Civiltà
Vendetta e sacrificio: i bianchi come capro espiatorio

Le solite critiche alla Critical Race Theory («Teoria critica della razza», CRT) ormai sono diventate cliché.
La CRT essenzializza la razza e quelli all’interno delle razze, immaginando tutti i bianchi come razzisti e tutti i neri oppressi. Tratta le persone non come individui con motivazioni e obiettivi individuali, ma strettamente come membri del loro gruppo razziale. Nega il libero arbitrio alle stesse persone che mira a liberare. Implica che l’appartenenza a un gruppo razziale determina le credenze e i comportamenti di coloro che fanno parte di detti gruppi, limitando l’apprezzamento della loro piena umanità. Attribuisce tutti i risultati all’appartenenza a gruppi razziali, negando così il merito a quelli nella categoria «dominante» (bianchi), mentre nega la responsabilità a quelli nelle categorie «subordinate» (neri, indigeni e persone di colore, o BIPOC). Rende i bianchi contemporanei colpevoli per i peccati dei bianchi morti da tempo che hanno beneficiato della schiavitù. Continuando a insistere incessantemente sulla razza, esacerba se non crea conflitti razziali. La CRT crea divisione e minaccia l’ordine sociale provocando inimicizia perpetua tra le razze. Così va la storia.
La CRT essenzializza la razza e quelli all’interno delle razze, immaginando tutti i bianchi come razzisti e tutti i neri oppressi
Gli stessi tipi di critiche possono essere rivolte agli Critical Whiteness Studies, gli studi critici sulla bianchezza (CWS) .
Tali analisi sono ormai innumerevoli. Piuttosto che impegnarmi in questo tipo di commento critico, in questo articolo, mi propongo di capire come CRT e il suo ramo, CWS, funzionano nel campo sociale.
Come funziona l’«abolizione della whiteness» (1), probabilmente l’obiettivo finale di CRT e CWS?
La CRT crea divisione e minaccia l’ordine sociale provocando inimicizia perpetua tra le razze
Come potremmo comprendere il trattamento della whiteness da parte di CRT e CWS e l’intenzione di abolirlo?
Sacrificio rituale del capro espiatorio
Il sacrificio, come sosteneva René Girard, è un meccanismo rituale di violenza che nelle società primitive serviva a sostituire una vittima al posto del vero colpevole nel tentativo di mitigare la violenza altrimenti diretta alla comunità, violenza che altrimenti non avrebbe avuto fine:
Il sacrificio, come sosteneva René Girard, è un meccanismo rituale di violenza che nelle società primitive serviva a sostituire una vittima al posto del vero colpevole nel tentativo di mitigare la violenza altrimenti diretta alla comunità, violenza che altrimenti non avrebbe avuto fine
«Perché lo spirito di vendetta, ovunque si manifesti, costituisce una minaccia così intollerabile? Forse perché l’unica vendetta soddisfacente per il sangue versato è versare il sangue dell’assassino; e nella vendetta di sangue non c’è una chiara distinzione tra l’atto per il quale l’assassino viene punito e la punizione stessa. La vendetta professa di essere un atto di rappresaglia, e ogni rappresaglia richiede un’altra rappresaglia. Il crimine a cui si rivolge l’atto di vendetta non è quasi mai un reato senza precedenti; in quasi tutti i casi è stato commesso per vendetta di qualche crimine precedente. La vendetta, quindi, è un processo interminabile, infinitamente ripetitivo. Ogni volta che si presenta in qualche parte della comunità, minaccia di coinvolgere l’intero corpo sociale. C’è il rischio che l’atto di vendetta inizi una reazione a catena le cui conseguenze si dimostreranno rapidamente fatali per qualsiasi società di modeste dimensioni. Il moltiplicarsi delle rappresaglie mette istantaneamente in pericolo l’esistenza stessa di una società, ed è per questo che è universalmente vietata». (2)
Il sacrificio, sostiene Girard, è un atto di violenza inteso a prevenire una violenza maggiore, la violenza reciproca della vendetta che se lasciata incontrollata minaccia l’estinzione della comunità.
Il sacrificio, sostiene Girard, è un atto di violenza inteso a prevenire una violenza maggiore, la violenza reciproca della vendetta che se lasciata incontrollata minaccia l’estinzione della comunità.
Il sacrificio è quindi un mezzo per limitare e circoscrivere la violenza. Il sacrificio rituale, sostiene Girard, serve come mezzo violento con cui si può evitare una violenza così infinita. La violenza viene deviata su un capro espiatorio sacrificale, che prende il posto di un prototipo su cui sarebbe altrimenti emanata, che istigerebbe ulteriore vendetta. La vittima funge da surrogato per il suo prototipo.
