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Storia

Origini storiche del Canale di Panama

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Renovatio 21 pubblica il primo di una serie di saggi storici dello studioso Marco Dolcetta sul Canale di Panama e i progetti intorno ad esso, un tema più che mai rilevante nell’ora in cui il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump dichiara apertis verbis di volersi reimpadronire della struttura in una visione geopolitica che può sembrare nuova all’occhio dell’uomo del XXI secolo, ma che è invece di salda radice antica, profondamente connessa alla storia americana.

 

In seguito alla costruzione del Canale Erie nel 1825 fra Albany e Buffalo, New York ottenne un vantaggio ineguagliabile sulle altre città portuali nelle vecchie colonie atlantiche. Il completamento della costruzione del grande canale contribuì ad aumentare la fiducia nell’importanza di opere di quelle dimensioni.

 

Verso la metà del secolo Diciannovesimo non esisteva ancora la ferrovia attraverso il continente; la Pacific Railroad, infatti, venne ultimata solo nel 1869 e il tragitto verso la costa pacifica era ancora lungo e pericoloso. Per gli Stati Uniti, il nodo definitivo da sciogliere per riuscire a ottenere il massimo dal continente era rappresentato dalla possibilità di sfruttare le grandi vie di comunicazione fra le due coste. 

 

Alfred T. Mahan, ufficiale della marina statunitense, scrisse un testo fondamentale: The Influence of Sea Power upon History, 1660–1783. Secondo Mahan, il controllo degli stretti marittimi era la conditio sine qua non per poter esercitare il potere sui mari. Nella sua opera considerava sette punti di strozzatura o stretti («chokepoints»), ma per controllare definitivamente i mari americani, presupposto per la nascita dell’impero, consigliò la costruzione dell’ottavo in America. 

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L’apertura di un passaggio attraverso l’istmo centramericano fu sempre un argomento molto dibattuto. Le rotte utilizzate dagli spagnoli per far rientrare i tesori in patria dalle colonie pacifiche erano tre: una attraverso Panama, una per il Nicaragua e l’ultima, più lunga delle altre, per la via di Tehuantepec in Messico. Il manifestarsi della grande corsa all’oro verso la California a metà dell’Ottocento diede l’impulso finale nel cercare una via più rapida e sicura per raggiungere la grande costa pacifica.

 

La Guerra di secessione americana non era ancora in vista, e in quel momento storico gli ingenti capitali disponibili nelle sempre più importanti banche d’affari a New York cominciarono a muoversi per offrire a nuovi coloni la possibilità di raggiungere l’appena conquistata, e ancora vergine, terra dell’Ovest.

 

Nel 1846 gli Stati Uniti firmarono con lo stato di Nuova Granada il Trattato di Mallarino-Bidlack allo scopo di creare un’intesa sull’attraversamento dell’Istmo di Panama, ma anche come base di partenza per la discussione sulla realizzazione del Canale. La United States Mail Steamship Company (USMSSCo.) cominciò quindi ad utilizzare la via di Panama per raggiungere la costa ovest.

 

L’attraversamento del tratto terrestre in ogni caso comportava grande dispersione di energie e perdita di tempo prezioso. A seguito delle difficoltà di attraversamento dell’istmo di Panama, la Società delle Poste americane spinse fortemente per costruire una tratta ferroviaria che contribuisse a migliorare la qualità del servizio. L’opera venne conclusa già nel 1855 e diminuì i tempi di attraversamento da una settimana a un comodo viaggio di alcune ore.

 

Dall’inizio della decade Ottanta dell’Ottocento, la compagnia francese di Ferdinand de Lesseps, grazie al successo ottenuto con la costruzione del Canale di Suez, riuscì a raccogliere grossi fondi e a trovare un accordo con la Colombia per dare il via al progetto della nuova opera. La compagnia francese iniziò i lavori nel 1882 ma non ebbe fortuna e dopo alcuni anni dovette rinunciare in seguito a enormi perdite nelle file dei lavoratori a causa di malattie tropicali e per l’aprirsi di un vuoto finanziario incolmabile.

