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La Croce, unica speranza: omelia di Mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò per la festività della Santa Croce (14 settembre).

 

 

IN HOC SIGNO VINCES

Omelia nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce

 

 

Tum Heraclius, abjecto amplissimo vestitu detractisque calceis ac plebejo amictu indutus,
reliquum viæ facile confecit, et in eodem Calvariæ loco Crucem statuit, unde fuerat a Persis asportata.
Itaque Exaltationis sanctæ Crucis solemnitas, quæ hac die quotannis celebrabatur,
illustrior haberi cœpit ob ejus rei memoriam,
quod ibidem fuerit reposita ab Heraclio, ubi Salvatori primum fuerat constituta.

Lect. VI – II Noct.

 

Nel settimo mese, durante la festa dei Tabernacoli, Salomone aveva compiuto i riti di consacrazione dell’antico Tempio (1 Re 8, 2 e 65); il 14 Settembre 335, nella stessa ricorrenza, Costantino aveva dedicato la Basilica del Santo Sepolcro, per simboleggiare come il luogo della Sepoltura – il Martyrium – e della Resurrezione – l’Anastasis – costituissero il nuovo Tempio di Gerusalemme.

 

La Basilica romana della Santa Croce venne edificata dall’imperatrice Sant’Elena per accogliere le reliquie del Sacro Legno dopo il suo ritorno dal viaggio in Terra Santa, nel 325. Fu lì che il culto della Croce di Cristo si diffuse nell’orbe cattolico – come ricorda Dom Prosper Guéranger – perdurando sino ad oggi.

 

Nel 614 il re persiano Cosroe II invase Gerusalemme, distrusse la Basilica costantiniana, si impossessò della Vera Croce e – in un gesto di empietà che suscitò lo sdegno dei fedeli – usò quel legno benedetto per ricavarne il proprio seggio.

 

Nel 628 l’imperatore Eraclio vinse e decapitò Cosroe, riconquistò Gerusalemme, ricostruì la Basilica del Santo Sepolcro e portò a Bisanzio – abjecto amplissimo vestitu detractisque calceis ac plebejo amictu indutus, scalzo e vestito da pellegrino – le preziose reliquie della Santa Croce.

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Gli eventi storici – perché parliamo di storia documentata e corroborata da autorevolissime testimonianze – che hanno condotto alla diffusione del culto della Croce e alla festa della sua Esaltazione che oggi celebriamo, non devono distrarci da un aspetto spirituale e soprannaturale che è fondamentale per ciascuno di noi.

 

La Croce sulla quale Nostro Signore sparse il proprio Sangue e morì per la nostra Redenzione attraversa la Storia dell’umanità sin da quando, secondo la Legenda aurea del vescovo domenicano Jacopo da Varagine, San Michele Arcangelo ordinò a Set (figlio di Noè) di mettere tre semi dell’albero della vita nella bocca del defunto Adamo: da quei semi nacque un albero che Salomone fece tagliare per la costruzione del Tempio ma che non poté utilizzare e fece seppellire su monito della Regina di Saba.

 

Quel Legno fu ritrovato ai tempi di Cristo e utilizzato per farne la Croce, poi recuperata da Sant’Elena dopo che gli Ebrei l’avevano nascosta per sottrarla all’adorazione dei fedeli. A riprova della sua autenticità rispetto a quelle su cui vennero giustiziati i ladroni, il Santo Legno risuscitò un morto al solo contatto.

 

La nostra mentalità mondanizzata, infetta di un razionalismo incredulo che nulla ha di scientifico, si sente a disagio dinanzi alla narrazione di eventi prodigiosi che attraverso i millenni uniscono Adamo a Cristo.

 

Ci riesce arduo e quasi imbarazzante credere ad un racconto trasmesso attraverso i secoli in cui si parla della Regina di Saba e del Re Salomone, della fede umile dell’Imperatore Costantino e di sua madre Elena. Ed è sempre la mentalità secolarizzata che ci fa sentire la Croce come un giogo insopportabile, come un segno incomprensibile al mondo, in cui il Sangue del Salvatore impregna le fibre del legno, tenendo inchiodato e straziato dalla Passione il Corpo santissimo del Dio incarnato.

 

Ai tormenti orribili della Croce, la chiesa conciliare ha preferito la tranquillizzante immagine di un Cristo risorto sottratto ai dolori della Passione. Il mondo rifiuta la Croce perché non si riconosce peccatore e non accetta quindi la Passione redentrice di Nostro Signore. Si filius Dei es, descende de cruce (Mt 27, 40): è la tentazione di chi non comprende che non vi è vittoria senza combattimento, né trionfo della Resurrezione senza i patimenti della Croce.

