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Storia

Oltre Panama: storia dell’altro canale interoceanico americano in Nicaragua

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Renovatio 21 continua l’approfondimento attorno alla storia del Canale di Panama da parte dello studioso Marco Dolcetta. Un precedente articolo riguardante le origini del Canale, è stato pubblicato da Renovatio 21 pochi giorni fa.

 

Con l’inizio della grande febbre dell’oro californiana nel 1849, moltitudini di persone cominciarono a spostarsi dalla costa atlantica verso quella pacifica in cerca di fortuna. La Pacific Railroad, il primo collegamento terrestre americano su rotaie, sarebbe stata ultimata solamente nel 1869.

 

Il grande tycoon Cornelius Vanderbilt, nel 1850, si inventò quindi una altra via oltre a quella di Panama. Sfruttò il passaggio fluviale attraverso il Nicaragua, in grado di accorciare il viaggio di oltre 800 km tra New York e San Francisco che, al contrario di Panama, offriva un viaggio quasi per intero via acqua.

 

Il collegamento tra i due oceani aveva sempre fatto gola anche all’Inghilterra che, grazie al suo secolare controllo sulle coste caraibiche, cercò di assicurarsi la precedenza sulla costruzione dell’opera fin dagli anni Venti del Diciannovesimo secolo. In quella costa sfociava il rio San Juan, la cui navigazione, operata dalla Accessory Transit Company di Vanderbilt, portava fino al lago di Cocibolca al centro del Nicaragua; da qui, con uno spostamento via terra, si sarebbe raggiunto l’Oceano Pacifico in direzione San Francisco. 

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Il tentativo degli inglesi di impossessarsi del porto di San Juan del Norte nel Mar Caraibico, utilizzato dalla compagnia di Vanderbilt, fece scoppiare una crisi diplomatica. Washington cercò e ottenne un accordo con l’Inghilterra attraverso il Trattato Clayton-Bulwer firmato nel 1850. L’obiettivo del patto era vincolare qualsiasi costruzione del canale attraverso il Nicaragua a una gestione congiunta da parte di entrambe le nazioni. Si venne a creare una situazione di stallo che ebbe come conseguenza finale un’inattività decennale pur di non favorire la diretta avversaria.

 

Nel 1855, però, un avventuriero americano di nome William Walker, assieme a un manipolo di mercenari, venne chiamato in Nicaragua dal partito dei liberali. La Guerra Nazionale nata tra due città rivali che erano già in lotta da decenni, Granada la conservatrice e Leon la liberale, divenne la giustificazione per convocare l’americano in qualità di consigliere militare. Walker trovò, in breve tempo, l’opportunità di prendere possesso del paese e nel 1856 ne divenne il sesto presidente. 

 

La parabola di Walker cominciò però la sua traiettoria discendente quando si appropriò delle navi a vapore di Vanderbilt, mandandone definitivamente in rovina gli affari. Il magnate dapprima si spese verso il governo americano per convincerli a smettere di sostenere l’avventuriero, dopodiché indirizzò i propri sforzi verso gli Stati della vecchia Confederazione del Centro America, con l’obiettivo di creare una coalizione vincente. L’aiuto degli inglesi si rivelò fondamentale nel consegnare le armi pagate da Vanderbilt alle truppe del centro America per liberare il Nicaragua dallo straniero. 

 

Le vicende legate prima al Trattato Bulwer-Clayton e in seguito all’invasione di Walker spinsero il tema della costruzione del canale in un limbo dove rimase fino alla fine del secolo. La grande crisi del 1893 e l’idea che la fine dell’espansionismo avesse spento lo slancio americano venne ripresa da Roosevelt che spinse fortemente per la realizzazione statunitense del passaggio interoceanico a Panama.