 

La Compagnia del Canale di Panama dichiarò bancarotta nel 1888, procedendo alla liquidazione l’anno successivo. L’occasione si rivelò troppo importante per Washington. 

 

Con la crisi economica del 1893 si fece strada l’idea della decadenza del sistema americano in seguito alla fine dell’espansionismo. Raccolse queste idee soprattutto il futuro presidente Theodore Roosevelt che accusava il benessere acquisito come causa principale di tale declino e indicava come soluzione la via del rigore primitivistico temprato dalla conquista della frontiera. La fine del secolo vide il rianimarsi della politica estera a favore dell’imperialismo americano sul suolo del continente. 

 

L’ascesa imperiale della repubblica nordamericana spinse definitivamente a riprendere in considerazione la realizzazione dell’opera del passaggio navale trans istmico. Alla fine del 1901 gli USA avevano rinegoziato il Trattato Clayton-Bulwer con l’Inghilterra firmando il Trattato Hay-Pauncefote in modo da avere finalmente libertà di costruzione del Canale. La costruzione del passaggio navale avrebbe aumentato a dismisura il volume dei traffici commerciali e allo stesso tempo dato un importante slancio al controllo statunitense sui mari caraibici, soddisfacendo le teorie di Mahan e di Roosevelt stesso.

 

In seguito alla bancarotta di Lesseps e del suo cantiere a Panama, venne creata dal congresso la commissione Walker per decidere definitivamente quale rotta potesse rappresentare il miglior investimento. La presenza di vulcani attivi in Nicaragua, unita alla maggior lunghezza degli scavi, fece da base al discorso che Bunau Varilla, nuovo rappresentante della società per la costruzione del Canale, utilizzò per convincere il congresso a scegliere la via per Panama.

 

Roosevelt non si fece sfuggire l’occasione e comprò il cantiere nel frattempo abbandonato dalla compagnia francese. Il prezzo di 40 milioni di dollari, (equivalente a 13,56 miliardi di dollari nel 2023) proposto dal rappresentante francese Bunau-Varilla per i lavori già iniziati e per tutti i macchinari, convinse il governo americano. L’obiettivo di Roosevelt era escludere a priori la possibilità che il cantiere del Canale potesse venir comprato da una potenza europea. 

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Venne cercato un accordo tra Stati Uniti e Colombia, ma al momento del rifiuto del Trattato Hay-Herrán da parte colombiana si generarono forti tensioni. Il patto avrebbe dato ampie libertà agli USA sull’istmo e avrebbe garantito la costruzione dell’opera in cambio di una relativamente modesta somma in denaro. A seguito della ricusazione del trattato il presidente Roosevelt si appellò al popolo di Panama perché si ribellasse contro questa decisione del loro governo; il blocco navale della marina militare americana ai porti panamensi sbarrò la marina militare colombiana accorsa per sedare le sommosse.

 

La tracotante operazione militare architettata da Roosevelt costrinse la Colombia ad accettare la nascita del nuovo Stato panamense come un fatto compiuto. Due settimane dopo venne firmato il Trattato Hay-Bunau Varilla tra Panama e Stati Uniti, che permise a Washington di intraprendere i lavori per la realizzazione della colossale opera mantenendo gli stessi termini contrattuali offerti inizialmente alla Colombia.

 

I lavori furono portati a termine nel 1914 poco prima dell’inizio della Grande Guerra e si rivelarono fondamentali per la logistica militare tra le due coste americane.

 

Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine: mappa statunitense del Centro America nel 1850.

Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia.

