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Economia

Mandato d’arresto internazionale al governatore della Banca del Libano

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Riad Salamé è sospettato di aver costituito un ricco patrimonio immobiliare e bancario in Europa dietro massiccia appropriazione indebita di fondi pubblici. Il banchiere si è già appellato contro la decisione e non rischia l’estradizione. Custode di piccoli e grandi segreti e degli accordi finanziari della classe politica libanese.

 

 

In questi giorni abbiamo assistito a una svolta nell’inchiesta francese riguardante il patrimonio del governatore della Banca del Libano (BDL), Riad Salamé. In seguito alla mancata comparizione davanti ai magistrati dopo l’istanza di convocazione emessa dal giudice istruttore Aude Buresi della Corte di appello di Parigi, titolare dell’indagine sui beni in Europa del governatore, il tribunale ha emesso a suo carico un mandato di arresto internazionale.

 

Alla guida dell’istituzione dal 1993, nominato nel 2011 fra i sei migliori governatori al mondo di una banca centrale dalla rivista Global Finance, è sospettato di aver creato nel tempo un ricco patrimonio immobiliare e bancario in Europa. Egli avrebbe, secondo l’accusa, agito tramite un sistema complesso di scatole cinesi di società finanziarie e una massiccia appropriazione indebita di fondi pubblici libanesi. L’avviso di garanzia che ha ufficializzato l’inchiesta e avviato l’iter processuale risale al luglio 2021.

 

Imperturbabile, l’ex banchiere d’affari di Merrill Lynch ha annunciato la sua intenzione di appellarsi alla decisione. Il suo avvocato Pierre-Olivier, citato dall’AFP, ha assicurato che la convocazione è minata da un vizio di forma, essendo stata indirizzata «meno di dieci giorni prima della data prevista dell’interrogatorio».

 

Custode di piccoli e grandi segreti e degli accordi finanziari della classe politica libanese, a capo della BDL dal 1993, il 72enne Salamé è la chiave di volta del sistema bancario che ha portato il Paese dei cedri alla bancarotta. Questo fallimento si è tradotto nel crollo della lira libanese (che ha perso il 98% del suo valore rispetto al dollaro) e del sistema bancario in generale. E ha privato di fondi e risorse decine, se non centinaia di migliaia di istituzioni e risparmiatori.

 

Salamé non è il solo responsabile e coinvolto in questo crollo, ma in qualità di intermediario obbligato tra le banche private e lo Stato libanese, potrebbe servire da capro espiatorio di un sistema di corruzione generale da cui il Libano non riesce ancora a liberarsi. Tutto questo a dispetto dell’intervento del Fondo Monetario Internazionale (FMI) che ha cercato di limitare i danni.

 

La sua incriminazione, e il possibile arresto, sono osservati con grande timore da una parte consistente della classe politica. L’uomo, infatti, è a conoscenza di tutti i segreti della Repubblica libanese. La sua eventuale caduta finirebbe per scoperchiare un vaso di Pandora fatale per qualcuno, facendo risuonare la fine di un’era che molti temono, da Nabih Berry a Walid Joumblatt a Saad Hariri e Nagib Mikati, l’attuale primo ministro ad interim.

 

Perché la Francia?

Per quale motivo è stata la giustizia francese a incriminare il Salamé e non la giustizia libanese? È perché, spiegano in ambienti politici, essa beneficia di protezioni, che il procuratore di Monte Libano Ghada Aoun ha cercato invano di aggirare.

 

Dall’inizio dell’anno in corso i giudici europei, tra cui il magistrato francese Aude Buresi, si sono recati tre volte in Libano per interrogare Salamé e i suoi parenti, e in particolare suo fratello minore Raja Salamé. Nel marzo 2022, Francia, Germania e Lussemburgo avevano congelato 120 milioni di euro di beni libanesi sospettati di appartenere allo stesso Salamé.

 

Le conseguenze concrete del mandato d’arresto sono difficili da determinare nell’immediato. Esso potrebbe limitare i viaggi all’estero di Salamé, anche se quest’ultimo non deve temere una possibile estradizione. Beirut, infatti, non estrada i propri cittadini come tutti sanno dalla vicenda riguardante Carlos Ghosn, l’ex amministratore delegato di Renault-Nissan. Accusato di malversazioni e malaffare, egli ha trovato rifugio in Libano dopo una rocambolesca fuga dal Giappone.

