Pensiero
Occidente, isola dei morti che divora se stessa
Se vogliamo ricomporre la dinamica del caos in cui oggi siamo immersi, mettendo da parte il destino e la necessità, dobbiamo affidarci al principio di causalità, che è il cardine di ogni riflessione. E poiché si tratta appunto di un caos tutto umano, non possiamo non risalire alle possibili degenerazioni di quella ragione, distintiva degli umani, che del vivere comune dovrebbe essere il principio ordinatore e di cui l’occidente in particolare si è preteso l’elaboratore privilegiato.
Del resto, che il dono del pensiero nascondesse anche il veleno della sua pericolosità, se malamente impiegato, era stato ben compreso dagli antichi. Essi avevano già presagito il rischio contenuto anche nel vantaggio del progresso tecnico in cui la razionalità si è manifestata, nonché le implicazioni morali e spirituali per le quali i vantaggi oggettivi possono rovesciarsi nel loro contrario e determinare il deterioramento delle coscienze e dell’autocoscienza, con il superamento di quel limite, e di quella misura, che per i Greci devono governare tutta l’esistenza umana.
Il Prometeo eschileo ammette con lungimirante consapevolezza: «ho impedito agli uomini di rendersi conto della propria condizione mortale. Ho dato a loro le cieche speranze». Dunque, egli vede già le conseguenze di ogni miserabile illusione di onnipotenza, mentre il Coro impietosamente aggiunge: «adesso gli uomini possiedono il fuoco fiammeggiante. Ma la tecnica è molto più debole della necessità». Il progresso della tecnica va di pari passo, inoltre, con la evoluzione in senso scientista del pensiero filosofico.
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Non per nulla è proprio nella modernità che comincia a riaffiorare la coscienza che la degenerazione del pensiero occidentale avrebbe potuto condurre a conseguenze catastrofiche. Non occorre arrivare alla critica nicciana portata alla filosofia socratica, nella Nascita della tragedia, o a quella della ragione filosofica di Voltaire.
Già potentissima era stata la critica di Vico al razionalismo cartesiano e alla estenuazione della metafisica. Nella Scienza Nuova, nell’Italia tra sei e settecento, e in particolare in una Napoli conquistata appunto dal pensiero cartesiano, egli preconizzava una «seconda barbarie» prossima ventura, quale esito della degenerazione del pensiero filosofico e della falsa civiltà che su di esso si intendeva costruire.
Al centro della sua critica sta la considerazione che il metodo matematico non è applicabile all’uomo. Infatti «i popoli maturi distruggono con la ragione tutti i valori e tendono a disgregare la società, e si preparano la barbarie della riflessione», una barbarie che deriva dal distacco del verum dal factum, i quali invece si «convertono vicendevolmente». Insomma, quella «aedequatio rei et intellectus» di Tommaso.
Del resto, da una distorta percezione dei fatti e della loro intrinseca verità deriva una distorta formazione del giudizio, una distorta concezione dell’etica, della politica, della cultura e, alla fine, una diversa antropologia. Fenomeni che ora tocchiamo con mano.
La critica di Vico sarà ripresa dopo di lui anche in una prospettiva teologica. E tornerà con insistenza nell’insegnamento di Benedetto XVI, mai abbastanza studiato e compreso dai benpensanti cattolici. Ma era tornata con prepotenza nella analisi sociologica e anche filosofica dei pensatori della cosiddetta Scuola di Francoforte, a cavallo tra le due guerre mondiali, e poi ripresa nel dopoguerra con la pubblicazione della Dialettica dell’Illuminismo, in cui si analizza appunto come la supposta forza liberatrice dei «lumi» portati dalla ragione si sia rovesciata in una forma totalitaria di dominio.
Tanto che il suo incipit folgorante continua a rappresentare l’immagine che meglio di ogni altra rispecchia la realtà del nostro tempo. «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura».
La profezia eschilea vi figura totalmente realizzata. Eppure, il mondo contemporaneo continua a rimanere abbarbicato alla sempre rinnovata e pervasiva visione scientista, e ad ignorare la ricerca di un bene superiore comune quale valore assoluto e imprescindibile. Continua a inverare il motto di Bacone «scientia propter potentia».
Horkheimer e Adorno hanno analizzato quale sia stata la applicazione del pensiero calcolante ai processi economici moderni a partire dalla rivoluzione industriale e come essa abbia prodotto la reificazione dell’uomo, con un conseguente vero e proprio mutamento antropologico. Un mutamento che oggi ha assunto aspetti grotteschi.