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Geopolitica

Lavrov all’ONU parla di rinazificazione tedesca: «hanno lo stesso obiettivo di Hitler»

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I leader tedeschi stanno adottando politiche che richiamano gli obiettivi di Adolf Hitler di dominare l’Europa e infliggere una sconfitta strategica alla Russia, ha dichiarato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.   Durante una conferenza stampa dopo il suo intervento all’80ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sabato, Lavrov ha affermato che le ambizioni militari della Germania vanno oltre la semplice difesa.   «Non si tratta solo di militarizzazione, ci sono chiari segnali di rinazificazione», ha detto ai giornalisti. «E perché si sta facendo questo? Beh, probabilmente con lo stesso obiettivo di Hitler: dominare tutta l’Europa. E cercare di infliggere una sconfitta strategica all’Unione Sovietica, nel caso di Hitler, e nel caso della Germania moderna e del coro dei principali solisti dell’Unione Europea e della NATO: alla Federazione Russa».   Il ministro degli Esteri ha criticato il cancelliere Friedrich Merz, accusandolo di voler trasformare la Germania nella «principale macchina militare d’Europa», citando la sua retorica sempre più bellicosa. Merz ha promesso di rendere la Bundeswehr il «più forte esercito convenzionale d’Europa» in un discorso tenuto meno di una settimana dopo l’80° anniversario della caduta del Terzo Reich, celebrato a maggio.   «Quando una persona in un Paese che ha commesso i crimini del nazismo, del fascismo, dell’Olocausto, del genocidio afferma che la Germania deve tornare a essere una grande potenza militare, allora ovviamente sta subendo un’atrofia della memoria storica, e questo è molto, molto pericoloso», ha detto Lavrov.

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Questa settimana, Merz ha dichiarato che «non siamo in guerra, ma non viviamo più in pace», chiedendo la confisca dei beni russi congelati per sostenere Kiev. A Bruxelles, questo piano di «prestiti di riparazione» è stato appoggiato dall’ex ministro della Difesa tedesco, ora presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.   Berlino intende quasi raddoppiare il proprio bilancio militare entro il 2029, indicato dai funzionari tedeschi come scadenza per essere «pronto alla guerra». Il ministro della Difesa Boris Pistorius ha dichiarato che la Bundeswehr deve prepararsi a combattere soldati russi se la «deterrenza» fallisce. Il presidente Frank-Walter Steinmeier ha chiesto il ripristino della coscrizione universale in caso di carenza di volontari.   Dal 2022, con l’escalation del conflitto in Ucraina, la Germania è diventata il secondo maggior fornitore di armi a Kiev dopo gli Stati Uniti, inviando carri armati Leopard, utilizzati e persi da Kiev nell’incursione nella regione russa di Kursk, teatro della più grande battaglia di carri armati della Seconda guerra mondiale.   In precedenza, Lavrov aveva sostenuto che le politiche di Berlino dimostrano il suo «coinvolgimento diretto» nella guerra per procura contro la Russia, avvertendo che l’Unione Europea nel suo complesso sta scivolando verso quello che ha definito un «Quarto Reich».   Come riportato da Renovatio 21, due mesi fa la Russia ha annullato l’accordo di distensione con la Germania. Sei mesi fa, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, truppe tedesche sono state schierate sul fronte orientale per combattere la Russia.

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Intelligence

Gli USA e il progetto di Israele per il Medio Oriente: origini e natura del piano Clean Break

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Nel 1996 un gruppo di intellettuali neoconservatori americani, quasi tutti di origine ebraica, consegnò a Benjamin Netanyahu, allora nuovo premier israeliano, un documento destinato a orientare gli equilibri geopolitici del futuro: A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm.

 

Tra i firmatari c’erano Richard Perle, futuro presidente del Defense Policy Board, Douglas Feith, che sarebbe diventato Sottosegretario alla Difesa per la politica, David Wurmser, destinato a entrare come consigliere del vicepresidente Dick Cheney, e la moglie Meyrav Wurmser, analista israeliana. Accanto a loro figuravano James Colbert e Robert Loewenberg, entrambi ebrei-americani legati ai think tank pro-Israele, e Charles Fairbanks Jr., unico non ebreo del gruppo.

 

«Israele può dare una netta cesura [clean break, ndr] al passato e stabilire una nuova visione per il partenariato tra Stati Uniti e Israele basata sull’autosufficienza, sulla maturità e sulla reciprocità, non focalizzata esclusivamente sulle controversie territoriali» scriveva il documento. «La nuova strategia di Israele, basata su una filosofia condivisa di pace attraverso la forza, riflette la continuità con i valori occidentali sottolineando che Israele è autosufficiente, non ha bisogno delle truppe statunitensi in alcun modo per difenderlo, nemmeno sulle alture del Golan, e può gestire i propri affari».