 

Le reazioni politiche alla notifica del mandato di arresto sono varie. Per il Movimento patriottico libero (CPL) fondato dall’ex capo dello Stato Michel Aoun, «il mandato d’arresto internazionale emesso contro Riad Salamé costituisce un importante punto di svolta nella lotta contro la corruzione».

 

Il partito Kataëb e il deputato Mark Daou esponente del movimento di protesta hanno chiesto la revoca dell’incarico al governatore, per «salvaguardare il prestigio delle istituzioni» di fronte all’opinione pubblica interna e alla comunità internazionale.

 

Tuttavia un simile provvedimento, osserva il presidente del Movimento Internazionale degli Imprenditori Libanesi Fouad Zmokhol, potrebbe spingere «gli istituti di credito stranieri che lavorano con il Libano al disimpegno» rispetto agli accordi in campo.

 

 

 

 

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Immagine di Karan Jain via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

 

 

 

 

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Economia

Le Filippine approvano una nuova criptovaluta per agevolare le rimesse dall’estero

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La Banca Centrale delle Filippine ha dato l’approvazione per il lancio di PHPC, una stablecoin agganciata al peso filippino in modo da ridurne la volatilità. La piattaforma Coins.ph punta a raggiungere tra i 20 e i 30mila utenti nel primo mese. Sono circa 10 milioni i lavoratori all’estero che con la nuova moneta digitale sperano di abbattere i costi di transazione.

 

Le Filippine hanno approvato l’emissione di un nuovo tipo di criptovaluta, una stablecoin (letteralmente: «moneta stabile») chiamata PHPC che sarà ancorata al peso filippino. Una risorsa che potrebbe abbattere i costi di transazione nell’invio delle rimesse da parte dei filippini che vivono all’estero.

 

A differenza delle criptovalute «tradizionali», infatti, il valore delle stablecoin è legato a quello di un asset di riserva stabile. In questo modo la volatilità è ridotta, o meglio, è più prevedibile e misurabile. (…)

 

Dopo aver ricevuto il via libera dalla Bangko Sentral ng Pilipinas – la Banca centrale – la principale piattaforma di blockchain del sud-est asiatico, Coins.ph, ha annunciato di essere pronta a emettere la criptovaluta PHPC entro l’inizio di giugno per provare a raggiungere, nel primo mese, dai 20 ai 30mila utenti.

 

Uno degli utilizzi principali per cui è stata pensata la nuova moneta digitale è l’invio di rimesse da parte dei filippini che vivono all’estero, pari a circa 10 milioni in tutto il mondo. Rispetto agli altri canali, come le banche o i cosiddetti «pera padala», enti finanziari locali, l’invio di rimesse tramite criptovalute è più economico e disponibile 24 ore su 24.

 

La diaspora filippina ha finora utilizzato le stablecoin agganciate al dollaro statunitense, dovendo quindi pagare una serie di tariffe per la conversione in pesos. Con la PHPC questi costi di transazione verrebbero eliminati: «il parente che riceve il denaro non dovrà più convertire i dollari in pesos», ha commentato Wei Zhou, amministratore delegato di Coins.ph, spiegando che da circa un anno il progetto era in discussione con la Banca centrale delle Filippine.

 

Zhou ha aggiunto che la nuova stablecoin delle Filippine verrà resa disponibile anche in altri exchange di criptovalute (le piattaforme online per il trading), in modo che diventi accessibili anche su altri mercati e permetta l’invio di rimesse da tutto il mondo.

 

«Si può immaginare che se la PHPC è quotata sui nostri exchange di criptovalute partner, ad esempio in Australia, o a Singapore, o negli Stati Uniti, allora i nostri familiari e possono acquistare la PHPC e inviarla direttamente ai portafogli di Coins.ph», ha commentato Zhou.

 