In definitiva, il prototipo non è un singolo individuo, ma piuttosto la comunità in generale, perché la vendetta assoluta minaccia tutti. Il sacrificio è offerto al posto di tale vendetta sfrenata:
«La vittima non è un sostituto di un individuo particolarmente in pericolo, né viene offerta a qualche individuo di temperamento particolarmente assetato di sangue [un dio]. Piuttosto, è un sostituto per tutti i membri della comunità, offerto dai membri stessi. Il sacrificio serve a proteggere l’intera comunità dalla propria violenza; spinge l’intera comunità a scegliere vittime al di fuori di se stessa. Gli elementi di dissenso sparsi nella comunità vengono attratti dalla persona della vittima sacrificale ed eliminati, almeno temporaneamente, dal suo sacrificio». (3)
Il sacrificio è quindi un mezzo per limitare e circoscrivere la violenza. Il sacrificio rituale serve come mezzo violento con cui si può evitare una violenza così infinita. La violenza viene deviata su un capro espiatorio sacrificale, che prende il posto di un prototipo su cui sarebbe altrimenti emanata
La whiteness come capro espiatorio
L’abolizione della bianchezza, sostengo, può essere intesa in termini di sacrificio rituale di un capro espiatorio. Non mi riferisco qui al capro espiatorio dei poveri, per lo più rurali, da parte di un’élite urbana bianca, come molti hanno fatto prima di me. (4)
Secondo questa formulazione, i bianchi poveri si assumono i peccati di quei bianchi che traggono maggior beneficio dalle condizioni esistenti. Piuttosto, sto sostenendo che nella CRT e negli CWS, il bianco è il capro espiatorio; la whiteness rappresenta gli stessi bianchi.
La whiteness diventa il capro espiatorio su cui deve essere messa in atto la vendetta simbolica. La bianchezza è un capro espiatorio perché non è la bianchezza di per sé che ha fatto violenza al BIPOC. Dopotutto, il bianco è un’astrazione. Piuttosto, la bianchezza rappresenta per gli autori in gran parte un inconscio inconscio di sostituzione. L’abolizione del bianco previene la vendetta senza fine, mentre allo stesso tempo la attua. Poiché l’abolizione del bianco non è mai completa, il sacrificio deve essere continuo. CRT e CWS si affermano così come disposizioni e movimenti teorici perennemente necessari, assicurando la loro longevità e la necessità dei loro teorici.
La bianchezza diventa il capro espiatorio su cui deve essere messa in atto la vendetta simbolica. Dopotutto, il bianco è un’astrazione. Piuttosto, la bianchezza rappresenta per gli autori in gran parte un inconscio inconscio di sostituzione
Girard rileva tre requisiti che le vittime del sacrificio rituale devono soddisfare per poter fungere da surrogati adeguati:
1) i surrogati devono avere una somiglianza, ma non troppo, al prototipo escluso dalla violenza;
2) le vittime devono essere emarginate di qualche tipo; devono essere sacrificabili; quindi, non devono essere completamente integrati nel corpo sociale;
3) le vittime devono essere sufficientemente allontanate dai legami sociali in modo che «possano essere esposte alla violenza senza timore di rappresaglie. La loro morte non comporta automaticamente un atto di vendetta». (5) Cioè, le vittime devono essere sufficientemente disconnesse dal corpo sociale per evitare ritorsioni.
La whiteness soddisfa ciascuno di questi requisiti.
L’abolizione del bianco previene la vendetta senza fine, mentre allo stesso tempo la attua. Poiché l’abolizione del bianco non è mai completa, il sacrificio deve essere continuo
Primo, sebbene sia una qualità astratta, il bianco ha una somiglianza con il suo prototipo: i bianchi.
In secondo luogo, a causa dell’incessante indottrinamento e propaganda della CRT, la whiteness è diventata una qualità abietta che può essere sacrificata senza scrupoli; la bianchezza non è una qualità rispettabile tale da dover essere protetta.
Terzo, poiché è un’astrazione, il bianco non ha legami sociali; la whiteness può essere sacrificata senza istigare ulteriori atti di vendetta.
Il sacrificio è ancora operativo?
Tuttavia, adottando la teoria del sacrificio rituale di Girard per il momento contemporaneo e in particolare nel contesto di CRT e CWS, si presentano immediatamente alcuni problemi.
Come astrazione, il bianco è più simile a una bambola voodoo concettuale che al capro espiatorio sacrificale del sacrificio rituale
Per uno, la «violenza» nel sacrificio della whiteness, almeno per quanto riguarda la teoria critica della razza e gli studi critici sui bianchi , è strettamente simbolica. L’abolizione della bianchezza non implica il sacrificio letterale come nelle società arcaiche. Chiaramente, CRT e CWS non implicano l’uccisione fisica del bianco. Come astrazione, il bianco è più simile a una bambola voodoo concettuale che al capro espiatorio sacrificale del sacrificio rituale. Come la sinistra è incline a dire riguardo gli Antifa, il bianco è semplicemente «un’idea». Non puoi uccidere fisicamente un’idea (che, in effetti, potrebbe essere il problema).
Tuttavia, si può sostenere che tutti i sacrifici rituali sono simbolici. La violenza contro il surrogato simboleggia la vendetta non messa in atto contro il prototipo. Il sacrificio della bianchezza esclude semplicemente tutto tranne l’aspetto simbolico del sacrificio rituale. Non è meno sacrificale per questo.