 

Vignetta del 1895 del Minneapolis Tribune che descrive «il prossimo compito dello Zio Sam», ossia l’intervento in Nicaragua per il canale; immagine di pubblico dominio CCO

 

Il presidente del Nicaragua Zelaya, scottato per non aver ottenuto l’opera nel proprio territorio, cercò appoggi tra Giappone e Germania. Il governo statunitense non tollerò mai la possibilità di un’interferenza esterna in un territorio strategicamente tanto importante. Il canale di Panama era stato aperto al mondo come segno della volontà statunitense di ergersi a garanti del libero commercio, offrendo all’umanità tariffe uguali per tutti. Allo stesso modo però, rappresentando il Nicaragua l’unico altro luogo dove poter costruire un altro passaggio transoceanico, l’opera tarpò le ali a ogni ulteriore progetto nel paese centramericano nelle decadi a venire.

 

Nel 1912 vennero inviati tremila marine a Bluefields, ufficialmente per proteggere persone e proprietà statunitensi. Zelaya venne sconfitto sul campo, deposto e sostituito con Chamorro, rampollo di un’importante famiglia nicaraguense legata a doppio filo agli Stati Uniti. Il Trattato Bryan-Chamorro venne infine firmato nell’agosto del 1914 e pienamente ratificato nel 1916, consegnando il diritto perpetuo della costruzione del canale in Nicaragua agli Stati Uniti d’America.

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Si può affermare che il Nicaragua avesse anticipato il tema della lotta al comunismo al fianco degli USA rispetto agli altri paesi latinoamericani. L’inizio dell’impegno antibolscevico divenne una realtà in seguito al supporto dato dal Messico rivoluzionario alla fazione liberale durante la guerra civile nicaraguense del 1926 e successivamente contro l’esercito di irregolari guidato da Sandino.

 

Lo stesso Sandino durante gli anni della sua vittoriosa guerriglia nelle montagne centroamericane, scrisse un testo che inquadrava il trattato Bryan-Chamorro come la base dello sfruttamento del suo Paese. Secondo il generale, per poter il Centro America assieme all’America Latina assurgere ad autonoma realtà politica avrebbe dovuto riprendersi il canale interoceanico e creare una federazione unita da lingua e razza indo ispanica. Infine, l’uccisione di Augusto Sandino nel 1933 decretò la fine della resistenza da parte dei guerriglieri nicaraguensi e la presa del potere da parte della famiglia Somoza grazie all’imprescindibile supporto statunitense. 

 

Il rapporto tra Somoza e gli USA divenne sempre più solido sotto i due mandati Eisenhower, soprattutto grazie all’appoggio dell’allora vicepresidente Nixon con il quale condivideva la stessa visione di lotta al comunismo. Tanta era la vicinanza tra i due che, non appena Nixon divenne presidente, in seguito alla richiesta di Somoza di costruire un nuovo canale per il Nicaragua, si decise di annullare il trattato Bryan-Chamorro, eliminando l’esclusiva statunitense sulla costruzione.

 

La fine di Somoza venne sempre fatta coincidere dagli oppositori con il terremoto di Managua del 1972, Somoza stesso invece dichiarò che fu decretata dall’avvento di Carter al governo americano. La reale fine della dinastia Somoza ebbe inizio quando Nixon dovette lasciare la poltrona alla Casa Bianca.

 

In seguito alla vittoriosa rivoluzione Sandinista nel 1979 Somoza fuggì dal Nicaragua. Il timore di Washington che l’effetto domino potesse portare l’entusiasmo rivoluzionario verso gli altri paesi centramericani, venne organizzata dalla CIA una sanguinosa operazione coperta per mantenere il controllo nella regione. L’aiuto di Cuba verso i Sandinisti si manifestò in diversi ambiti, sia civili che militari. Tra questi ci fu il tentativo di ripristinare la strada interoceanica, costruita ancora durante il governo Somoza, nell’ottica di creare un collegamento stabile tra la costa caraibica e quella pacifica.

 

L’organizzazione paramilitare dei Contras, messa in piedi dalla CIA in Honduras, tra le molte altre cose, si occupò anche di attaccare i cantieri e distruggere i macchinari che avrebbero dovuto completare l’infrastruttura mantenendo i collegamenti tra le coste sempre problematici.