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Alimentazione

La sinistra tedesca vuole un tetto massimo per il prezzo del kebab

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Die Linke, il partito della sinistra tedesca ha proposto allo Stato di sovvenzionare i kebab con quasi 4 miliardi di euro all’anno. Negli ultimi anni l’inflazione e l’aumento dei costi energetici hanno quasi raddoppiato il prezzo dello popolare panino turco. Sono i grandi temi della sinistra moderna.   In un documento politico visionato dal tabloid tedesco Bild e riportato domenica, Die Linke ha proposto di limitare il prezzo di un doner kebab a 4,90 euro o 2,50 euro per studenti, giovani e persone a basso reddito. Con un costo medio di un kebabbo pari a 7,90 euro, il resto del conto sarà a carico del governo, si legge nel documento.   «Un limite di prezzo per il kebab aiuta i consumatori e i proprietari dei negozi di kebab. Se lo Stato aggiungesse tre euro per ogni kebab, il prezzo massimo del kebab costerebbe quasi quattro miliardi», scrive il partito sul giornale, spiegando che ogni anno in Germania si consumano circa 1,3 miliardi di kebabbi.   «Quando i giovani chiedono: Olaf, riduci il kebab, non è uno scherzo su Internet, ma un serio grido d’aiuto», ha detto alla Bild la dirigente del partito di sinistra Kathi Gebel, riferendosi al cancelliere tedesco Olaf Scholz. «Lo Stato deve intervenire affinché il cibo non diventi un bene di lusso».   Introdotto in Germania dagli immigrati turchi negli anni ’70, il doner kebab è diventato in pratica la forma di fast food preferito dalla nazione già teutonica, tracimando anche nel resto d’Europa, come in Italia, dove più che turchi i kebabbari sono nordafricani o talvolta pakistani.

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Tuttavia, mentre Die Linke descrive il panino con l’agnello carico di salsa come un alimento base quotidiano per alcune famiglie, la maggior parte dei medici e dei nutrizionisti ne consiglierebbe il consumo solo come spuntino occasionale.   Uno studio scozzese del 2009 ha rilevato che il doner kebab medio conteneva il 98% dell’assunzione giornaliera raccomandata di sale di un adulto e il 150% dell’assunzione raccomandata di grassi saturi, scrive RT.   Per anni in Germania il prezzo di un doner kebab si è aggirato intorno ai 4 euro. Tuttavia, l’aumento dei costi energetici e l’inflazione che hanno seguito la decisione di Scholz di mettere l’embargo sui combustibili fossili russi hanno costretto i venditori ad aumentare i prezzi.   «Siamo stati costretti ad aumentare i prezzi a causa dell’esplosione dei prezzi degli affitti, dell’energia e dei prodotti alimentari», ha detto al giornale britannico Guardian un gestore di uno stand di kebabbi a Berlino. «La gente ci parla continuamente di “Donerflazione”, come se li stessimo prendendo in giro, ma è completamente fuori dal nostro controllo».   Molti tedeschi accusano lo Scholz di averli privati ​​della kebbaberia a buon mercato, una catastrofe che li spinge verso prospettive di pacifismo sul fronte russo. «Pago otto euro per un doner», ha urlato un manifestante a Scholz nel 2022, prima di implorare il cancelliere di «parlare con Putin, vorrei pagare quattro euro per un doner, per favore».   «È sorprendente che ovunque vada, soprattutto tra i giovani, mi venga chiesto se non dovrebbe esserci un limite di prezzo per il doner», ha osservato lo Scholzo in un recente video su Instagram. Tuttavia, il cancelliere ha escluso una simile mossa, elogiando invece il «buon lavoro della Banca Centrale Europea» nel presumibilmente tenere l’inflazione sotto controllo.   Kebabbari, kebabbani e kebabbati non sono gli unici tedeschi a soffrire sotto Scholz. Il mese scorso, il più grande produttore di acciaio tedesco, Thyssenkrupp, ha annunciato «una sostanziale riduzione della produzione» nel suo stabilimento di Duisburg, licenziando 13.000 dipendenti. L’azienda ha attribuito il calo di produttività agli «alti costi energetici e alle rigide norme sulla riduzione delle emissioni».   Meno di una settimana dopo l’annuncio dei tagli da parte della Thyssenkrupp, il Fondo monetario internazionale ha rivisto le prospettive di crescita economica della Germania dallo 0,5% allo 0,2% quest’anno. Secondo i dati, nel 2024 la Germania dovrebbe registrare la crescita più debole tra tutti gli stati appartenenti al gruppo G7 dei paesi industrializzati.   Riguardo al kebab, da decenni circola tra i giovani tedeschi la leggenda metropolitana secondo la quale in un singolo panino kebap sarebbe stata rivenuta una quantità di sperma da uomini differenti, a indicazione, secondo il significato certamente xenofobo della storia, del disprezzo degli immigrati per i cittadini tedeschi.

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Economia

La Turchia sospende ogni commercio con Israele

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Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.

 

La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.

 

Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.

 

Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.

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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.

 

In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.

 

 

Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».

 

Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UEa Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».

 

Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.

 

Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.

 

Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.

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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 

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