Di qui la Dialettica dell’illuminismo è incentrata sulla torsione della ragione occidentale che, dopo avere preteso in via filosofica di liberare l’uomo da ogni forma di superstizione, in primis da quella individuata nella dottrina e nella fede cattolica, di cui si doveva fare tabula rasa, ha creato nuove forme di assoggettamento e nuove superstizioni. «La liberazione andò ben oltre le intenzioni e la economia mercantile scatenata era insieme la figura attuale della ragione e la forza dava scacco alla ragione». Infatti, essa, intesa come pensiero calcolante fondato sulla quantità misurabile matematicamente, nella nuova civiltà mercantile nata dalla rivoluzione industriale si è trasformata in uno strumento di dominio.
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Un rovesciamento paradossale, dunque, foriero di catastrofi morali e materiali. Infatti «la ragione è affine alla violenza o alla mediazione, a seconda di chi l’adopera. La pace e la guerra, la tolleranza e la repressione viene fatta apparire come un “dato” a seconda delle situazioni dell’individuo e dei gruppi. Il pensiero diventa completamente un organo e retrocede a “natura”».
Quegli studiosi avevano avuto modo di osservare in profondità i fenomeni da esuli nel pianeta americano, dove quell’assetto socioeconomico che si andava formando anche in Europa era già radicato. Si fermarono ad analizzare le ricadute del pensiero calcolante sulla società di massa e gli effetti già evidenti della industria culturale destinata a diventare progressivamente una delle manifestazioni più appariscenti del potere e una delle armi più potenti per la sua conservazione.
Se «l’illuminismo si era impegnato in senso liberatorio e aveva dato corso alla libera economia, alla luce della ragione illuminata si è dissolta come mitologica ogni devozione che si ritenesse oggettiva e fondata sulla realtà, e tutti i vincoli tradizionali sono incorsi nell’interdetto, compresi quelli che erano necessari all’esistenza dello stesso ordine borghese e a quel minimo di fede senza il quale il mondo borghese non può esistere».
Non solo, come abbiamo ora sotto gli occhi più che mai, «il principio antiautoritario doveva rovesciarsi nel proprio opposto: la liquidazione di ogni norma direttamente vincolante permette al dominio di decretare sovranamente gli obblighi che via via gli convengono e di manipolarlo a suo piacimento». Una profezia che non potrebbe essere più puntuale di fronte alla messa al bando in via governativa di ogni principio costituzionale e al sovvertimento dei poteri istituzionali.
Tuttavia, quegli autori non avevano ancora potuto osservare in profondità come quella degenerazione si fosse estesa dalla teoria e alla prassi con riguardo ad altri fenomeni catastrofici che hanno preso forma compiuta nei decenni successivi.
Basti prendere in considerazione due campi in cui quel pensiero calcolante libero da orpelli di ordine morale si è manifestato in modo stupefacente: quello della guerra e dei cosiddetti rapporti internazionali, e quello della morale individuale e dell’etica comunitaria.
Come è noto, negli anni della pubblicazione di Dialettica dell’Illuminismo, l’equilibrio dei rapporti tra le potenze dotate di armi atomiche teneva ancora congelata la volontà di espansione indiscriminata statunitense, che esploderà trionfalmente con la prima guerra del Golfo, imponendo ufficialmente allo stesso concetto di guerra un contenuto e un significato che doveva cambiarne anche la percezione comune.
Di certo l’imposizione di questo cambiamento era già stata tentata alla fine della prima guerra mondiale con la criminalizzazione del nemico, non più hostis ma criminale, appunto, cosa che Schmitt aveva già colto ante litteram. Una criminalizzazione ad uso dei vincitori prima dei bombardamenti a tappeto sulle popolazioni civili e prima delle bombe atomiche impiegate a scopo sperimentale e correttivo insieme e che godranno paradossalmente della più completa impunità.
Il pensiero calcolante si contrappone a un pensiero guidato da una logica benevola, cioè teleologicamente al servizio dell’uomo e non ad un utile parziale, all’interesse «di parte» di una oligarchia di potere spinta ossessivamente dallo spirito di conquista mascherato con ideali fasulli.
Un orizzonte in cui anche il significato della guerra viene reimpostato, con il ripudio implicito dello jus ad bellum e dello jus in bello faticosamente elaborati da un pensiero filosofico che aveva sperato di correggere le tentazioni distruttive sempre fatalmente riaffioranti nel tempo.