 

Lo spirito secolarizzato, penetrato nella Chiesa con la complicità di una Gerarchia senza Fede e senza Carità, è giunto a imporre questa visione orizzontale che vanifica la Redenzione di Cristo, la Sua Incarnazione, la Sua Passione.

 

Se «tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio», come ha blasfemamente affermato Bergoglio pochi giorni fa a Singapore, non occorre nessun Salvatore; né una Chiesa che sia nel mondo strumento di salvezza; né un Papa che nella Chiesa sia vincolo di unità nella Fede.

 

Eppure questo «papa», per il quale chiunque può salvarsi senza la Rivelazione di Cristo, pretende di essere riconosciuto e obbedito dai Cattolici come capo di quella Chiesa che egli considera blasfemamente inutile; e in nome di un potere usurpato osa addirittura scomunicare chi denuncia la sua apostasia.

 

Davanti alla Croce ci inginocchiamo adoranti il Venerdì Santo, il giorno della sua Invenzione e oggi, nella festa della sua Esaltazione.

 

Lo facciamo duplici genu, con due ginocchia, come dinanzi all’augustissimo Sacramento: un gesto esteriore di adorazione ci invita a contemplare quei due pezzi di legno spogli, che hanno attraversato la Storia e che ancora rappresentano il discrimen (lo spartiacque) delle vicende umane, sino alla fine dei tempi, quando sarà la Croce a risplendere nel cielo, come anticipato da San Giovanni nell’Apocalisse (1, 7).

 

Davanti alla Croce ci inginocchiamo, spogliandoci di noi stessi, come Cristo stesso fu esposto all’umiliazione e all’obbrobrio al pari di un criminale meritevole di morte. E davanti alla Croce si devono inginocchiare tutte le creature, cœlestium, terrestrium et infernorum (Fil 2, 10), perché il frutto di morte colto dai nostri Progenitori disobbedendo al comando di Dio diventi frutto di vita eterna nel Sacrificio del nuovo Adamo; un frutto maturato nel corso dei secoli mediante la preparazione nell’Antica Legge, fino al compimento nella nuova ed eterna Alleanza; un frutto irrorato del Sangue dell’Agnello Immacolato, che ci risparmia e ci salva al passaggio dell’angelo sterminatore (Es 12, 13).

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Quell’Albero della Vita che ci fu causa di morte nell’Eden rinasce sul Golgota come strumento di supplizio e di morte, per darci la vera Vita, la vita della Grazia, dell’amicizia con Dio, con la Santissima Trinità, la vita ripristinata in Cristo, vero Dio e vero Uomo.

 

Torniamo dunque alla Croce, cari fratelli, perché essa è davvero spes unica, come cantiamo nell’antichissimo inno Vexilla Regis.

 

Essa è unica speranza perché nella Croce comprendiamo la necessità della Passione, nei piani di un Dio che Si incarna per redimere il servo, felix culpa.

 

Essa è l’unica speranza perché le gioie, le ricchezze, il benessere, il successo, il denaro, i piaceri di questo mondo sono tutti fallaci e ingannatori. Con essi Satana ci tiene avvinti alle creature, per impedirci di elevare lo spirito al Creatore; ci lega alla finzione, perché non abbiamo a cogliere la realtà; ci illude con le cose effimere, mentre il Signore ci concede la Grazia di entrare nell’eternità.

 

Solo così possiamo comprendere perché alcuni Santi – come San Francesco, modello di povertà e di rinuncia al mondo – siano stati privilegiati da Cristo proprio nel portare su di sé le Stimmate della Passione. Quelle Sante Piaghe ciascuno di noi deve averle impresse misticamente nell’anima, nel rinnegamento di sé che tanto ci costa ma che, solo, ci rende davvero simili a Nostro Signore.

 

Si quis vult venire post me, abneget semetipsum, et tollat crucem suam quotidie et sequatur me (Lc 9, 23). Il rinnegamento di sé consiste nell’abbracciare la nostra croce, e nel portarla quotidie, ogni giorno, seguendo Cristo verso il Calvario. Ed è la nostra croce, ossia quella che la Provvidenza ci ha destinato – piccola o grande che sia – e non quella che noi vogliamo sceglierci, credendoci capaci di portarla con le nostre forze.