Il problema più difficile per questa formulazione è l’apparente esclusione di società come la nostra dalla pratica del sacrificio rituale da parte di Girard. Girard suggerisce che non viviamo più in una società in cui è necessario il sacrificio:
Il sacrificio non viene praticato in società come la nostra non perché siamo moralmente superiori o perché abbiamo interiorizzato una nozione di giustizia astratta, ma perché il sacrificio non è più necessario
«Eppure le società come la nostra, che in senso stretto non praticano riti sacrificali, sembrano andare d’accordo senza di loro. La violenza esiste senza dubbio all’interno della nostra società, ma non a tal punto che la società stessa sia minacciata di estinzione». (6)
Nel sostenere questo, Girard non sta affatto facendo un paragone morale tra società moderne (o postmoderne) e arcaiche. Si riferisce semplicemente a una differenza funzionale. Il sacrificio non viene praticato in società come la nostra non perché siamo moralmente superiori o perché abbiamo interiorizzato una nozione di giustizia astratta, ma perché il sacrificio non è più necessario:
«Non si tratta di codificare il bene e il male o di ispirare il rispetto per qualche concetto astratto di giustizia; si tratta piuttosto di garantire la sicurezza del gruppo controllando l’impulso di vendetta». (7)
Secondo Girard, il fattore che ovvia al sacrificio per società come la nostra è lo sviluppo del sistema giudiziario che rende il sacrificio non necessario perché serve ad arginare la spirale della vendetta, un ruolo che il sacrificio ha svolto finora ma non così bene come il sistema giudiziario fa per noi
Girard non sta postulando una narrazione del progresso morale, anche se suggerisce che qualcosa è cambiato che ha reso il sacrificio non necessario. Allora come viene controllato l’impulso di vendetta? Secondo Girard, il fattore che ovvia al sacrificio per società come la nostra è lo sviluppo del sistema giudiziario:
«La vendetta è un circolo vizioso il cui effetto sulle società primitive può solo essere ipotizzato. Per noi il cerchio si è rotto. Dobbiamo la nostra fortuna soprattutto a una delle nostre istituzioni sociali: il nostro sistema giudiziario, che serve a deviare la minaccia della vendetta». (8)
Il sistema giudiziario rende il sacrificio non necessario perché serve ad arginare la spirale della vendetta, un ruolo che il sacrificio ha svolto finora ma non così bene come il sistema giudiziario fa per noi.
Delegando e limitando il ruolo della vendetta al sistema giudiziario, le società moderne hanno dato al sistema giudiziario l’ultima parola sulla vendetta. La vendetta si ferma con il verdetto di «colpevolezza»:
Il sistema giudiziario, come osserva Girard, svolge la stessa funzione del sacrificio, solo che lo fa meglio. La vendetta, sebbene oscurata, viene tuttavia intrapresa
«La rottura arriva nel momento in cui l’intervento di un’autorità legale indipendente diventa vincolante. Solo allora gli uomini sono liberati dai terribili obblighi di vendetta. La punizione nella sua veste giudiziaria perde la sua terribile urgenza. Il suo significato rimane lo stesso, ma questo significato diventa sempre più indistinto o addirittura svanisce alla vista. In effetti, il sistema funziona meglio quando tutti gli interessati sono meno consapevoli che ciò comporta una retribuzione. Il sistema può – e non appena potrà – riorganizzarsi attorno all’imputato e al concetto di colpa. In effetti, la vendetta continua a prevalere, ma forgiata in un principio di giustizia astratta che tutti gli uomini sono obbligati a sostenere e rispettare». (9)
Quindi, sembrerebbe che Girard stia suggerendo che il sacrificio non è più funzionale oggi. Allo stesso modo, il bianco non può essere un capro espiatorio sacrificale offerto per prevenire la violenza.
Tuttavia, uno sguardo più attento alla relazione omologa tra sacrificio e sistema giudiziario può indicare la persistenza del sacrificio, spostato solo in un altro registro. Il sistema giudiziario, come osserva Girard, svolge la stessa funzione del sacrificio, solo che lo fa meglio. La vendetta, sebbene oscurata, viene tuttavia intrapresa:
«La religione primitiva [soprattutto il sacrificio rituale] addomestica, addestra, arma e dirige impulsi violenti come forza difensiva contro quelle forme di violenza che la società considera inammissibili. Postula una strana miscela di violenza e nonviolenza. Lo stesso si può forse dire del nostro sistema di controllo giudiziario»
«La religione primitiva [soprattutto il sacrificio rituale] addomestica, addestra, arma e dirige impulsi violenti come forza difensiva contro quelle forme di violenza che la società considera inammissibili. Postula una strana miscela di violenza e nonviolenza. Lo stesso si può forse dire del nostro sistema di controllo giudiziario». (10)
Sia il sacrificio rituale che il sistema giudiziario mettono in atto la vendetta. Infatti, Girard vede nel sistema giudiziario una forma di vendetta più efficace e diretta. «Se il nostro sistema sembra più razionale, è perché si conforma più strettamente al principio della vendetta». (11)
Tuttavia, il sistema giudiziario differisce dal sacrificio rituale poiché individua la parte «colpevole» e proclama vendetta in particolare su di loro, precludendo così atti di vendetta in corso. Non si prende un sostituto al posto del trasgressore. Il sistema giudiziario individua il trasgressore e gli limita la vendetta, ponendo così fine alla spirale della vendetta.
Tuttavia, un sistema giudiziario imperfetto può ed è stato utilizzato come motivazione per continuare la catena della vendetta, e in alcuni casi, la convinzione che la giustizia non sarà mai resa da esso ha incitato i parenti e gli avvocati delle vittime a «prendere la legge in le proprie mani», a volte prima di qualsiasi azione da parte del sistema giudiziario.
Sia il sacrificio rituale che il sistema giudiziario mettono in atto la vendetta. «Se il nostro sistema sembra più razionale, è perché si conforma più strettamente al principio della vendetta
Il movimento Black Lives Matter, ispirato alla CRT, è solo uno di questi esempi. Questo fenomeno parla di un sistema che non ha mai e non potrà mai essere perfezionato, lasciando allo stesso modo la porta aperta ad atti di vendetta «privati».
E da atti di vendetta privati, secondo la logica di Girard, segue un ruolo continuo di sacrificio in società come la nostra.