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Il messaggio era inequivocabile: Israele doveva abbandonare la diplomazia e affidarsi alla forza per eliminare i propri nemici. In cima alla lista figuravano Saddam Hussein in Iraq, la Siria e, in prospettiva, l’Iran.

 

«Israele può modellare il proprio ambiente strategico, in cooperazione con Turchia e Giordania, indebolendo, contenendo e persino arretrando la Siria. Questo sforzo può concentrarsi sulla rimozione di Saddam Hussein dal potere in Iraq – un importante obiettivo strategico israeliano di per sé – come mezzo per sventare le ambizioni regionali della Siria» scrive il testo.

 

Pochi anni dopo, con l’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca, molti di quei nomi, insieme ad altri esponenti neoconservatori di origine ebraica, entrarono direttamente nei gangli decisionali dell’amministrazione. Richard Perle, Douglas Feith e David Wurmser furono raggiunti da Paul Wolfowitz, nominato cice Segretario alla Difesa e ricordato come il vero «architetto della guerra in Iraq» per aver costruito e promosso la narrativa delle armi di distruzione di massa.

 

Al loro fianco c’erano Elliott Abrams, consigliere per il Medio Oriente al Consiglio di Sicurezza Nazionale, Lewis «Scooter» Libby, capo di gabinetto del vicepresidente Cheney,Dov Zakheim, Chief Financial Officer del Pentagono, Ari Fleischer, portavoce ufficiale della Casa Bianca, Joshua Bolten, prima vicecapo dello staff e poi capo di gabinetto, Michael Chertoff, a capo della Homeland Security, Michael Mukasey, nominato Attorney General, Ken Mehlman, stratega della campagna di rielezione di Bush, Tevi Troy, vice assistente del Presidente; e David Frum, lo speechwriter che coniò la formula «Asse del Male».

 

In totale, circa quindici figure ebraiche si trovarono a ricoprire ruoli centrali su una cinquantina di posizioni chiave della macchina di governo: una presenza sproporzionata rispetto al 2,5-3% della popolazione ebraica negli Stati Uniti. Una sproporzione che segnala come la politica estera americana in quegli anni fosse fortemente plasmata da uomini che guardavano agli interessi strategici di Israele più che a quelli del popolo americano

 

L’11 settembre 2001 aprì la stagione delle guerre preventive. Quel giorno restano ombre mai dissipate: aerei dirottati per oltre un’ora senza che nessuno li intercettasse, piloti dilettanti capaci di manovre al limite dell’impossibile, passaporti intatti tra le macerie, il crollo inspiegabile del WTC7.

 

A rendere la vicenda ancora più torbida, il caso di Larry Silverstein, imprenditore ebreo che pochi mesi prima aveva rilevato le Torri Gemelle assicurandole contro atti terroristici per miliardi, e il mistero dei 2,3 trilioni di dollari di cui il Pentagono non riusciva a dare conto alla vigilia degli attentati, proprio nell’ala colpita il giorno successivo.

 

Vi sono poi episodi che alimentano sospetti di intelligence. Cinque israeliani, dipendenti di una società di traslochi chiamata Urban Moving Systems, furono arrestati a New York dopo essere stati visti filmare e presumibilmente festeggiare il crollo delle Torri. Trattenuti per settimane dall’FBI, vennero infine rimpatriati in Israele. La loro azienda chiuse subito dopo, e in patria ammisero in televisione di aver «documentato l’evento». Definiti in seguito come i «dancing israelis» (gli «israeliani danzanti») per i critici erano uomini del Mossad sotto copertura, per la versione ufficiale solo giovani che si comportarono in modo anomalo, senza prove definitive di complicità.

 

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Negli stessi mesi, un rapporto della DEA segnalava la presenza di decine di «studenti d’arte» israeliani che cercavano di introdursi in uffici governativi e basi militari americane. Anche in quel caso si parlò di probabili operazioni di Intelligence mascherate, mai collegate formalmente al 9/11.