 

Abbiamo una nostra croce e le Grazie soprannaturali che ci permettono di non esserne schiacciati. Questa è la prova, il certamen da affrontare, se vogliamo conseguire il premio eterno ed essere ammessi alla presenza di Dio. Accettiamola come Eraclio, detractis calceis ac plebejo amictu indutus, perché spogliandoci delle vesti di questo mondo – che siamo ineluttabilmente destinati ad abbandonare – possiamo con San Paolo essere rivestiti in Cristo dell’uomo nuovo, in justitia et sanctitate veritatis (Ef 4, 24). E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

14 Settembre 2024
In Exsaltatione Sanctæ Crucis D.N.J.C.

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Immagine di Jeffrey.Wilson.OSF via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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Il cardinale Müller avrebbe suggerito a papa Leone XIV di revocare le restrizioni alla Messa in latino

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Il cardinale Gerhard Müller avrebbe suggerito che papa Leone XIV dovrebbe ripristinare completamente l’accesso alla Messa tradizionale «come primo passo». Lo riporta un articolo dell’Associated Press.   Un rapporto dell’AP ha riassunto la dichiarazione del cardinale su questo argomento come segue: «Müller, che è stato licenziato da Francesco come responsabile dottrinale del Vaticano, ha suggerito come primo passo che Leone XIII ripristini l’accesso alla vecchia messa latina che il suo predecessore aveva notevolmente limitato».   «Non possiamo assolutamente condannare o vietare il legittimo diritto e la forma della liturgia latina», ha detto Müller all’AP. «Dato il suo carattere, penso che [Leone] sia in grado di parlare con le persone e di trovare un’ottima soluzione che vada bene a tutti».

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L’AP riferisce inoltre che il cardinale tedesco ha affermato che le azioni di Papa Francesco contro la Messa in latino e i tradizionalisti hanno portato a divisioni inutili, che ora Papa Leone XIV ha il compito di sanare.   «Il papa, in quanto successore di San Pietro, deve unire la Chiesa», ha sottolineato il porporato tedesco.   Bergoglio aveva severamente limitato la Messa antica con il suo controverso motu proprio Traditionis Custodes del 2021, contraddicendo direttamente il suo predecessore, Benedetto XVI, ancora in vita all’epoca.   Il cardinale dice di essere convinto che «papa Leone XIV supererà queste tensioni superflue che erano dannose per la Chiesa». «Non possiamo evitare tutti i conflitti, ma dobbiamo evitare quelli non necessari, quelli superflui».   Commentando il conclave e l’elezione del cardinale americano Robert Prevost al papato, il cardinale tedesco di 77 anni ha detto: «Penso che abbia dato una buona impressione di lui a tutti, e alla fine è stata una grande concordia, una grande armonia».   «Non c’è stata alcuna polemica, nessuna divisione», ha aggiunto.

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Alla domanda se abbia votato per Prevost durante il conclave, Müller rispose: «Oh, non posso dirlo. Ma sono contento, no?»   Secondo l’AP, Müller, ex capo della Congregazione (ora Dicastero) per la Dottrina della Fede, ha affermato di aspettarsi che Leone XIV si trasferisca nel Palazzo Apostolico, che era «il luogo più adatto per un papa».   La decisione di Francesco di vivere nella Domus Sanctae Marthae, la foresteria del Vaticano, ha avuto l’effetto pratico di occupare l’intero secondo piano e quindi di ridurre le stanze per il clero in visita.

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Davanti ai media di tutto il mondo, il nuovo stile di Leone XIV

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Il 12 maggio 2025, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, Papa Leone XIV si rivolse ai professionisti dei media riuniti per seguire gli eventi significativi delle ultime settimane: la morte del suo predecessore, il conclave e i primi giorni del suo pontificato. Un intervento dallo stile sensibilmente diverso da quello a cui ci eravamo abituati nel pontificato precedente.

 

«Continua tra pochi istanti, la prima conferenza stampa in diretta di Leone XIV, dopo una pagina di pubblicità». In Francia, come altrove, il tono è stato dato sui principali canali di informazione continua il 12 maggio 2025, per annunciare quello che il sito web del Vaticano ha presentato più sobriamente come il «Discorso di Papa Leone XIV ai professionisti della comunicazione».