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Daniel Ortega presidente del Nicaragua, nel giorno 22 dicembre 2014, aprì la cerimonia dell’inizio del cantiere che avrebbe portato alla costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua grazie alla concessione dell’appalto ad un fondo di investimenti cinese.

 

La possibilità di costruire un nuovo canale in Nicaragua è una possibilità teorica grazie anche all’abolizione del trattato Bryan-Chamorro, tuttavia l’operazione mediatica diede il via parallelamente anche a una enorme ondata di proteste antigovernative indirizzate a liberare il Nicaragua dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale.

 

Nonostante i grandi proclami e la rinnovata attenzione sul tema, il nuovo canale interoceanico non vide mai l’inizio dei lavori. Il miliardario cinese Wang Jing, a capo del Hong Kong Nicaragua Development Corporation (HKNDC) finì per chiudere la compagnia per bancarotta. 

 

Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine di Kaidor via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

 

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Pensiero

Il ritorno della diplomazia vaticana. A papa morto

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Renovatio 21 ha spesso sottolineato che una delle tragedie del papato bergogliano è stata senza dubbio la perdita del prestigio diplomatico.   Quello che una vola era un canale di comunicazione saldissimo ed affidabile tra nazioni terrestri – al punto che il Giappone nei primi mesi del 1945 cercò di attivare la Santa Sede per trattare la pace con gli americani, procedimento che per qualche ragione si arenò cagionando la distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki – era ridotto ad una pantomima superficiale, vuota, sbagliata, come nello stile dell’argentino.   La fine del rispetto internazionale per il Vaticano come paciere mondiale è stata incontrovertibile. Lo abbiamo visto negli insulti del romano pontefice ad alcune etnie russe (si è dovuto poi, molto ineditamente per un papa, scusare), agli elogi agli stessi russi (per i quali Kiev e baltici), nelle conferenze stampa aeree dove è sembrato che Bergoglio millantasse iniziative di pace improbabili, nei viaggi a vuoto del cardinale Zuppi (ahimè, ora tra i papabili) a Kiev, dove il governo ha perennemente ignorato e schernito il Sacro Palazzo, persino quando vi è stato ospite. Per non parlare dei disastri con la Cina dove il Partito Comunista Cinese, valutato il peso internazionale del vaticano bergogliano, vìola impunemente gli accordi nominandosi da sé i vescovi, senza ovviamente incorrere in scomunica, e continua senza requie nella persecuzione dei veri vescovi, chiamati per qualche ragione «sotterranei»..   Eppure, sabato mattina una scena di potenza immane si è materializzata ai margini dei funerali papali: Trump ha incontrato Zelens’kyj tra i marmi della Basilica, sedendosi sulle due seggiole messe lì per loro. L’immagine, subito ripubblicata dai canali del presidente statunitense, ha fatto il giro del mondo.    

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Alcuni ora stanno scrivendo che nel vertice di pace estemporaneo è stato snobbato Macron, che ronzava da quelle parti interessato. Così come Starmer, che pure era lì – e, ovviamente, Giorgia Meloni. La quale, ci sovviene, è romana.   Non è chiaro cosa uscirà dalla scena. Alcuni nella stampa mainstream scrivono che Trump, notoriamente avverso all’ucraino, si sarebbe rabbonito. Lo Zelens’kyj, dicono, avrebbe chiesto ancora armi. Tanto per cambiare. A San Pietro, poi – non una cosa che scandalizza il lettore di Renovatio 21, che ricorderà quando Parolin parlò del diritto agli armamenti poco prima che Bergoglio fece quel suo bizzarro rito fatimoide – quello che su queste colonne abbiamo descritto come «consacrazione a mano armata». Il segretario di Stato, il lettore lo sa, ora è nelle prime corsie per lo sprint verso il Soglio petrino.   Tuttavia, nessuno dei retroscena è in realtà importante.   Perché è innegabile la bellezza, la giustizia di questa immagine. Questi pretini, monsignori, belli e sorridenti che portano le sedie. E quei due, qualsiasi cosa si possa pensare di loro, che si mettono a parlare, nel pieno centro della cristianità. Hanno parlato, per forza di cose, di pace. Ciò è bellissimo, ciò è giusto.     Qualcuno dirà: la solita trovata, perfetta, di Trump. Optics. Look. PR – è comunicazione visuale, lui è un maestro, a partire dall’insistenza diacronica per il ciuffo sintetico, inconfondibile, immediato. Non saprei dire: l’ultima volta che aveva saputo ingenerare un’immagine di tale potenza forse Dio stesso gli aveva dato una mano: quando gli spararono e lui alzò il pugno al cielo col volto rigato di sangue e la bandiera USA che garriva sopra di lui.   Il Vaticano quindi pare essere tornato, brevemente, estemporaneamente, involontariamente, il vero luogo della diplomazia, e della pace globale. Dio, la tradizione cattolica – quella per cui questa micrologica monarchia teocratica, per quanto acciaccata, è ancora nella mente e nel cuore di tutta l’umanità e dei suoi leader – lo hanno permesso.   Una preghiera acciocché torni quel tempo dove il centro del mondo coincideva con il centro del suo spirito. Solo da lì si può ricostruire l’equilibro.   Solo ricostruendo la Chiesa si potrà avere la vera pace.   Make Vatican Great Again. Ma sul serio.   Roberto Dal Bosco