 

Sul fronte dei servizi, sia il Mossad sia la CIA avevano trasmesso avvertimenti su possibili attentati di al-Qaeda: allarmi generici, dicono le autorità, ma per i critici segnali di una conoscenza preventiva mai chiarita. Per Israele, in ogni caso, l’11 settembre rappresentò la chiave: spinse gli Stati Uniti dentro il Medio Oriente con una furia che nessun’altra motivazione avrebbe potuto giustificare.

 

Nel 2002 Benjamin Netanyahu, oggi premier di Israele, si presentò al Congresso degli Stati Uniti per sostenere che Saddam Hussein stesse sviluppando armi di distruzione di massa. Quella stessa argomentazione venne adottata dall’amministrazione Bush per giustificare la guerra. Tuttavia, quelle armi non furono mai trovate.

 

Nel 2003 gli Stati Uniti invasero l’Iraq. Saddam cadde, ma il prezzo fu devastante: oltre 4.500 soldati americani morti, decine di migliaia di feriti, due trilioni di dollari bruciati. L’America ne uscì impoverita, divisa e con una reputazione internazionale compromessa. Persino l’Iran, il grande avversario di Israele, si rafforzò grazie al vuoto lasciato in Iraq.

 

Gli Stati Uniti come nazione hanno perso. Il popolo americano ha pagato in sangue e denaro. A guadagnare sono state le élite economiche americane – industrie militari, contractors e compagnie petrolifere – e soprattutto Israele. Lo Stato ebraico ha visto eliminato un nemico storico senza muovere un soldato né spendere un dollaro. E, mentre Washington si caricava il peso di guerre infinite, Israele continuava a ricevere oltre tre miliardi di dollari l’anno in aiuti diretti, senza contare forniture militari e garanzie economiche. Il tutto per sostenere un Paese che ha oggi un tenore di vita medio più alto di quello statunitense.

 

Vent’anni dopo, lo schema si ripresenta. Israele spinge per un cambio di regime in Iran, evocando gli stessi argomenti usati allora contro Saddam. Il copione è chiaro: una minoranza influente orienta la superpotenza americana a farsi braccio armato degli interessi israeliani.

 

E ancora una volta, a pagare il prezzo non è Israele.

 

Gregorio Del Toro

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Immagine di John Boehner via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC 2.0

 

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Storia

L’equilibro mondiale su Panama. Quando il «sicario dell’economia» Perkins intervistò Omar Torrijos

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Nel libro Confessioni di un sicario dell’economia (saggio autobiografico sulle tecniche di colonizzazione finanziaria del Terzo Mondo da parte degli USA), John Perkins riporta una sua personale intervista del 1972 con il generale e leader politico panamense Omar Torrijos.   Perkins dichiara già in un lungo preambolo la sua alta considerazione per il generale e il suo impegno a bilanciare il ruolo di Panama in una terza via tra l’ingombrante ma necessario strapotere americano e i rappresentanti del Secondo Mondo.   La sua grande ammirazione per il presidente jugoslavo Josip Broz Tito (1892-1980) e il presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser (1918-1970) per il loro ruolo importante come tentativo di creazione di un terzo polo mondiale sotto il nome di «Movimento dei Paesi non allineati» («Non-Aligned Movement» o NAM) o lo porterà a tentare di emulare i suoi punti di riferimento durante la gestione dello Stato centroamericano. 