 

Fin dalle prime parole di un discorso colto che non ha concesso nulla all’improvvisazione, il Romano Pontefice si è concesso una captatio benevolentiae nei confronti delle migliaia di giornalisti presenti nell’Aula Paolo VI: «Desidero ringraziarvi per la vostra presenza e per l’intenso lavoro che avete svolto in queste ultime settimane», esordisce Leone XIV, sottolineando l’importanza del loro ruolo nel trasmettere gli eventi ecclesiali al mondo intero.

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Un tono improntato alla cortesia, che contrasta con gli interventi a volte bruschi di Francesco, il quale non esitava a criticare direttamente i media quando riteneva utile farlo: laddove Francesco poteva, ad esempio, denunciare con vigore le «fake news» o la manipolazione mediatica, Leone XIV scelse un approccio improntato al sigillo della benevolenza, invitando i giornalisti a «diventare artigiani di verità e di pace».

 

Questo incontro con i media, organizzato solo quattro giorni dopo la sua elezione, testimonia l’importanza che il nuovo papa attribuisce alla comunicazione, come i suoi predecessori: ma Leone XIV scelse di privilegiare una riflessione fondamentale sul ruolo dei media nella società, esortandoli a «disarmare la comunicazione da ogni pregiudizio e risentimento, da ogni fanatismo e perfino da ogni odio».

 

Questo invito a «disarmare le parole» per «disarmare il mondo» rivela una visione in cui le parole e le immagini, che sono così spesso strumenti di divisione e manipolazione, devono diventare vettori di verità e di pace.

 

È ancora presto per giudicare cosa succederà in seguito, ma a differenza di Papa Francesco , i cui discorsi potrebbero essere caratterizzati da una spontaneità a volte disarmante – o disperata, a seconda dei casi – il nuovo sovrano pontefice costruisce i suoi primi interventi con un certo rigore. Ogni frase sembra ponderata, ogni idea articolata , come dimostra il suo riferimento alla comunicazione come atto che «plasma la cultura di una società».

 

 

In altre parole, il 267° successore di Pietro sembra privilegiare una comunicazione che rasserena piuttosto che turbare, che unisce più di quanto divide: possa riuscire a unire le anime di buona volontà nell’unica fede in Cristo.

 

Invitando sottilmente i media a «disarmare le parole», Papa Leone XIV sa in ogni caso che avrà difficoltà a farsi ascoltare in un mondo saturo di informazioni in cui l’oggettività non è più la dimensione essenziale.

 

Per il momento, i giornalisti – testimoni dello spirito del mondo – lo hanno applaudito con entusiasmo, ma come ha dichiarato il romano pontefice, non senza umorismo, forse pensando a come lo giudicheranno i media quando non andrà nella direzione della modernità: «dicono che l’applauso all’inizio non conti molto… Se volete ancora applaudire alla fine, allora… Grazie mille!».

 

Articolo previamente apparso su FSSPX. News

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Papa Leone saluta subito gli ebrei. In nome del Concilio

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Non c’è voluto molto prima che il nuovo pontefice mandasse un segnale all’importante destinatario. Non parliamo dei cattolici conservatori, né degli LGBT, né i tradizionalisti, né i teologi della liberazione: parliamo degli ebrei.   Il 13 maggio, giorno della Madonna di Fatima, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha ricevuto il messaggio personale da papa Prevost, con cui è stato informato della sua elezione a nuovo pontefice della Chiesa cattolica, scrivono le agenzie stampa, che riportano che nella sua nota, Leone XIV si impegna «a continuare e a rafforzare il dialogo e la cooperazione della Chiesa con il popolo ebraico nello spirito della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano secondo».   Il rabbino Capo di Roma – il quale ricordiamo siede anche nel Comitato Nazionale di Bioetica, «sarà presente alla celebrazione della inaugurazione del pontificato, ha accolto con soddisfazione e gratitudine le parole a lui dirette dal nuovo papa», scrive una nota emessa dalla Comunità ebraica di Roma. Il rabbino – che aveva fatto sapere di aver partecipato ai funerali di Bergoglio sabato 26 aprile «nel rispetto dello Shabbat», ovvero arrivando a San Pietro a piedi – sarà presente alla celebrazione della inaugurazione del pontificato. Si dice che saranno presenti altri rappresentanti della religione giudaica.

