ha definito la de-dollarizzazione «una chiacchiera».   Si tratta invece, con ogni evidenza, di uno dei più grandi rivolgimenti sociopolitici e geopolitici dell’ultimo secolo.

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Cina

La Cina risponde alla minaccia del presidente eletto argentino Milei di rompere i rapporti fra i Paesi

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La Cina ha risposto ai piani annunciati dal presidente eletto argentino Javier Milei di rompere i legami – perlomeno commerciali – con Pechino.

 

Durante la conferenza stampa del ministero degli Esteri cinese del 21 novembre, la portavoce ministeriale Mao Ning ha risposto a una domanda sulle dichiarazioni rilasciate dal probabile ministro degli Esteri di Milei, Diana Mondino, sulla mancata adesione dell’Argentina ai BRICS.

 

Secondo quanto riferito, la Mondino aveva affermato che c’erano alcune interpretazioni errate sulla politica estera di Milei, tuttavia la Mao aveva affermato che «nessun paese potrebbe uscire dalle relazioni diplomatiche ed essere ancora in grado di impegnarsi nel commercio e nella cooperazione economica. Sarebbe un grave errore di politica estera da parte dell’Argentina tagliare i legami con paesi importanti come la Cina o il Brasile. La Cina è l’importante partner commerciale dell’Argentina».

 

Il neoeletto governo argentino apprezza le sue relazioni con la Cina, ha continuato Mao, «soprattutto i legami commerciali tra i due Paesi».

 

La Cina è il secondo partner commerciale dell’Argentina e il più grande mercato di esportazione per i prodotti agricoli argentini, ha continuato la Mao, sottolineando che la complementarità economica tra loro significa che esiste «un grande potenziale di cooperazione. La Cina è pronta a lavorare con l’Argentina per mantenere le nostre relazioni su una rotta costante».

 

Il 21 novembre, il quotidiano del Partito Comunista Cinese in lingua inglese Global Times aveva osservato che lo slancio esistente dei legami economici tra i due Paesi significa che la nuova situazione «non costituirà e non dovrebbe costituire un ostacolo alla cooperazione bilaterale». La Cina vuole continuare a lavorare con l’Argentina per garantire stabilità e sviluppo a lungo termine nelle relazioni bilaterali.

 

Si nota chiaramente che, a causa degli stretti legami, la Cina si è impegnata a diversi importanti progetti di investimento in Argentina, e che l’adesione dell’Argentina alla Belt and Road Initiative – la cosiddetta «Nuova via della seta» – reca seco 23 miliardi di dollari in accordi di investimento e cooperazione.

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Il Global Times ricorda al nuovo governo che queste relazioni commerciali e di investimento sono cruciali per lo sviluppo economico e sociale dell’Argentina, quindi anche se ci sono fluttuazioni politiche a breve termine nel paese, «è ancora giustificato che il nuovo governo assicuri il giusto trattamento degli investimenti cinesi».

 

Sebbene i rischi per gli investimenti cinesi debbano essere considerati, afferma il Global Times, «abbiamo il diritto di chiedere che l’Argentina rispetti gli accordi già firmati da entrambe le parti e si assuma le proprie responsabilità in conformità con i contratti».

 

Gli interessi delle aziende cinesi non dovrebbero essere danneggiati «a causa di un nuovo governo o di differenze politiche tra i due Paesi», scrive l’house organ del PCC.

 

Il Milei ha detto che rispetterà gli accordi già firmati in Argentina da aziende cinesi.

 

Sei mesi fa nel corso di un incontro oggi a Shanghai con i dirigenti della Tsingshan Holding Group, il ministro delle finanze argentino Sergio Massa, sfidante di Milei all’ultima tornata per la presidenza, aveva riferito che avrebbe annunziato un nuovo accordo in base al quale le aziende cinesi potranno investire in Argentina in yuan, aggirando il sistema del dollaro.

 

Il commercio de-dollarizzato fu poi discusso tra i presidenti di Argentina e Brasile, con Buenos Aires pronta a pagare in yuan. C’è da notare come la politica dell’ultra-liberista Milei sia opposta: vuole la dollarizzazione integrale dell’economia argentina.

 

Oltre alle grandi coltivazioni di soia e al manzo, la Cina in Argentina avrebbe investito in un osservatorio astronomico, che taluni accusano essere una sorta di base per lo spionaggio per le comunicazioni dell’emisfero meridionale.

 

Come riportato da Renovatio 21, nel 2020, durante l’ottava marcia auto-organizzata contro l’amministrazione kirchnerista, venne scandito lo slogan «Fuori la Cina». In Argentina si registrarono attacchi contro gli immigrati cinesi, il cui Paese è ritenuto da più parti responsabile dello scoppio della pandemia da COVID-19.

 

La Cina invece incolpò brevemente l’Argentina, e altri Paesi, di essere la vera origine della pandemia del coronavirus, arrivato nel Regno di Mezzo, dissero, con il pesce surgelato e carne dal Sudamerica.

 

Più tardi, i cinesi se la presero pure con il gelato, inventando di fatto il «gusto Coviddo».

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Immagine di Cancillería Argentina via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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