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Storia

Documenti CIA rivelano la ricerca segreta di Hitler negli anni ’50

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Secondo i documenti recentemente desecretati, la CIA ha condotto una ricerca segreta di Adolf Hitler in Sud America per un decennio dopo la sua presunta morte. Lo riporta il Washington Post.

 

I documenti, risalenti al periodo compreso tra il 1945 e il 1955 e pubblicati dalla CIA negli ultimi anni, sono stati analizzati dal WaPo questa settimana, e dimostrano che gli agenti sul campo sospettavano che lo Hitler potesse essere fuggito in Sud America sotto falso nome, nonostante l’agenzia disponesse di un rapporto autoptico che ne confermava la morte.

 

Secondo i documenti dell’MI5, Hitler e la sua compagna Eva Braun, che aveva sposato il giorno prima, si suicidarono il 30 aprile 1945 nel suo bunker di Berlino per evitare la cattura. I loro corpi, parzialmente carbonizzati, furono poi ritrovati dai soldati sovietici fuori dalla Cancelleria del Reich. Eppure, gli agenti della CIA hanno continuato a seguire piste fino alla metà degli anni Cinquanta.

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Un dossier del 1945 affermava che agenti del Dipartimento della Guerra statunitense avevano riferito all’FBI che un hotel termale a La Falda, in Argentina, era stato allestito come potenziale nascondiglio. I proprietari dell’hotel, che avevano donato fondi al capo della propaganda Joseph Goebbels, avevano stretti legami con Hitler.

 

L’Intelligence statunitense riteneva che avessero predisposto «tutti i preparativi necessari» per dare rifugio allo Hitler dopo la sconfitta della Germania nella Seconda Guerra Mondiale.

 

Un altro documento dell’ottobre 1955 includeva la foto di un uomo, presumibilmente Hitler, seduto con un amico in Colombia. L’immagine è riprodotta in testa all’articolo. L’uomo, che si faceva chiamare Adolf Schüttelmayor (o Schüttelmayer), avrebbe lasciato la Colombia per l’Argentina nel gennaio 1955.

 

La CIA autorizzò brevemente un’indagine sui trascorsi dello Schüttelmayor, ma in seguito la abbandonò, osservando che «si sarebbero potuti compiere enormi sforzi su questa questione, con remote possibilità di stabilire qualcosa di concreto».

 

Secondo quanto riportato dal giornale di Washington, nessun altro documento della CIA reso pubblico lascia intendere che gli agenti abbiano continuato a cercare lo Hitler dopo il 1955.

 

 

 

Le rivelazioni giungono mentre l’Argentina, ben nota nel dopoguerra come nascondiglio dei fuggitivi nazisti, si prepara a declassificare i documenti governativi relativi a coloro che vi trovarono rifugio dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il clamore intorno alla manovra del presidente argentino Milei – prossimo alla conversione all’ebraismo – ha creato varie fake news sulla materia, ripropagate da improvvisati canali social distributori di sensazionalismo.