Osservazioni conclusive
Chi può leggere oggi del sistema giudiziario, del sacrificio e della teoria del capro espiatorio, senza pensare al caso di Derek Chauvin, l’ufficiale di polizia recentemente condannato per due capi di omicidio e uno di omicidio colposo per la morte di George Floyd?
Qualunque cosa si pensi del verdetto, non si può tuttavia vedere nelle condanne un caso di sacrificio in cui la violenza fatta all’imputato ha l’effetto diretto di precludere ulteriori violenze nel più ampio corpo sociale?
Infatti, visti gli appelli alla violenza da parte dei funzionari statali in caso di assoluzione, e data la violenza diffusa in risposta alla morte di Floyd, si poteva prevedere o accettare qualche altro verdetto?
Condanna del poliziotto Derek Chauvin: visti gli appelli alla violenza da parte dei funzionari statali in caso di assoluzione, e data la violenza diffusa in risposta alla morte di Floyd, si poteva prevedere o accettare qualche altro verdetto?
Anche se Chauvin fosse innocente di omicidio e omicidio colposo, qualsiasi cosa al di fuori della sua condanna su tutti i fronti probabilmente avrebbe scatenato una violenza diffusa. Infatti, anche con la condanna di Chauvin, gli attivisti del BLM continuano ad agitare e minacciare la violenza. Tale violenza potrebbe chiaramente essere paragonata alla stessa catena di vendetta che il sacrificio dovrebbe prevenire.
Qualunque sia il crimine di Chauvin (e il suo stesso cognome, «Chauvin», suggerisce uno «sciovinismo» di cui la «whiteness» è un esempio estremo), il suo ruolo sacrificale difficilmente può essere negato.
Ma torniamo al capro espiatorio originale qui trattato: il bianco.
Se il bianco è un capro espiatorio, cosa rappresenta esattamente? Qual è il suo prototipo? Il prototipo è ogni bianco, o il bianco è piuttosto una metonimia per un gruppo selezionato di (per lo più) bianchi che, in virtù dell’impossibilità di esigere vendetta diretta su di loro, e in virtù del loro potere di deviare la vendetta su un altro, sono riusciti a sfuggire alla vendetta?
Il bianco è il surrogato di un’élite dominante che ha tentato di fare della massa dei bianchi, che hanno avuto poco o nulla a che fare con l’oppressione storica, il capro espiatorio dei propri crimini?
In altre parole, il bianco è il surrogato di un’élite dominante che ha tentato di fare della massa dei bianchi, che hanno avuto poco o nulla a che fare con l’oppressione storica, il capro espiatorio dei propri crimini?
Se è così, allora CRT e CWS servono effettivamente a deviare la vendetta da questo prototipo. CRT e CWS servirebbero così questa élite dominante.
Dopotutto, sebbene il bianco sia un sostituto, come sottolinea Girard, il prototipo che sostituisce non viene mai completamente dimenticato. La whiteness continua ad essere associata alla maggior parte dei bianchi, mentre coloro che traggono vantaggio dall’oppressione storica scappano.
Michael Rectenwald
1) «L’abolizione della bianchezza» è un termine usato in CWS, che è una propaggine e affine alla teoria critica della razza. Lo storico marxista e teorico della razza David Roediger potrebbe essere stato il primo a usare la frase nel suo libro Toward the Abolition of Whiteness: Essays on Race, Class and Politic s (1994). Abolire il bianco implica lo smantellamento delle strutture che presumibilmente producono «privilegio bianco», annullando così il razzismo. Nel contesto della CWS, i bianchi che partecipano all’abolizione del bianco sono definiti positivamente come «traditori della razza».
2) René Girard, Violence and the Sacred (New York e Londra: Continuum, 2005), p. 15.
3) Girard, Violence and the Sacred , p. 8.
4) Vedi ad esempio Jim Goad, The Redneck Manifesto: How Hillbillies, Hicks, and White Trash Became America’s Scapegoats (New York: Simon and Schuster, 2014).
5) Girard, Violence and the Sacred , p. 13.
69 Girard, Violence and the Sacred , p. 14.
7) Girard, Violence and the Sacred , p. 22.
8) Girard, Violence and the Sacred , p. 16.
9) Girard, Violence and the Sacred , p. 22.
10) Girard, Violence and the Sacred , p. 21.
11) Girard, Violence and the Sacred , p. 23.
Articolo apparso su Mises Institute, tradotto e pubblicato su gentile concessione del professor Rectenwald.
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Civiltà
La Civiltà è amare i nostri nonni

Francesco Rondolini è collaboratore e «complice» di Renovatio 21 da tantissimi anni. Francesco in questi giorni ha perso la nonna – a lui vanno le nostre più sentite condoglianze. Ci ha mandato questo testo sull’importanza dei nostri vecchi. Lo ripubblichiamo pensando a quanto sia vero, e giusto: il valore dei nonni – loro che hanno curato noi, noi che ora curiamo loro – non va dimenticato. Mai. Perché la Civiltà stessa dipende dall’amore che abbiamo per loro, e loro per noi.
Da sempre ho vissuto con i nonni e i genitori accompagnandoli fino all’ultimo giorno nelle loro rispettive sofferenze. Oggi siamo rimasti io e mia mamma.
Mia nonna, ultima rimasta, all’alba dei quasi cento anni se n’è andata serenamente. D’ora in poi mancherà quella routine giornaliera fatta di faccende domestiche in compagnia dei miei cari fino all’ultimo dei loro giorni, di concerto con il mio lavoro. Accudire e coccolare una persona anziana e bisognosa, è stato un privilegio raro che mi obbliga a ringraziare Dio ogni giorno per il miracolo che mi ha concesso di poterci convivere per oltre quarant’anni.