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Sullo sfondo, vi sono le mancate condoglianze per la morte di papa Francesco da parte dello Stato di Israele, con il governo Netanyahu che avrebbe detto alle ambasciate di cancellare i tweet di cordoglio per la scomparsa del vertice della Chiesa cattolica. Come noto, Bergoglio aveva parlato di «genocidio» a Gaza, provocando l’ira funesta dello Stato degli ebrei e di tanti ebrei in generale – proprio loro, che erano così entusiasti delle sue visite da farlo divenire un cartoon pubblicitario per il ministero del turismo israeliano.   Tuttavia papa Leone non ha scritto solo al rabbino Di Segni, ma alle comunità ebraiche di tutto il mondo. Il messaggio è lo stesso: il pontefice rafforzare il dialogo della Chiesa cattolica romana con loro.   Il rabbino Noam Marans, direttore degli affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, ha pubblicato la lettera sulla piattaforma social X nella tarda serata di lunedì.   «Confidando nell’assistenza dell’Onnipotente, mi impegno a continuare e rafforzare il dialogo e la cooperazione della Chiesa con il popolo ebraico nello spirito della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II», ha affermato Leone nella lettera.   Colpisce come, in pochi giorni dall’elezione al Soglio, il nuovo papa torni a parlare del Concilio Vaticano II. Lo aveva fatto una prima volta nelle prime battute del suo primo discorso al Collegio cardinalizio. Come riportato da Renovatio 21 il vescovo kazako Athanasius Schneider ha notato come sia strano che un papa citi un Concilio ad inizio pontificato, cosa ben rara.   Nostra Aetate è stato un documento fondamentale del Concilio del 1962-1965, che ripudiò il concetto di colpa collettiva ebraica per la morte di Gesù e incoraggiò il dialogo con le religioni non cristiane. La preparazione del documento è stata in gran parte sotto la direzione del cardinale Augustin Bea, presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, insieme ai suoi periti, tra cui l’eccentrico gesuita Malachi Martin, il quale avrebbe fatto conoscere al porporato leader ebrei, come il rabbino Abraham Joshua Heschel, incontrato dal Martin 1961 e nel 1962.  
  Il cardinale Bea incontrò anche Morris B. Abram, presidente dell’American Jewish Committee, e tentò di rassicurarlo sullo stato del documento e sulle controversie contemporanee.   In un articolo del 1966 sulla rivista Look Magazine sul dibattito sugli ebrei durante il Concilio Vaticano II Il giornalista Joseph Roddy affermò che una stessa persona, sotto tre diversi pseudonimi, aveva scritto o agito per conto di gruppi di interesse ebraici, come l’American Jewish Committee, per influenzare l’esito dei dibattiti.   Roddy scrisse che due articoli tempestivi e remunerati del 1965 furono scritti sotto lo pseudonimo di F.E. Cartus, uno per Harper’s Magazine e uno per la rivista dell’American Jewish Committee, Commentary. Nel suo libro del 2007 Spiritual Radical: Abraham Joshua Heschel in America, Edward K. Kaplan ha confermato che Martin collaborò con l’American Jewish Committee durante il Concilio «per una serie di motivi, sia nobili che ignobili (…) principalmente consigliava il comitato su questioni teologiche, ma forniva anche informazioni logistiche e copie di documenti riservati».