L’utilitarismo angloamericano traccia tutto un nuovo nefasto orizzonte «ideologico» sulla guerra, che impone la distruzione mirata e pedagogica della popolazione civile attraverso il bombardamento a tappeto e, secondo la dottrina di Churchill già applicata in Europa, la distruzione delle città d’arte allo scopo di fiaccare gli animi cancellando la storia. E questa è forse la forma fra le più barbariche in cui si è espresso il pensiero calcolante.
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Nel dopoguerra, il Vietnam, con i suoi esiti tragici, contiene già il paradigma micidiale della guerra statunitense, del resto risalente al tempo della prima conquista, dove la sproporzione dei mezzi cambia la guerra in massacro. Mentre anche la logica diabolica della produzione bellica si sposa felicemente con l’ossessione della conquista e del dominio.
Ma è stata la prima guerra del Golfo ad arricchirsi di un nuovo elemento: la spettacolarizzazione che, almeno nelle battute iniziali, doveva fornire una nuova percezione della guerra, del tutto lontana dalla realtà oggettiva, e a produrre, smaterializzando gli eventi, la sublimazione di ogni disvalore etico, neutralizzato insieme al possibile giudizio morale.
Molti di noi possono ricordare di avere assistito a quel film surreale trasmesso in via televisiva, in cui comparivano soltanto tante luci intermittenti nella notte e senza ombra di morte. Non vi sarebbero comparsi i centocinquantamila morti a fronte dei centoventiquattro americani caduti anche per fuoco amico. Tuttavia, l’illusione filmica durò poco e presto si ebbero anche le immagini della distruzione dall’alto dell’esercito iracheno in fuga.
Intanto è stata creata un’etica truffaldina di supporto. È nata con stupefacente insolenza la guerra umanitaria e in seguito, con grande sprezzo del ridicolo, anche la generosa esportazione della democrazia che, tra l’altro, manca del tutto nei magazzini degli esportatori, insieme ai limitrofi e altrettanto equivoci diritti umani, recipiente linguistico a contenuto variabile ma fornito di una studiata capacità suggestiva.
Sul tema, prima del Bombardamento etico di Costanzo Preve, venne pubblicato in quegli anni un libro doppiamente profetico: Fuori dall’ Occidente di Alberto Asor Rosa, dove il tema della guerra, che si riproporrà con tutte le altre guerre puntualmente inscenate dall’impero statunitense, viene messo in relazione con l’Apocalisse di San Giovanni.
Doppiamente profetico, perché da un lato vediamo previsti in controluce più o meno tutti fenomeni di cui siamo oggi impotenti spettatori. Dall’altro, perché associa lo svolgimento mostruoso degli avvenimenti presenti e presentiti, che di fatto si sono succeduti dalla prima guerra del Golfo ai giorni nostri, al quadro apocalittico giovanneo, cioè alla visione profetica della lotta estrema tra Bene e Male.
In questo spazio temporale, la degenerazione del pensiero «occidentale» si è dispiegata in pieno come volontà di potenza di quel nuovo Occidente politicamente definito che ha risucchiato in sé l’antico Occidente europeo ormai reso impotente sia materialmente sia intellettualmente in quanto sottomesso del tutto al primo.
Altre micidiali «guerre» programmate a tavolino, hanno inscenato gratuitamente e in forma delittuosa immani catastrofi di morte e distruzione, e proprio quando, con il nuovo 89, era sembrato nella euforia di un momento che dovesse ormai instaurarsi la pace universale nel superamento del dissidio ideologico.
Ma la prima guerra del Golfo era venuta appunto a mostrare che a una pace fittizia fondata sull’equilibrio delle forze era succeduta l’era della guerra come programma planetario istituito stabilmente e gestito da una sola potenza egemone. Che non solo non sarebbe stata ammessa contraddizione, ma anzi sarebbe stata dettata anche la lettura obbligatoria di quel programma di cui dovevamo rimanere spettatori impotenti.
Non per nulla Asor Rosa esordisce ricordando di avere tratto l’ispirazione per la sua «scrittura» nella fase tragica e decisiva della guerra del Golfo, perché gli «sembrò incredibile che potesse restare senza risposta sia l’immanità dell’evento, sia l’immanità della rimozione che subito dopo ne fu compiuta, con la stessa disinvoltura con cui si può sopprimere uno schermo luminoso, azionando il pulsante di un televisore».