Un tempo speso per accumulare tradizione, sapienza, affetto, amore, coccole, gioie, ma anche dolori e difficoltà. La missione che mi sono trovato è stata senza apparente scelta: rimanere al fianco delle persone a me più care.
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Dopo la perdita di mia nonna, molte cose sono cambiate in un attimo, primo fra tutte, la fine di un’era della vita. Gli scherzi, i dialoghi mattutini dicendosi sempre le stesse cose, il prendersi cura, l’affetto reciproco, davano quello che è l’essenza stessa della vita, ossia la vicinanza sentimentale, la presenza, la condivisione di un qualcosa che con altri è impossibile condividere.
Una ricorrenza edificata dagli stessi gesti che dettano le giornate e danno un senso profondo alla quotidianità. Il valore prezioso dei nonni, tanto più se vivono nella stessa casa, è incommensurabile. La crescita, l’educazione impartita, in taluni casi persino il lavoro in condivisione, sono tasselli che si aggiungono ad una crescita formativa e spirituale.
In una società utilitaristica come quella in cui viviamo, troppe volte gli anziani appaiono come un peso, un ostacolo ai nostri desideri, un impiccio alla soddisfazione dei nostri effimeri egoismi. L’egoismo come ragion d’essere; «io voglio vivere la mia vita», «pretendo di vivere la mia vita», oscurati da qualsiasi afflato di bontà e carità verso il prossimo.
La disumanità che ci vede lasciare «i fragili» abbandonati a loro stessi, senza una telefonata, senza una visita, senza una carezza, senza una parola di conforto. Tutto questo in una società «moderna e inclusiva» è del tutto inaccettabile, ma evidentemente l’inclusività non deve ledere la mia libertà personale, le mie abitudini, la mia palestra, i miei aperitivi, le mie notti in discoteca, perché «ho bisogno dei miei spazi e devo godermi la vita».
L’effimero che sovrasta il sacrificio della sostanza, un vizio perverso di questo secolo.
Nella «demenza pandemica» dei distanziamenti sociali ci hanno detto che per preservare i nostri nonni dovevamo stargli lontano, isolarli, come dichiarò il capo della sanità dello Stato australiano del Queensland ha detto ai nonni di «non avvicinarsi ai propri nipoti».
Come aveva riportato questo sito, in Giappone uno studio accademico aveva registrato un omicidio ogni otto giorni, spesso accompagnato dal suicidio dal coniuge o del figlio che forniva assistenza domiciliare all’anziano. L’isolamento da COVID portò all’esplosione del problema. Il nodo della carenza di personale qualificato in grado di offrire sostegno, ha sottolineato la difficoltà nel reperire badanti o personale disposto ad aiutarci nella gestione dei nostri cari.
Mi aveva impressionato, sempre su Renovatio 21, la storia di Yusuke Narita, assistente professore di economia a Yale , che ha lanciato una sua proposta per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione giapponese: bassissimo tasso di nascite (come l’Italia) e il più alto debito pubblico nel mondo sviluppato portano il Paese alla prospettiva di non poter reggere il peso delle pensioni. «Sento che l’unica soluzione è abbastanza chiara. Alla fine, non può essere il suicidio di massa e il seppuku di massa degli anziani?»
Il Seppuku è un atto di sventramento rituale che era un codice tra i samurai disonorati nel XIX secolo. Per qualche ragione, in occidente lo chiamiamo harakiri, parola che è scritta con gli stessi ideogrammi ma è di letta in altro modo: il significato è lo stesso, il taglio della pancia, l’autosbudellamento rituale, quello che un po’ in tutto il mondo si conosce come peculiarità del Giappone con i suoi infiniti sensi del dovere.
Sempre qui abbiamo parlato degli abusi e delle violenze tanto che secondo una ricerca dell’Australian Institute of Family Studies (AIFS), quasi un anziano australiano su sei (14,8%) riferisce di aver subito abusi negli ultimi 12 mesi e solo circa un terzo di loro ha cercato aiuto.
L’utilitarismo nel tempo pandemico è arrivato al punto da sostenere che a fronte di un lieve aumento dei casi COVID, in Svizzera – in cui il suicidio assistito è cosa possibile – si tornò a parlare del protocollo medico per affrontare un eventuale sovraffollamento delle terapie intensive. Tale procedura avrebbe provveduto, in caso di scarsità di posti letto, che il medico competente poteva decidere di non accogliere «persone che avevano un’età superiore agli 85 anni» e persone con un’età superiore ai 75 anni che presentavano una di queste patologie: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica al 3º stadio, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e un tempo di sopravvivenza stimato meno di 24 mesi.
La solitudine e l’abbandono degli anziani è un altro annoso problema. I dati ufficiali del governo canadese mostrano che circa la metà delle persone che non sono malati terminali, desideravano porre fine alla propria vita tramite il suicidio assistito di Stato.
L’Europa, l’ex culla della civiltà e della cristianità, per bocca del presidente del più grande fondo sanitario belga, Christian Mutualities (CM), ha chiesto una soluzione radicale al problema dell’invecchiamento della popolazione. Il politico Luc Van Gorp dichiarò ai media belgi che alle persone stanche della vita dovrebbe essere permesso di porvi fine.