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Primo della sua classe sociale a governare Panama – e non solo – Torrijos guadagnò i favori di una preponderante fetta della popolazione soprattutto grazie all’essere di estrazione modesta, ispanofono e mulatto. Come mai prima si vide a quelle latitudini, Torrijos cercò di monetizzare il suo peso indirizzando i suoi sforzi a favore di riforme per il popolo panamense.   Ben conscio del ruolo fondamentale giocato dal canale e per l’utilizzo sfrenato che da sempre aveva caratterizzato il giardino di casa degli States, la sua bravura fu quella di cercare di equilibrare le sue richieste con le concessioni.   L’intervista è esemplare per comprendere come già dopo pochi anni al vertice avesse ben chiaro la posta in gioco ma ancora di più come conoscesse bene la storia della sua regione oltre che quella globale.    «Ti immagini?» chiede Torrijos a Perkins nella conversazione con Perkins, «fare parte di un complotto per detronizzare il tuo stesso padre?» Si parla della Persia. «Dopo che lo shah venne reinsediato lanciò una serie di progetti rivoluzionari atti a sviluppare il settore industriale e a portare l’Iran nell’era moderna. Non ho una grande opinione delle politiche dello shah – la sua volontà di rovesciare suo padre e di diventare un pupazzo in mano alla CIA – ma sembra che voglia fare del bene al suo paese. Può essere che possa imparare qualcosa da lui. Se sopravvive».   «Non credi possa farcela?» domanda Perkins.   «Ha nemici molto potenti» risponde il panamense.   «E alcune delle migliori guardie del corpo al mondo»controbatte l’intervistatore.    Torrijos guardando Perkins con aria sardonica continua ad esporre la sua teoria: «la sua polizia segreta, la SAVAK, ha la reputazione di essere composta da criminali spietati. Questo non aiuta a guadagnarsi molte amicizie. Non durerà molto. Guardie del corpo? Io ne ho alcune. Tu credi che mi salveranno la vita se la nazione vorrà disfarsi di me?»   Perkins avanza allora la possibilità che anche lui si vedesse fare la stessa fine. Ma la risposta del generale non si fa attendere: alza le sopracciglia in una maniera che imbarazza l’americano per aver posto una simile domanda.    «Noi abbiamo il Canale. È enormemente più grande sia di Arbenz che della United Fruit» conclude Torrijos. 

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Il riferimento di Torrijos ad Arbenz è fondamentale per capire gli strascichi lasciati nelle genti del Mesoamerica. La terribile ripercussione che si abbatté nel Guatemala degli anni cinquanta lasciò torrenti di sangue a scorrere per decenni nelle memorie delle persone che vissero o sentirono raccontare quei tragici eventi.   Secondo Piero Gleijeses, reputato il maggior esperto grazie al suo eccezionale lavoro Shattered Hope: The Guatemalan Revolution And The United States, 1944-1954, fin dai tempi di Thomas Jefferson sono sempre state tre le forze che hanno fatto da stella polare per la politica esterna statunitense nei Caraibi: la ricerca del profitto, la ricerca della sicurezza e la hybris imperiale.   Arbenz, una volta salito al potere nel 1951 con all’interno della sua coalizione anche il Partido Guatemalteco del Trabajo (PGT) a chiare tinte comuniste, avanzò verso una profonda riforma agraria. La prima vera rivoluzione della terra in centro America. Un sesto della popolazione del Guatemala, circa cinquecento mila braccianti, avrebbero avuto accesso ad appezzamenti senza passare più dal latifondista.   In seguito a questa vasta rivoluzione legalmente eletta in favore di una ridistribuzione più equa delle terre venne orchestrato dalla CIA un sanguinario colpo di Stato. L’autore sostiene che la vicinanza e la simpatia di Arbenz verso la causa comunista concorse ad esasperare le scelte ma non fu affatto l’obiettivo primario del golpe. Per molti la decisione che sancì la distruzione di Arbenz, del paese e di una buona fetta del popolo guatemalteco, fu proprio quella di sottrarre ad UFCO le sue terre in territorio guate.    Gleijeses nel suo saggio continua ricordando come il gabinetto del presidente americano era infestato di compagni di merende della United Fruit. Foster Dulles, segretario di Stato, era socio principale dello studio legale rappresentante la UFCO.   Il suo vice, Walter Bedell Smith, era tentato in quel periodo ad accettare un lavoro per la UFCO, cosa che fece non appena andò in pensione nel 1955. L’assistente segretario per l’America Latina, nonché ambasciatore alle Nazioni Unite apparteneva alla famiglia Cabot, uno dei maggiori azionisti della società frutticola. La segretaria personale di Eisenhower era la moglie del direttore delle pubbliche relazioni del bananificio a stelle e strisce.    L’intervista con Torrijos a questo punto spiega la figura di Arbenz: «i poveri e la classe media di tutta l’America Latina applaudirono Arbenz. Era personalmente uno dei miei eroi. Ma lo guardavamo allo stesso tempo con il fiato sospeso. Sapevamo che la United Fruit si sarebbe opposta a queste misure proprio perché era il più importante proprietario terriero in Guatemala. Possedevano terreni anche in Colombia, Costa Rica, Cuba, Jamaica, Nicaragua, Santo Domingo e qui a Panama. Non avrebbero potuto lasciare ad Arbenz la possibilità di farci venire strane idee».   Torrijos prosegue più serio che mai: «Arbenz fu assassinato. Politicamente e caratterialmente. Come potete credere alle sciocchezze che vi racconta la CIA? Con me sarà molto più difficile. I militari qua sono la mia gente. L’assassinio politico non potrà funzionare. La CIA dovrà impegnarsi di persona per farmi fuori!»   Entrambi rimangono in silenzio per alcuni minuti persi nei loro pensieri, fino a che Torrijos non dice: «Sai a chi appartiene la United Fruit?»    «Zapata Oil, una società di George Bush» risponde prontamente Perkins.    «Un uomo con grandi ambizioni» chiosa Torrijos, «ora sono in azione contro i suoi faccendieri della Bechtel».   Perkins che in quel momento lavorava alla MAIN a caccia di enormi commesse strategiche con lo scopo di creare gigantesche voragini di debito e quindi il controllo dei suoi clienti, si ritrovava in una posizione ambigua trattandosi di un principale concorrente soprattutto a Panama.    «Cosa intendi?» incalza Perkins.    «Stiamo considerando la costruzione di nuovo canale, uno a livello mare, senza chiuse. Può essere utilizzato anche da navi più grosse. I Giapponesi sono interessati a finanziarlo».   «Sono i principali clienti» dice anche Perkins all’unisono con Torrijos.   «Esatto. Infatti se daranno i soldi potranno portare a termine l’opera. Bechtel sarò messa da parte nella più grande opera dei nostri tempi. Proprio loro, zeppi di tirapiedi dei vari Bush, Ford, Nixon». L’autore confida nel suo libro come questa risposta lo ha lasciato di sasso. 