«La spettacolarizzazione senza vera rappresentazione della realtà» aveva neutralizzato l’orrore della guerra. Da quella rappresentazione mancavano le ragioni, mancava il conflitto. Il nichilismo potenziale che il conflitto mortale porta con sé è arrivato alla sua massima risoluzione agghiacciante; è restata la guerra senza il principio del conflitto: la fine del conflitto ha istituzionalizzato e legittimato il governo del male.
Di qui anche l’idea, per l’autore, di una rilettura dell’Apocalisse che, per la contiguità impressionante delle immagini evocate, avvicina gli eventi contemporanei ai temi del libro profetico. Temi che una stupefacente serie di arazzi antichissimi conservati nel castello di Angers aveva tradotto in impressionanti immagini allegoriche capaci di rispecchiare ancora perfettamente l’eternità e quindi l’attualità del messaggio apocalittico.
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È oggi più che mai sotto i nostri occhi come quella torsione dello stesso concetto di guerra, diventata prassi consolidata, si sia ripresentata puntualmente nella soluzione finale allestita a Gaza dal potente vassallo israeliano. Appare tutta dispiegata quella concezione barbarica alla quale si era cercato un antidoto in epoca moderna, quando un pensiero veramente evoluto aveva relegato quel fenomeno in un passato da cui la civiltà del secondo millennio dopo Cristo intendeva prendere le distanze.
In una visione di certo ottimistica, pensatori come Grozio e Alberigo Gentili avevano cercato di teorizzare la messa in forma della guerra e di gettare le basi di quel diritto internazionale tanto fragile e velleitario da non costituire un argine sicuro per le prepotenze umane, ma capace comunque di rappresentare un richiamo stabile al primato della retta ragione sulle incontrollate pulsioni e passioni del potere e dei popoli.
Ora, invece, il modello ispiratore di questo occidente ideologicamente definito sembra essere quello dello sterminio sistematico dei Sassoni allestito da Carlomagno; uno diventato, per ironia della sorte, il patrono della nuova Europa partorita dal feudatario statunitense in virtù dei «valori comuni».
Come è noto, Apocalisse è Rivelazione, ricorda il nostro autore, ma il senso comunemente attribuito è quello di catastrofe, e «c’è una immensa sapienza in questa storia di parole. Perché per la prima volta nella storia c’è uno stato che può farsi da solo giudice, gendarme e boia. Infatti, chi ha assunto di fatto il potere egemone, si è dato anche la funzione di giudice e il potere insindacabile di intraprendere impunemente tutte le guerre inanellate dopo il secondo conflitto mondiale di cui si è eletto a vincitore perpetuo. Lo stesso diritto internazionale elaborato dal pensiero europeo è stato definitivamente soppresso perché ridotto a mera figura retorica dai sedicenti portatori di “valori” politici pubblici e privati detti riassuntivamente “democratici”. In altre parole, non è stato eliminato da chi, violandolo, ne ha confermato l’esistenza, ma da quanti hanno rivendicato, per fatti concludenti, il diritto di negarne l’esistenza».
A cominciare da quello che ne dovrebbe essere il cardine etico, ovvero il principio del «pacta sunt servanda», seppellito con irridente disinvoltura dai sottoscrittori «occidentali» degli accordi di Minsk.
Ma altrettanto appariscente è la degenerazione del pensiero occidentale che, invadendo il campo dell’etica, sembra trapassare semplicemente nella demenza.
Il sovvertimento di ogni principio morale applicato alla sfera della vita famigliare e sessuale, con il miraggio primario e ossessivo di catturare la coscienza infantile, mostra come quella degenerazione sia giunta a forma compiuta.
Qui si squadernano tutti gli equivoci alimentati anche dal pensiero filosofico attorno al concetto di natura e a quello limitrofo di legge naturale. Qui la manipolazione delle parole e dei concetti e la arbitrarietà delle definizioni mettono in moto il congegno perverso con cui una logica fasulla pretende di funzionare a partire da premesse arbitrarie.
È indubbio che i giochi di prestigio allestiti con lo sventolio delle bandierine delle libertà e dei diritti, delle emancipazioni e delle uguaglianze e delle simmetriche oppressioni, abbiano alzato una cortina fumogena sulle capacità cognitive di molti «operatori culturali» nella politica, nella scuola di ogni ordine e grado, per non parlare di una Chiesa afflitta da insolubili problemi tecnici di ristrutturazione.
In ogni caso, la stessa campagna omosessualista, insieme a quelle contigue del neofemminismo linguisticamente attrezzato e del genderismo dai larghi orizzonti, è il prodotto organizzato e ben orchestrato secondo i canoni della industria capitalistica dai potentati dell’impero in dissoluzione morale e culturale.