La chiesa, la quale dovrebbe difendere e diffondere certi valori che inneggiano alla vita, spesso è assente e conforme allo spirito del tempo, anzi, a volte pare complice di certe «pratiche necroculturali» tanto che il Vaticano sembra aver spalancato definitivamente le porte all’eutanasia.
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Fortunatamente non tutti i porporati sono silenti su tali argomenti. L’arcivescovo Nikola Eterovic, nunzio apostolico in Germania, ha messo in guardia dal «suicidio» dell’Europa dovuto alla promozione dell’aborto, dell’eutanasia e dell’ideologia di genere. Monsignor Eterovic ha lanciato l’allarme durante un sermone nel suo paese d’origine, la Croazia, in merito alla grave crisi demografica che sta attraversando la civiltà occidentale, aggiungendo che l’Europa è afflitta da una «Cultura della morte» dovuta all’aborto e all’eutanasia. Vede il crollo demografico nella maggior parte dei paesi europei come un «segno di suicidio».
«La morte, preceduta dai dolori della malattia e dagli spasimi dell’agonia, è la separazione dell’anima dal corpo. Con la morte cessa il tempo della prova e comincia l’eternità», ci ricorda il bellissimo catechismo di San Pio X.
La vita è anche sofferenza e dolore. Non lasciamo i nostri anziani nel dolore dell’animo e della solitudine, non macchiamoci del peccato dell’indifferenza e dell’abbandono.
Io, con la mia nonna, ho fatto quanto dovevo – e non è stato nemmeno un sacrificio. Perché, in ultima, è facile capirlo: la civiltà si fonda davvero sull’amore. Anche quello per i nostri nonni.
Francesco Rondolini
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Civiltà
Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio

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Civiltà
L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra

È morto Shinpei Tominaga, l’imprenditore giapponese – ma italiano d’adozione – colpito da un pugno a Udine mentre tentava di sedare una rissa.
L’uomo è mancato in ospedale dove era tenuto in vita dalle macchine. Il giapponese, che tentava di mettere fine ad un pestaggio che si stava consumando davanti ai suoi occhi, sarebbe stato colpito da un pugno sferrato da un 19enne veneto. Secondo quanto riportato, il ragazzo avrebbe confessato.
Il giovane veneto si sarebbe accompagnato da due amici, uno con un nome apparentemente nordafricano, un altro con un cognome che pare ghanese. Si tratta, secondo una TV locale, di una «banda ben nota», che «all’inizio era una baby gang che ora non è più così baby, anzi, ed è di una grande pericolosità per tutti i cittadini». Il trio si sarebbe scontrato «con due ucraini residenti a Pescara, in città per lavoro in un cantiere edile».
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Secondo RaiNews, il GIP «ha convalidato l’arresto per rissa aggravata di tutti e cinque i partecipanti».
La dinamica dei fatti sarebbe stata ricostruita dalla Questura «grazie ai testimoni e alle telecamere, pubbliche e private», scrive il sito della radiotelevisione pubblica italiana.
«Poco dopo le 3, due dei ragazzi veneti fumano per strada, conversando tranquillamente con i due ucraini. Sopraggiunge il terzo amico e cerca subito uno scontro fisico. Seguono degli spintoni». Uno degli ucraini «viene colpito con un pugno, rovina a terra, dove viene picchiato con pugni, calci e con la sedia di un bar».
«Uno dei tre corre a prendere un coltello da cucina nel bed and breakfast in cui alloggiavano, poco distante».
«Interviene una donna di passaggio, termina la prima fase dell’aggressione. I due ucraini si rifugiano nel vicino ristorante kebab. Vengono inseguiti dai tre ventenni».
È qui che avviene l’incontro fatale con l’imprenditore giapponese.
«Tominaga chiede loro di stare tranquilli, lasciar perdere. Un pugno al volto, e il 56enne cade per terra e sbatte violentemente la testa, finendo in arresto cardiaco». Non basta: sarebbero stati «aggrediti – anche con uno sgabello – i due amici che erano con Tominaga».
«I tre avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».
Per quanto riguarda invece gli ucraini, «niente misura cautelare in carcere. Per uno di loro disposto il divieto di dimora in Friuli Venezia Giulia».
A parte il ragazzo che avrebbe sferrato il cazzotto fatale, parrebbe quindi una rissa tra immigrati. Una delle tante che si consumano, finendo al massimo in un trafiletto di cronaca locale (ma spesso neanche quello), in aree urbane oramai divenute preda della prepotenza dei «migranti» – le zone, in cui, generalmente, abbondano di kebabbari.
Stavolta però la notizia sta avendo eco nazionale, perché c’è scappato il morto, sul quale vogliamo dire due parole.
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Con Shinpei – che i giornali chiamano Shimpei, con la «m»: nella lingua giapponese il suono «mp» non esiste, ma non è escluso che se lo fosse italianizzato lui stesso – il nostro Paese non perde poco.
Innanzitutto, ricordiamo il suo lavoro: export di mobili verso il Giappone. Il mobile, in particolare la sedia, trova in Friuli un distretto di eccellenza, distrutto negli ultimi due decenni dalla concorrenza cinese. Tuttavia chi cerca la qualità della manifattura non si può far incantare dalla merce a buon mercato dei mandarini: il popolo del Sol Levante è noto per la sua appassionata pignoleria, da cui proviene il suo rispetto per l’Italia.