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A quel punto Perkins gli chiede direttamente cosa volesse da lui. Torrijos rispose senza esitazione che avrebbe necessitato del suo aiuto.   «Ci riprenderemo il Canale. Ma questo non sarà abbastanza. Noi serviremo anche da modello. Mostreremo al mondo come avere cura dei poveri e paleseremo la nostra indipendenza da Russia, Cina o Cuba. Proveremo al mondo che Panama è una nazione ragionevole, che non si erge contro gli Stati Uniti ma a favore della lotta contro la povertà».   Perkins racconta come Torrijos infine gli ha chiesto di collaborare ma di farlo in modo da non strozzare la nazione come da prassi raccontata nelle sue memorie. Gli domanda di aiutarlo nel sogno di rendere la sua nazione finalmente in grado di sostenersi autonoma.   Il «sicario dell’economia» ricorda come la finezza di pensiero del generale lo avesse portato a capire molto bene i meccanismi finanziari dell’epoca e il potere del Canale che aveva per le mani. Il suo giudizio sulla persona che aveva davanti ritraeva di sicuro un elemento ricco di contraddizioni, difetti e peccati ma chiaramente non era un pirata o un avventuriero.   Le ultime domande che si fece l’autore, accomunandolo al Che, Allende, Arbenz furono semplicemente quanto sarebbe riuscito a restare in vita per dare continuità al progetto.   Torrijos morì il 31 luglio 1981 quando il suo aereo, un de Havilland Canada DHC-6 Twin Otter dell’aeronautica militare panamense, si schiantò a Cerro Marta vicino alla località di Penonomé, Panama. Aveva 52 anni.   Nel suo libro Perkins lascia intendere che fu la CIA ad ucciderlo, giudicandolo troppo arduo da controllare.

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