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Il documento Nostra Aetate è finito per avere molto più significato di quello contenuto nelle sue parole, e interpretato come un stand-down de facto del cattolicesimo nei confronti di qualsiasi argomento coinvolga gli ebrei, mentre il mondo preparava la strumentalizzazione di una parola di conio recente, «antisemitismo», per etichettare come indesiderabile il discorso di certuni – se non di farli direttamente arrestare, vista l’entrata in vigore in alcuni Paesi di psicoreati a base «antisemitismo».   Una riflessione precisa sull’argomento è stata compiuta dallo studioso cattolico americano E. Michael Jones. «Il dialogo tra cattolici ed ebrei fallì perché, mentre i cattolici consideravano Nostra Aetate un’offerta di pace, gli ebrei la consideravano un’arma nel loro arsenale di guerra culturale» ha scritto il professore filadelfiano nel suo libro Pope Francis in Context. Jones parla quindi dei cattolici presi tra «l’incudine del Vaticano II e le critiche martellanti dei gruppi ebraici, furono apportati».   Analizzando un caso riguardante i cattolici bavaresi, e un libro a riguardo, Jones dice che questi «venivano duramente colpiti, e venivano duramente colpiti solo a causa di Nostra Aetate. Senza quel documento, avrebbero potuto facilmente deviare i colpi ebraici. Con esso, gli ebrei potevano ora usare il vescovo contro il suo gregge come il modo migliore per sventrare il ruolo di qualsiasi cosa nei Vangeli che gli ebrei trovassero ripugnante». Di fatto, la Nostra aetate citata da Leone XIV è divenuta l’arma con cui gli ebrei attaccano i cattolici non appena questi dicono qualcosa che ritengono anche solo vagamente inaccettabile: come, ad esempio, la colpa ebraica per la morte di Cristo, per il quale fu duramente attaccato il film del 2004 La Passione di Cristo come pure il suo regista Mel Gibson, accusato automaticamente di antisemitismo e emarginato via via sempre più da Hollywood.  
  Come noto, la situazione è arrivata al punto che le leggi anti-antisemitismo proposte lo scorso anno in America rendevano tecnicamente proibiti vari passaggi dei Vangeli.   Ciò detto, ci sono voluti anni prima che la situazione tra i due Stati religiosi si normalizzasse. Il Vaticano e Israele firmarono un «accordo fondamentale» nel 1993 e l’anno successivo si scambiarono ambasciatori a pieno titolo. Negli ultimi tempi il rapporto si era deteriorato totalmente. A dicembre 2024 l’ambasciatore del Vaticano in Israele era stato convocato al ministero degli Esteri dello Stato Ebraico dopo che papa Francesco aveva criticato la «crudeltà» degli attacchi aerei a Gaza.   Va anche ricordata l’inquietante presente, prima dell’ultimo conclave, del rabbino Shmuley, personaggio molto controverso. Il rabbino, che tra le altre cose promuove l’azienda di giocattoli sessuali della figlia, è accusato da vari negli USA di essere coinvolto in tanti casi opachi, come con Michael Jackson, di cui era divenuto confidente; poi ne divulgò le conversazioni intime.   Alcuni ora accusano il «rabbino dei VIP» di essere l’«handler» (maneggiatore) del segretario per la Salute USA Robert Kennedy jr., difendendolo a spada tratta dalle accuse di antisemitismo che gli sono pavlovianamente cadute addosso appena è arrivato sulla scena politica.   Lo Shmuley è poi entrato in dibattiti osceni con la giornalista Candace Owens, indicandola come, indovina indovina, «antisemita». Il rabbì sionista, ad ogni modo, ha offerto al mondo video di sé non sempre edificanti.  

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Così, è con sgomento che si è arrivati a poche ore dal Conclave con lo Shmuley a Roma che si faceva fotografare con Parolin. Quale manovra potesse esserci dietro, non possiamo saperlo, ma tanti hanno fatto certi pensieri.     Rimane esemplificativa la storia, ricordata a più riprese da Renovatio 21, di Teodoro Herzl, il fondatore del sionismo sulla cui tomba Bergoglio si lasciò portare da Netanyahu nel 2014, che nel 1903 riuscì a farsi ricevere da papa San Pio X – il papa che comprese e bloccò il modernismo religioso –chiedendogli aiuto per far tornare gli ebrei in Palestina. Il Santo rispose con un sereno, cordiale, netto «no».   «Sostenere gli ebrei nell’acquisizione dei Luoghi Santi, quello non possiamo farlo» disse San Pio X al fondatore del sionismo, rifiutando l’idea di un ritorno degli ebrei nelle terre di Gesù.   «Noi, e io come il capo della Chiesa, non possiamo fare questo. Ci sono due possibilità. O gli ebrei si aggrappano alla loro fede e continuano ad attendere il Messia che, per noi, è già apparso. In questo caso essi non faranno che negare la divinità di Gesù e noi non li possiamo aiutare. Oppure vanno lì senza alcuna religione, e allora potremo essere ancora meno favorevoli a loro».   «La religione ebraica è il fondamento della nostra; ma è stata sostituita dagli insegnamenti di Cristo, e non possiamo concederle alcuna ulteriore validità. Gli ebrei, che avrebbero dovuto essere i primi a riconoscere Gesù Cristo, non l’hanno fatto fino ad ora» proseguì il santo romano pontefice.   «Il nostro Signore è venuto senza potere. Era povero. È venuto in pace. Non ha perseguitato nessuno. È stato perseguitato».   «È stato abbandonato anche dai suoi apostoli. Solo più tardi è cresciuto in statura. Ci sono voluti tre secoli alla Chiesa per evolvere. Gli ebrei hanno avuto quindi il tempo di riconoscere la sua divinità, senza alcuna pressione. Ma non l’hanno fatto fino ad oggi».   Così parlò il papa Santo.  

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