Shinpei, quindi, per l’Italia faceva un lavoro inestimabile: teneva in vita l’economia del prodotto di qualità, di per sé una vera resistenza alla globalizzazione, cioè alla cinesizzazione, che ha devastato la piccola e media impresa dell”Alta Italia consegnandoci all’incubo di disintegrazione della classe media e di deindustrializzante che stiamo vivendo.
Di più: Shinpei, che aveva la famiglia in Giappone, in realtà l’Italia la conosceva bene, e con probabilità l’amava davvero. Era cresciuto a Roma, dove il padre Kenichi Tominaga commercializzava i cartoni giapponesi divenuti centrali per l’infanzia di tanti italiani: con Orlando Corradi aveva fondato una casa di distribuzione chiamata Doro TV Merchandising, la cui sigla con il cagnolino è nei ricordi di moltissimi, che vendeva gli anime ai network televisivi pubblici e privati italiani. Goldrake e Conan li ha portati da noi il babbo di Shinpei.
Pezzi di storia, pezzi di relazioni vere, e profonde, tra due Paesi sviluppati, l’Italia e il Giappone, terminati dalla barbarie presente, che ora tocca senza problemi anche le città di provincia.
No, non si è al sicuro anche nella tranquilla cittadina a statuto speciale, nemmeno se sei con tre amici per strada, nemmeno se ti offri di aiutare un ragazzo insanguinato. Quello che ti aspetta, uscito di casa nell’Italia contemporanea, è la morte – un sacrificio gratuito sorto dalla fine della civiltà in Europa.
Su Renovatio 21 abbiamo adottato il concetto, introdotto nei primi anni Duemila dallo scrittore statunitense Samuel Todd Francis (1947-2005), chiamato «anarco-tirannia», cioè quella sorta di sintesi hegeliana in cui lo Stato moderno regola tirannicamente o oppressivamente la vita dei cittadini – tasse, multe, burocrazia – ma non è in grado, o non è disposto, a far rispettare le leggi fondamentali a protezione degli stessi. La rivolta etnica delle banlieue francesi della scorsa estate ne sono l’esempio lampante, lo è anche, se vogliamo, il grottesco e drammatico video in cui il poliziotto tedesco attacca il connazionale che stava tentando di contrastare un immigrato armato di coltello, il quale per ringraziamento pugnala e uccide lo stesso poliziotto.
C’èst à dire: nella condizione anarco-tirannica, il fisco ti insegue ovunque, la giustizia ti trascina in tribunale perché non portavi la mascherina o perché hai espresso idee dissonanti, ma se si tratta di fermare il ladro, il rapinatore, etc., non sembra che nessuno, viste le percentuali di reati rimasti impuniti, faccia davvero qualcosa. E qualora prenda il criminale, ben poco viene fatto perché il crimine non sia ripetuto. Nel caso presente, i tre fermati, ribadiamo, «avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».
La legge, le forze dell’ordine, lo Stato non sembrano aver fatto moltissimo per fermare il crimine, e convertire il criminale, che prosegue ad agire come in assenza di un potere superiore a lui – appunto, l’anarchia. Anarchia per i criminali, tirannide per i cittadini comuni, incensurati, onesti, contribuenti. Va così.
Al di là dell’amarezza, è il caso di comprendere cosa significa materialmente – cioè, biologicamente – l’avvio dell’anarco-tirannia per le vostre vite. L’anarco-tirannide produce giocoforza la vostra insicurezza, perché minaccia direttamente i vostri corpi. Lo stato di anarchia è quello in cui, non valendo alcuna autorità, la violenza non può essere fermata.
Se ci fate caso, in tanti teorici dell’anarchia spunta ad un certo punto quest’idea del mondo che va portato verso il baccanale dionisiaco, con l’orgia e la violenza come grottesco strumento per testimoniare la supposta libertà dell’essere umano, slegato da ogni legge anche morale. Non è il caso che gli scritti di uno massimi teorici dell’anarchismo odierno, siano stati accusati di essere pedofili.
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E quindi, uscire di casa, per un bicchiere con gli amici, è di per sé un’azione pericolosa. La strada, la vita quotidiana stessa, diventa una minaccia. È già così in tante aree cittadini: circolarvi di notte è qualcosa di pericoloso. Ecco la formazione delle no-go zones, che sono – se mai ce n’era ulteriore bisogno – la dimostrazione fisica della possibilità di lasciare che si neghi la Costituzione, la nel suo articolo 16 prevede la libera circolazione dei cittadini su tutto il suolo nazionale.
Qui, nel contesto di aggressioni continue e randomatiche, non vi è solo la vostra incolumità fisica, in gioco: c’è la vostra natura morale ad essere pervertita, perché – come nella tragedia di Udine – le virtù cristiane, come tentare di terminare un conflitto o aiutare qualcuno in difficoltà, viene punita con il sangue.
È la fine dello stato di diritto, e al contempo della legge naturale, della fibra morale che unisce la società. È l’instaurazione del regime del più forte, trionfo ideale del nazismo, dove il debole deve accettare di essere sacrificato dall’aggressore vittorioso. È un’espressione che forse avete sentito dire a qualche bullo delle medie quando, oltre che l’obbiettivo, finiva per picchiare qualcun altro: «si è messo in mezzo».
Nel mondo nuovo, decristianizzato dall’immigrazione, dallo Stato e dal papato stesso, chi fa da paciere può finire ucciso. Quindi, meglio farsi gli affari propri, non intromettersi…
«Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinunzino all’azione», è un aforisma falsamente attribuito al filosofo settecentesco Edmund Burke, che tuttavia contiene una verità incontrovertibile. In una situazione di rischio fatale, chi mai ha voglia di fare la cosa giusta, e aiutare il prossimo?