Sulla strada imboccata dalla degenerazione del pensiero occidentale a trazione statunitense, si è posta obbediente l’Europa alacremente impegnata a creare una nuova illuminata antropologia. Mentre imperdonabile è stata considerata anche dai vassalli occidentali la resistenza della Russia e della sua Chiesa. E si capisce: il male, se non risulta condiviso, comincia a perdere la propria forza propulsiva.
Gli autori della Dialettica dell’Illuminismo non avevano fatto in tempo a considerare questo sbocco concreto e particolare del pensiero occidentale. Ma ne avevano messo in conto la possibilità analizzando la parte assunta da De Sade nella distruzione illuministica della morale familiare e sessuale. Quel pensiero nefando e nefasto si era calato tutto senza riserve di sorta nelle pagine di Juliette e Justine, sulle quali essi si soffermano a lungo. Anche su quel versante, infatti, l’illuminismo aveva dato il meglio di sé, rovesciandosi nell’abominio.
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Senza contare però che il rivoltante disfacimento morale, propagandato da De Sade, alla fine si trovò a cozzare con le altrettanto distruttive esigenze pratiche napoleoniche quando il grande conquistatore, anche egli figlio di una rivoluzione illuminata, si trovò a dover convincere le madri di Francia a mandare al massacro i propri figli. Cosa che gli riuscì se, alla fine della sua mortifera parabola, quello era rimasto solo un Paese di donne.
Ora il genderismo di importazione si articola soprattutto in transgenderismo e su questo si appunta l’illuminata attenzione di amministratori pubblici, autorità accademiche e clinici in carriera.
Questo robusto impegno culturale non lascia inutile spazio ai venti di guerra che soffiano da ogni parte a distanza ravvicinata, non rientra nel mansionario di amministratori e accademici studiare la deriva economica di un Paese sotto ricatto, e tanto meno le difficoltà esistenziali di tanti amministrati e concittadini, per non dire di quelle legate alla dissoluzione programmata del sistema sanitario. L’ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Padova organizza un importante convegno su «La salute delle persone transgender».
Ma le metastasi del pensiero occidentale ridotto allo stremo, e non per questo meno dannoso, si esprimono in tanti modi. Non ultimo il conferimento della laurea post mortem alla vittima di un delitto di sangue. Qui non c’è neppure il rovesciamento della funzione liberatrice della ragione illuminata, c’è soltanto la sua dismissione per non uso, secondo il tranquillizzante principio di irresponsabilità.
Ma forse il buon senso finirà per prevalere, magari quando le vittime di questa demenza presenteranno il conto del proprio tempo perduto.
In fondo, se si riattiva questa facoltà primordiale che ha a che fare più propriamente con la ragione, e mantiene di fronte a ogni avversità la propria funzione salvifica, tutto questo ciarpame può tornare a liquefarsi nel secchio dei rifiuti.
Forse l’occidente europeo potrebbe ritrovare la funzione autentica di una razionalità al servizio della verità delle cose.
Nelle pagine conclusive di Fuori dall’occidente leggiamo: «una Riforma si ha soltanto in interiore homini: ovvero passando attraverso la propria anima si può uscire dall’Occidente, e dalla seconda barbarie da cui siamo travolti».
Un’anima che ovviamente non ha nulla a che fare con quella che la Thatcher intendeva conquistare in nome del neoliberismo, e che anzi si pone contro l’orizzonte assiologico della signora. Si tratta di ritrovare l’orientamento al Bene anche se bisogna superare l’ostacolo dell’indifferentismo. Che è un modo di vita al servizio del potere, ed è la forma compiuta e perversa della degenerazione della ragione.
L’indifferentismo è lo strumento aggiornato con cui il potere politico militare ed economico riesce a prevenire ogni moto di rivolta, o a renderlo innocuo. Quello che è riuscito a far crollare le antiche mura della Chiesa, sopra una massa dei fedeli incapaci di pensiero e di giudizio. Che ha fatto dismettere tutto il patrimonio culturale accumulato dall’Occidente europeo sotto il peso invasivo di un altro occidente.
Solo contro questa forma di nichilismo è forse possibile tentare la risalita.
Patrizia Fermani
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.
L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.
Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax
— The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.
Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.
Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.
Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».
«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».
La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.
«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».
Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».
Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.
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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.
Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.
Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.
Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.
Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.
Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.
Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.
Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.
Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.
Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.
Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.
Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.
Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.
Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.
Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.
Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.
Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.
Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.
Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.
Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.
Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.
Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.
Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.
Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.
Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.
Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.
Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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