 

Si ritiene che ben 10.000 criminali di guerra abbiano utilizzato le cosiddette «ratline» per fuggire dall’Europa. Circa la metà si sarebbe stabilita in Argentina, paese noto per la sua riluttanza ad accogliere le richieste di estradizione.

 

Tra loro c’erano Adolf Eichmann, uno dei principali artefici dell’Olocausto, e Josef Mengele, il famigerato medico di Auschwitz. Eichmann fu catturato dagli agenti israeliani nel 1960 e portato in Israele per essere processato e giustiziato nello Stato degli ebrei.

 

Il dottor Mengele sfuggì alla cattura e secondo quanto riferito morì in Brasile nel 1979, dopo aver subito un infarto mentre nuotava.

 

Complice la pratica della reductio ad Hitlerum, ossia la possibilità di squalificare l’avversario demonizzandolo come nazista, la figura del già pittore austriaco è ancora tremendamente presente nelle cronache attuali, con curiosi cortocircuiti.

 

È il caso di Amazon che ha dovuto ridisegnare il logo perché gli utenti vi avevano veduto il baffetto adolfista, mentre abbondano gli scandali per le dichiarazioni hitleriste del rapper afroamericano Kanye West. L’anno scorso vi fu scandalo quando un’immagine dello Hitlerro fu trasmessa dal megaschermo di uno stadio di Football americano in Michigan.

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Come riportato da Renovatio 21, un politico di nome Hitler è stato eletto in Namibia 4 anni fa. Un politico turco ha invece elogiato senza mezzi termini il cancelliere della Germania nazionalsocialista un anno fa, all’altezza delle continue reductiones ad Hitlerum praticate nei confronti del premier israeliano Beniamino Netanyahu dal presidente della Turchia Erdogan.

 

Il colmo vero tuttavia è arrivato quando un’agenzia di stampa internazionale è arrivata ad intervistare un combattente per l’Ucraina democratica (ai cui soldati è spesso richiesto di nascondere le simbologie di mostrine, stendardi e tatuaggi) che si è presentato con il nome di battaglia «Adolf».

 

Come riportato da Renovatio 21, al momento di lancio dei green pass durante l’Europa pandemica spuntò fuori uno intestato ad Adolf Hitler. Il quale, con tutto l’impegno assassino profuso, non era epperò riuscito a sottomettere l’Europa come ha fatto invece il COVID.

 

La sopravvivenza di Hitler in Amazzonia è al centro di una famosa barzelletta in cui il governo della Germania attuale, incapace di risolvere i problemi del presente, va a chiedergli di tornare per aiutare; Adolfo accetta però ponendo una condizione: «cattivi, stavolta!».

 

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

 

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Storia

Politica e storia in una domenica di fioritura del ciliegio in Giappone

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Domenica scorsa marzo a Kanazawa, i giardini Kenrokuen offrivano la vista degli ultimi fiori di pruno e dei primi fiori di ciliegio contemporaneamente, per la gioia dei molti visitatori giapponesi e stranieri.   L’atmosfera, piacevolissima nonostante il tempo uggioso, veniva però guastata da un grosso ingorgo nell’incrocio antistante la stazione, snodo nevralgico della piccola città del Giappone occidentale.   Lo stesso autista del bus su cui viaggiavo sembrava stupito, dalla radio di bordo echeggiavano le voci dei suoi colleghi che cercavano informazioni su quanto stesse accadendo.

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Nemmeno una rapida ricerca su internet forniva informazioni riguardo alla situazione, per cui, assieme agli altri viaggiatori, sono sceso dal bus di fronte al mercato di Omicho per raggiungere la stazione a piedi.  