Ecco raggiunto il vero scopo del processo dell’anarco-tirannide. Una società atomizzata, dove la paura costante del prossimo, dove l’ansia primaria per la sopravvivenza previene la possibilità della coesione sociale, così da lasciar liberi i padroni del vapore di far quel che vogliono senza timore di resistenza popolare.
Una società divenuta preda del malvagio è una società che può essere manipolata a piacimento. Nessun gruppo umano si oppone ai comandi del vertice, per quanto soverchianti e contraddittori: e lo abbiamo visto in pandemia. Quindi l’anarco-tirannia è, diciamo, una fase del Regno Sociale di Satana.
E quindi, cosa dobbiamo fare?
Quale politica per prevenire che le nostre vite divengano incubi?
Facciamo qualche semplice proposta.
Innanzitutto, si deve andare oltre al rifiuto più assoluto l’immigrazione: si deve chiedere, secondo una parola sempre più usata nel mondo germanofono, la remigrazione. Milioni e milioni di migranti, portati qui per infliggerci questa ingegneria sociale del male, vanno espulsi dal Paese, e questo a costo di svuotare interni quartieri.
Secondo: si deve istituire una forma di punizione dura al punto da essere considerata un vero deterrente: la galera, al momento, non lo è. Ricordiamo che, per quanto possano aver detto preti e papi postconciliari, la pena di morte non è contraria alla dottrina cattolica. E ricordiamo che i lavori forzati, che aiuterebbero economicamente il Paese, darebbero finalmente un senso all’esistenza dei carcerati: in passato si è detto che non è possibile farli lavorare davvero perché nella Costituzione, segnata dalla mentalità sovietica dei padri costituenti PCI permessa dai padri costituenti DC – c’è scritto che il lavoro va retribuito. Noi qui rammentiamo che anche quel tabù lo abbiamo perso: la Costituzione, negli ultimi anni, è stata violata in ogni modo.
Terzo: è necessario che qualcuno si intesti davvero il discorso politico sul porto d’armi inteso come nel concetto americano di carry: vi sono stati americani in cui si ha l’open carry, ossia la possibilità di circolare per strada visibilmente armati, in altri si ha il concealed carry, dove l’arma può essere portata seco quando nascosta. È inutile evitare il pensiero, nella giungla anarco-tirannica, l’unica deterrenza, e oltre l’unica forma di difesa, potrebbe divenire l’essere armati sempre ed ovunque – cosa triste ed orrenda, forse, ma anche qui, va così.
Purtroppo, causa di recenti incresciosi episodi consumatisi nel capodanno di parlamentari di Fratelli d’Italia, è difficile che il governo Meloni voglia avventurarsi in questa direzione, che pure dovrebbe essere la sua. C’è da ringraziare chi, secondo quanto ricostruito, avrebbe avuto l’idea geniale di tirare fuori una pistola in pubblico…
Quanto ai tempi che ci aspettano, abbiamo iniziato a scriverne un paio di anni fa. Quando terminerà la guerra ucraina, una quantità di veterani di Kiev, tra cui i molti tatuati neonazisti, potrebbero finire da noi. Forse esiliati, forse solo in tour a trovare la mamma, la zia, la sorella badante. Difficile che, a questo punto, quei ragazzi non si raggrupperanno in bande amalgamate da lingua, storia, esperienza (chi ha fatto la guerra insieme, non si molla mai) e credenza fanatico-religiosa nell’ideale ucronazista.
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C’è da dire che forse arriveranno anche armati, perché la quantità di armi inviate da USA e Paesi NATO – già finite a mafie in Finlandia, in Spagna, ai narcos in Messico, ai terroristi in Siria – è talmente vasta che qualcosa resterà con loro. A differenza del tranquillo contribuente italiano, la futura banda post-bellica – fenomeno cui abbiamo assistito negli anni Novanta con i gruppi di veterani della guerra di Bosnia che assaltavano le ville – sarà armata fino ai denti.
La situazione che si ingenererà per la giungla fuori da casa vostra ha un nome: gli strateghi dell’ISIS, nel loro mirabile manuale, la chiamavano Idarat at-Tawahhus, cioè «gestione della barbarie», o «gestione della ferocia».
I jihadisti teorici dello Stato Islamico concepivano il crollo di uno Stato come l’apertura di possibilità immani: dopo una prima fase che definivano «vessazione e potenziamento» – dove si estenua la popolazione di un territorio con estrema violenza e paura – si fa partire una seconda fase, dove, sulla scia del crollo dell’ordine dello Stato e l’instaurazione di una «legge della giungla» sempre più belluina, prevale tra i sopravvissuti pronti ad «accettare qualsiasi organizzazione, indipendentemente dal fatto che sia composta da persone buone o cattive».
Appunto: «fatti gli affari tuoi». «Non ti immischiare».
Siamo davvero disposti ad accettare la trasformazione della società in un incubo satanico?
Davvero vogliamo assistere alla fine della civiltà guardando inani dalla finestra, e pregando che il caos non arrivi a trucidare anche noi ed i nostri cari?
Quali gruppi umani possono davvero opporsi a questo processo di morte e distruzione?
Domande a cui bisogna rispondere quanto prima. Nel frattempo, le brave persone, gli innocenti, i virtuosi, vengono ammazzati, sacrificati all’altare dell’anarco-tirannide progettata per sottomettervi.
Roberto Dal Bosco
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Immagine d’archivio generata artificialmente
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