Giardini Kenrokuen, Kanazawa. Foto dell’autore

  Il notevole schieramento di polizia e il frastuono di altoparlanti distanti mi ha subito chiarito la situazione: uyoku.   Questo è il nome (右翼、letteralmente «ala destra») con cui si definiscono i gruppi dell’estrema destra extraparlamentare giapponese, fautori di un nazionalismo filo-imperiale e ferocemente anticomunista.   Queste formazioni fanno ormai quasi parte del folklore locale giapponese: i loro furgoni neri o bianchi, su cui in genere è issata la bandiera imperiale, appaiono in genere in giro per le città in occasione delle festività nazionali. Dai loro assordanti altoparlanti escono perlopiù canti del periodo tra le due guerre (immaginate Faccetta nera in versione nipponica) e arringhe nazionaliste non troppo fluenti.    

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Il giapponese medio li ignora a causa dell’aura di violenza che li circonda, alcuni dei gruppi sono notoriamente legati alla yakuza, ma la loro effettiva pericolosità è insignificante.   Una manifestazione che arriva a paralizzare un centro urbano é tutt’altro che comune, quindi mi sono chiesto quale fosse stata la causa scatenante e ho fatto una piccola ricerca sulle notizie locali: a mettersi in rotta di collisione con gli uyoku sono stati gli zainichi kankokujin (coreani residenti in Giappone dal periodo dell’annessione nipponica della penisola coreana), forse il principale problema irrisolto della società giapponese.   Alla fine della Seconda Guerra Mondiale circa dei circa due milioni di coreani che si trovavano sul territorio giapponese (immigrati volontariamente o deportati come forza lavoro, a seconda dei casi e delle opinioni) non tutti rientrarono in Corea: circa 600.000 rimasero nell’arcipelago. La guerra di Corea e la conseguente divisione del Paese ha fatto sì che coloro rimasti in Giappone si trovassero in una sorta di limbo burocratico: privi di cittadinanza giapponese e senza un paese in cui ritornare.  
  Ci sono state indubbiamente discriminazioni nei confronti dei Coreani residenti in Giappone (i linciaggi di massa in occasione del grande terremoto del Kanto nel 1923 sono forse la pagina più nera di questa vicenda) ma molti di loro sono riusciti a integrarsi pur mantenendo la propria identità – un esempio su tutti: il visionario miliardario Masayoshi Son.   Non si può negare come la presenza coreana sia significativa anche nel crimine organizzato giapponese e nelle aree grigie che vi gravitano attorno, su tutte l’industria del Pachinko, incrocio tra flipper e slot-machine che riempi le sale giochi nipponiche.   Le associazioni di zainichi kankokujin hanno fatto molto perché le discriminazioni cessassero, ma alcune di esse, manovrate politicamente da ambo le Coree, scelgono un atteggiamento apertamente antagonistico e a volte provocatorio nei confronti della nazione in cui vivono.   E arriviamo al caso di Kanazawa: l’unione dei Coreani residenti in Giappone (在日本大韓民国民団 , Mindan) ha deciso di installare nella città una lapide in memoria di Yun Bong Gil, un attivista coreano che nel 1932 a Shanghai uccise due ufficiali dell’esercito giapponese in un attentato esplosivo. Dopo l’arresto venne traslato in Giappone e fucilato a Kanazawa.    

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Dopo l’annuncio del progetto da parte del Mindan, lo scorso 4 marzo un cinquantenne affiliato ad un’organizzazione uyoku ha schiantato la sua auto contro la sede dell’associazione coreana, senza che ci siano state vittime.   Da allora si susseguono le proteste, ed è facile immaginare che proseguiranno ancora a lungo.   Spiace che strumentalizzazioni politiche di questo tipo avvengano proprio in un momento storico in cui sembrerebbe che la pacificazione tra giapponesi e coreani del Sud stia avvenendo spontaneamente, dal basso. I turisti coreani sono infatti i più numerosi anche nel bel mezzo dell’attuale affluenza record di viaggiatori da tutto il mondo, mentre la popolarità di musica, cibo e serie televisive coreane in Giappone è ai massimi di sempre.   Auspicabilmente il buon senso popolare l’avrà vinta su chi semina discordia per i propri fini.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 dal Giappone

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